Traduzione di Jolanda Guardi
Boumediene Belkebir è uno scrittore algerino, classe 1979. Ha pubblicato un testo: An-nas al-akhir qabl as-samt (L’ultimo testo prima del silenzio, 2014) e tre romanzi: Khurafa ar-ragiul al-qawi (La favola dell’uomo forte, 2016), Zawj Bghàl (Nome della parte marocchina del confine tra Algeria e Marocco, 2018) e Zanqat at-taliàn (Vicolo degli Italiani, 2019) che è stato inserito nella Long List dell’Arabic Booker Prize 2022. Belkebir è professore universitario e ha lavorato in diversi progetti interculturali di sostegno agli scrittori. Nel 2021 è stato presidente del comitato per il libro e la lettura del Ministero della Cultura algerino.
Boumediene Belkebir Zanqat at-taliani (Vicolo degli italiani), Al-Ikhtilaf, Al-giaza’ir 2021 pp. 7-16.
La traduzione viene pubblicata con il consenso dell’autore, che detiene i diritti.
Devi sapere una cosa su questo quartiere:
è brutto, ma viverci è bello e piacevole
Regina Porter
Et toi, douleur
tu t’obstines
dans les côtes, les poignets
qui seront inertes après notre mort.
Notre cadavre déjà
rampe dans le vivant
qui ne sait comment le déloger.
Marie Claire Bancquart
I
Dalàl Sa‘idi
– 1 –
Via Joséphine o Vicolo degli italiani, come vi si riferiva la proprietaria del palazzo in cui vivo, mi conduce al lungo e tortuoso vicolo Philippe, che si estende in salita verso la moschea Abu Marwàn e in discesa alla sede della Camera di Commercio. Non ho corso giù per il pendio. Mi sono fermata per un po’ vicino ai vasi di piante e rose collocati per abbellire i lati della strada o appesi ai muri e sotto le finestre delle case. Respiro profondamente sotto l’ombra scarsa, appoggiando la schiena al muro di una casa, poi il mio sguardo si posa su un murale gigante sul quale sono disegnati uno di fronte all’altro i volti di due donne avvolti il primo, da una m’laya nera con il ‘ugiar, e il secondo da un safsari bianco luminoso. Vengo attratta dai dettagli dei volti delle due donne tanto che qualsiasi altro dettaglio esce dal mio campo visivo, come se fossero due statue prese a prestito da un bel tempo lontano che non tornerà.
Poi il cammino mi fa finire in vicolo Far‘i, breve e stretto, che mi conduce all’ampia piazza Sidi Cheriat. Ne faccio il giro finché non entro in un’altra strada che porta al negozio di zia Sàliha, forse lì posso incontrare suo figlio Ya‘qub. Tre anni fa risiedevo all’Hotel El-Hana, che si trova in questa strada di media lunghezza e che ha inizio dal limitare di piazza Sidi Cheriat, termina presso il marciapiede della scuola elementare Duwaysiyya Amara, di fronte allo Sheraton e sulla quale si affaccia silenziosa la Place d’Armes, chiamata “moschea Tumbur”; vi si trovano ristoranti popolari e speziali, parcheggi e caffè in un angolo che conduce direttamente a vicoli che portano alla moschea Salah ad-Din al-Ayubi e da qui ad altri vicoli. Ed esattamente di fronte al centro di reclutamento militare, dove una strada stretta lastricata di pietre lo attraversa, poi, dopo pochi passi, si arriva alla prefettura numero 6 e all’Hotel Al-Andalus; questo vicolo ti conduce al lato posteriore dei palazzi con le arcate che si trovano di fronte alla piazza della Rivoluzione – La Cour.
Sono uscita dall’albergo per andare a un negozietto che vende la kisra, il muhagib e i dolci tradizionali e che si trova tra il vecchio caffè Al-Baraka e un altro negozio chiuso, dov’è seduta zia Saliha, come ho sentito chiamarla da alcuni ragazzi mentre li serviva; è una donna sui sessant’anni o poco più, la vedo sempre con una gandura tradizionale e in sua assenza la sostituisce suo figlio Giacobbe, un giovane gentile che possiede tutti gli ingredienti per diventare un uomo completo, cosa che mi ha spinto a continuare a frequentare il negozio per comprare la kisra o il muhagib, mentre in realtà aspetto l’occasione o il caso che sia presente per attirare la sua attenzione e suscitare in lui un po’ di interesse. Un ragazzo con le sue caratteristiche è pronto all’avventura e a continuare i tentativi fino a ottenere qualcosa, ma la sua indifferenza mi sfinisce e, come ogni volta, esco dal negozio delusa. Provo una sensazione mista di amarezza e umiliazione, il cui effetto sul mio morale è indescrivibile e ciononostante cerco di rimanere salda e continuare, per non essere sconfitta e soccombere di fronte alle ripetute delusioni della vita.
