Un racconto di Najwa Bin Shatwan
Traduzione di Federica Pistono
Non avrei mai creduto di tornare nella mia scuola elementare, dopo anni, con i miei figli, come sfollati di guerra. Abitiamo nell’aula sei, sezione quattro, secondo piano. Le finestre sembrano in condizioni leggermente migliori rispetto a quelle delle altre aule, la porta non cigola con il vento, anche se non si chiude. L’umidità, che gonfia le pareti e il soffitto, conferendo a quelle superfici un aspetto lebbroso, presenta l’unico vantaggio di staccare dai muri, insieme alla tinteggiatura, gli slogan e i motti rivoluzionari di un’epoca passata, aiutandoci a dimenticarli.
La nostra aula si trova accanto ai bagni, così, di notte, non siamo obbligati a percorrere un lungo corridoio. Se, però, uno dei bambini ha bisogno di andare in bagno, tutti dobbiamo alzarci e accompagnarlo, avvolti nelle coperte, al lume della torcia di un cellulare. Il freddo, qui, è crudele, come un bombardamento casuale. Mi fa pensare ai poveri del mondo: chissà come vivono? Idee che mi passano per la testa, mentre aspetto che mio figlio o mia figlia espleti i suoi bisogni.
Un altro aspetto che distingue quest’aula, e che non ho notato durante i miei anni di studio in questa scuola, è la sua vicinanza alla tromba delle scale, cosa che rende facile e veloce una fuga verso i piani superiori, se i proiettili provengono dal basso, o verso giù, nel caso in cui un bombardamento piova dall’alto. La posizione dell’aula ci impedisce anche di dover affrontare l’intricata rete di indumenti che intasano, in linee sovrapposte, il lungo corridoio. Quest’aula, tuttavia, presenta anche un difetto: se uno degli undici bagni s’intasasse, saremmo i primi ad annegare nel liquame. Quest’anno, i bambini e io siamo già annegati due volte, e la maggior parte delle nostre cose è andata distrutta. Mentre s’inasprivano i combattimenti, la pioggia aumentava, e l’arrivo degli aiuti è stato ulteriormente ritardato.
Anche così, la permanenza è migliore della situazione che abbiamo vissuto in precedenza. La vita, nella scuola in cui stavamo prima, era un’autentica lotta per la sopravvivenza: saresti potuto impazzire o diventare un delinquente. Un tale si è impiccato nel campo di basket, un altro ha aperto un negozio in un’aula, vendendo beni ai rifugiati a prezzi esorbitanti. Un uomo ha rubato i vestiti del vicino dalla corda dei panni, un altro ha cominciato a litigare con tutti per motivi politici. C’era, fra noi, una cantante popolare, la cui presenza bastava a dividere gli sfollati: alcuni la consideravano una persona speciale, degna di sopravvivere, per altri era una donna di malaffare, immeritevole perfino di vivere in mezzo a noi.
Roba da farsi venire il mal di testa, amico mio. Se non fosse stato per i ragazzi che ci hanno raggiunti e ci hanno portato qui, nella nuova scuola…
Nonostante le condizioni difficili, mia figlia May sta crescendo in fretta. Guardando le sue guance rosee, nessuno penserebbe alla scarsità di cibo, alla carenza di vitamine, all’umidità onnipresente e alla polvere, che si alza ogni volta che soffia il vento. Beviamo acqua salmastra, la muffa si annida in ogni angolo. Dobbiamo fare a meno di molte cose, ci troviamo al primo livello della gerarchia dei bisogni di Maslow, preoccupati solo del fuoco, dell’acqua, del calore e della sicurezza. Dobbiamo affrontare lupi travestiti da uomini, che affilano gli artigli in tempo di crisi. Abbiamo rinunciato al carbone e comprato legna da ardere, ci stiamo piano piano abituando al suo odore sui nostri vestiti, nello stesso modo in cui ci siamo adattati a vivere senza carne, latte e frutta.
Spero che l’inverno duri meno della guerra e dell’odio.
Le nostre abitudini relative al cibo e al sonno sono cambiate. Passiamo lunghe ore al buio, senza acqua né fuoco, in totale isolamento dal mondo. Siamo solidali con gli abitanti delle altre aule, barattando con loro ciò che non possiamo usare, condividendo ciò che possiamo utilizzare tutti. Non si tratta necessariamente di beni materiali, spesso sono canzoni o lacrime. Due dei nostri vicini cantano a turno una canzone popolare, ognuno risponde alla strofa dell’altro. Alcuni di noi si uniscono al canto, altri ascoltano, rapiti dalle parole, altri ancora piangono.
Abbiamo un vicino che soffre di insufficienza renale. Gli uomini rischiano la vita nel tentativo di portarlo in ospedale. Lungo la strada, infatti, infuriano combattimenti feroci. Tutti cercano di fare qualcosa per salvarlo: uno chiama un amico, un parente, sperando in qualche aiuto. A volte, chissà, appare un raggio di luce, una mano ti viene tesa proprio quando pensi di essere arrivato alla fine. Il malato è un giovane sui trent’anni, padre di due figli. Sua moglie ha sofferto così tanto da non reagire più.
Una volta, quando il malato ha avuto necessità di andare in ospedale per la dialisi, i ragazzi della scuola hanno sollevato striscioni bianchi su cui era scritto: Il paziente ha bisogno di dialisi. Lasciateci passare.
I combattenti posizionati sull’altro lato della strada, rispetto alla scuola, li hanno lasciati passare, supponendo che gli striscioni non avrebbero consentito loro il ritorno, giacché i combattenti dell’altro lato erano privi del minimo briciolo di misericordia.
I diabetici, qui, cadono come foglie, impossibilitati ad accedere all’insulina a causa dei combattimenti incessanti e dei tiri dei cecchini.
Un nostro vicino, Turkawi, suggerisce di raccogliere soldi per comprare un generatore. Il Ramadan è alle porte. La prospettiva della liberazione di Bengasi e del ritorno alle nostre case appare solo come un’invenzione mediatica. Avremmo bisogno di acqua fredda, di conservare qualcosa in frigo, forse l’idea di Turkawi non è sbagliata. Dovrò separarmi dall’ultimo anello che ho ancora al dito. La vita, qui, mi ha insegnato a rinunciare a tutto, poco alla volta. Di recente, nella scuola sono nati tre bambini, e non c’era nulla per fermare l’emorragia delle madri. Ho deciso di tagliare la camicia di cotone di Muhammad, per ricavarne degli assorbenti. Piangevo, mentre tagliavo le maniche. Lui, però, non ha avuto più bisogno delle maniche, perché Dio ha deciso che il suo destino si compisse in un ospedale della Giordania.
Dalla finestra, guardo il cielo per un attimo. Non ci sono stelle. Metto la mano sullo schermo del cellulare per attenuare la luce, e torno al materasso, accanto ai bambini. Qualcuno cammina in corridoio, diretto in bagno. Uno dei bambini comincia a piangere. Cerco nel buio, sulla lavagna, qualcosa di pesante che mi riscaldi. La lavagna è diventata in un grande appendiabiti per le nostre cose, in modo che non si bagnino, se piove o se le fogne traboccano. I miei figli usano la lavagna per scrivere e disegnare, ma, quando si esaurisce il gesso, usano le dita e immaginano di vedere ciò che hanno scritto.
May è una rosa che sboccia ogni giorno in un mare di morte. Indossa l’abito bianco che le hai mandato, e sembra una sposa. Quando i bombardamenti s’interrompono, per un giorno o due, scende nel cortile della scuola per giocare con le altre bambine. Ogni tanto, mi alzo e la guardo. Gioca sull’erba e sul fango umido con suo fratello, raccoglie qualcosa da terra, che non riesco a vedere. Mi rattrista che i miei bambini trascorrano la loro infanzia spostandosi di continuo. Per loro, niente istruzione, né giochi, né sicurezza. Chi mai avrebbe potuto immaginare che, un giorno, li avrei portati qui, nella scuola della mia infanzia? Mia figlia scrive sulla stessa lavagna sulla quale ho scritto io: poesia, prosa, aritmetica. Disegna un cuore con il nome di suo padre lontano, un sole, una bandiera, le armi: questo è tutto ciò che sa della Libia. Ben poca cosa.
Ali è tranquillo, ha ancora l’abitudine di mettere insieme oggetti eterogenei. Pensa molto alle braccia di suo padre, amputate da un medico in Giordania. Mi domanda quando lo rivedremo, perché le sue cure durino tanto a lungo. Gli manca tanto. Le sue parole asciugano le mie lacrime. Gli rispondo che suo padre è un eroe, che ha dato le mani e le braccia al suo paese. Il fatto che resterà privo dell’abbraccio paterno per tutta la vita, è qualcosa che ho sepolto in fondo al cuore.
Ho trovato un disegno di mani artificiali nella tasca di Ali. Sembra che stia superando lo shock della perdita delle mani di suo padre. Il suo dolore mi ha fatto riflettere. Sono stata fiera di quanto orgogliosamente abbia rifiutato la richiesta, da parte di un ente di beneficenza, di farsi fotografare accanto ai doni ricevuti.
Aleywa, come lo chiamano tutti quelli che vivono nella scuola, mi aiuta sempre. Sembra più grande della sua età. Tutte le mie speranze sono riposte in lui. Vorrei che vivesse un’infanzia spensierata. Quando dorme, gli rimbocco la copertina e gli canticchio:
Figlio mio, vorrei essere la luce che ti guida,
Un cuscino su cui posare la testa, di notte.
Per via delle sue guance rosee, May la chiamo Gabbia, come il cesto di frutta che le piaceva tanto e che le manca. Pupilla dei miei occhi, basilico, patatina della mamma! Rosa del mio giardino!
Qualche tempo fa, mi ha chiesto di smettere di chiamarla “patata”. Ho anche smesso di chiamarla “rosa del mio giardino”, perché non ripensasse al giardino che ci siamo lasciato alle spalle.
Ieri, una famiglia che è vissuta con noi per nove mesi, se n’è andata. Tutti abbiamo pianto, vedendoli partire. Si sono finalmente procurati una casa in affitto, alla periferia di Tobruk, e ci andranno per il Ramadan. Hanno promesso di tornare a trovarci, abbracciandoci con le lacrime agli occhi. Penso che fossero solo parole, pronunciate nell’emozione del momento. Le condizioni di vita, qui, sono così dure da rendere difficile il solo pensiero di tornare. Stiamo solo cercando di tirare avanti, senza litigare con nessuno.
Nei giorni in cui non ci sono bombardamenti, gli uomini giocano a pallone, e un’atmosfera gaia si diffonde nella scuola. Tutti cercano sempre di coinvolgere Ali, per rallegrarlo, invitandolo a giocare: «Vieni, qui, Aleywa, gioca per tuo papà», gli dicono. Poi lo ricoprono di lodi, e il suo petto si gonfia d’orgoglio. Queste sono le poche occasioni in cui lo vedo ridere. Impugnando un megafono, trovato nel magazzino della scuola, commenta la partita per quelli la guardano dalla finestra, impossibilitati a lasciare le aule. I giovani si affollano intorno a lui, esortandolo a dire questo e quello, anche cose estranee al calcio. Tutti ridiamo.
Alcuni insegnanti ci hanno consigliato di continuare le lezioni per i bambini, in modo che non dimentichino le nozioni apprese. Abbiamo organizzato un orario con le lezioni di arabo, inglese e matematica. È solo un modo per assicurarsi che non smettano di studiare. Nell’ultimo anno, nessuno a Bengasi è andato all’università o a scuola: vanno in guerra, o sono profughi. Più spesso, vanno nella tomba.
Chiunque abbia soldi, lascia la Libia, per ricominciare una vita in un altro paese. Chi ha parenti o amici in altre zone, si rifugia in quel luogo, e i figli tornano a scuola. Poi ci sono quelli come noi, che vivono su stuoie di paglia, sfollati in una scuola o in un altro posto destinato ai rifugiati; cerchiamo, in qualche modo, di ritagliarci una vita.
Voglio una vita migliore per i miei due figli. Li abbraccio nelle lunghe notti, sperando che i bombardamenti finiscano in fretta, mentre le mie lacrime cadono n silenzio. Parlo con loro per aiutarli a non sentire il fragore delle bombe. Ho perso il sostegno che mi offriva mio marito. Non voglio che i bambini crescano in un paese in cui devono lottare solo per rimanere in vita. La mia vita in un orfanotrofio non è stata facile – conosci tutti i dettagli -, vorrei risparmiare loro ciò che ho vissuto io. Per questo voglio restare in vita.
Il nostro vicino è stato ucciso durante la Guerra al Terrore. La sua famiglia era di Sirte e sua moglie era siriana. La famiglia di lei era già fuggita da una guerra. Purtroppo, il funerale del vicino si è tenuto a scuola, nessuno della famiglia era presente. Gli ultimi tempi sono stati terribili: niente acqua, né elettricità, né pane, solo tristezza e lutto, e un bambino che piange e non può fare a meno di bagnarsi, in tanta desolazione. Piange amaramente ogni volta che sente il boato degli aerei e delle bombe. Un vecchio si fa sempre avanti per consolarlo, recitandogli un versetto coranico. Il bambino tira la barba del vecchio, tira la barba e piange.
Ieri, abbiamo piantato cipolle e basilico nelle aiole, per entrare nello spirito del Ramadan e avere qualcosa da fare. Siamo diventati amici dei gatti che hanno occupato la scuola molto prima di noi, e condividiamo il cibo con loro. Averli intorno alleggerisce il peso di questa vita. C’è anche un cane, molto vecchio, che vive con il guardiano egiziano, rifugiatosi qui quando c’è stata un’ondata di massacri di stranieri. Il cane è molto tranquillo e, insieme ai gatti, ci aiuta a smaltire l’immondizia. I ragazzi lo prendono in giro, chiamandolo con il soprannome del padrone, “Bayumi”. Si alza dalla sua cuccia, i suoi occhi sfrecciano a destra e a sinistra, poi, se non trova niente, torna al suo posto e si riaddormenta.
I bombardamenti sono ricominciati, stasera, gli aerei rombano. Devo spegnere il telefono e salvare il messaggio, fino a quando potrò connettermi alla rete e inviartelo, domani. Non ti dico addio, ma arrivederci a Bengasi.
Thoraya
Bengasi, 2016.
Classe Sei, Sezione Quattro,
Scuola di Fermezza e Resilienza.
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