Proseguo il cammino in mezzo alle vecchie case, ai negozi, ai caffè e ai banchetti che vendono frutta e verdura e alla folla di gente che spinge da tutte le parti. Avvicinandomi vedo la porta del negozio di zia Saliha chiusa, è una grande delusione, tanto che non mi accorgo di proseguire finché di colpo non mi fermo davanti al caffè dei sordomuti, sotto lo sguardo di Rashid il diavolo, che analizza i dettagli del mio corpo con un’audacia senza pari. Non posso far altro che muovere le gambe rapidamente per liberarmi di quel matto riprovevole, che ha una cicatrice evidente sopra il sopracciglio destro a forma di ferro di cavallo, come se gli fosse caduto qualcosa dall’alto o gli fosse stato lanciata addosso una pietra aguzza, o fosse stato picchiato con uno strumento duro per un crimine che ha commesso. È basso, con la barba arruffata, il ventre prominente, grosse mani con dita tozze che terminano con unghie nere e sporche, la schiena un po’ incurvata, lo trovo sempre vestito con una camicia sporca aperta o con una giallabiyya consunta.
Diversamente dal solito mi ritrovo a percorrere lo stretto vicolo dietro al centro di reclutamento militare, sento il peso del camminare come se attraversassi vicoli stretti e angusti che si chiudono su di me, sopra di me nuvole grigie pesanti, tanto che penso che sicuramente mi piomberanno addosso e cadranno sulla mia testa.
Cerco un cammino più agevole per riprender fiato, finché non mi ritrovo a uscire, questa volta, in via Al-Muwazzi, vicino alla sede del Comune, dove i raggi del sole, bruciata la massa di nuvole sopra di me, continuano a introdursi nel mio corpo freddo arrivando fino al mio animo oscuro e facendo placare la mia ansia e diminuire la tensione; intravedo un giovane accanto a un negozietto che vend elibri usati. Quando mi avvicino all’interno mi appare un uomo di mezza età che sistema i libri sugli scaffali con cura e attenzione evidenti.
Faccio alcuni passi verso la soglia del negozio, poi allontano l’esitazione e senza pensarci entro. Vengo presa da interesse e comincio a prendere un libro dopo l’altro, sfogliandone le pagine, a volte esamino la rilegatura, altre sfoglio la tale raccolta illustrata o leggo la retrocopertina per farmii un’idea del romanzo. Passo così un po’ di tempo tranquilla finché non mi accorgo di una ragazza che sta vicino a me e chiede con educazione se può essermi d’aiuto in qualche modo:
– Stai cercando qualcosa o hai un’idea e posso aiutarti?
Notando il mio silenzio aggiunge:
– Questa è la collana Larousse che ci ha portato solo ieri un migrante dalla Francia, è intonsa, mai aperta prima.
Entra un uomo anziano che attira l’attenzionedella ragazza. Dopo che lo ha salutato noto che dedica un interessa particolare ad alcuni repertori e non passa molto tempo che comincia a commentarli e a porre continue domande sperando di dar via alla conversazione, che si preannuncia lunga. Esco con calma senza far rumore.
Cammino continuando a guardarmi a destra e a sinistra, forse Rashid il diavolo mi spia da un lato del marciapiede o forse è in agguato dietro a un angolo. I miei passi veloci, i miei respiri affannati e i batitti accelerati del mio cuore mi precedono. Cosa che mi accade sempre quando lo vedo all’improvviso e mi tornano alla mente brutti ricordi: somiglia al sovrintendente generale della scuola media, che ancor oggi continua a essere una ferita aperta; nonostante fra loro non vi sia nemmeno lontanamente un legame, il solo pensarci accelera i battiti del mio cuore e mi fa soffrire; sento dentro di me la voglia di scomparire, fuggire o colpirlo a morte.
Sto pensando che il marciapiede sia senza fine quando vedo, alla mia sinistra, il chiosco cinese e mi dirigo a destra in direzione dei portici coloniali coperti per attraversare la strada all’angolo di piazza della Rivoluzione – La Cour. Cammino senza meta tra la folla accalcata, accanto a me uomini anziani e alcuni pensionati con la schiena gettata su panchine coperte dalle chiome degli alberi sempreverdi; ci sono anche delle donne anziane incollate a quei sedili, trascurati dai bambini che le accompagnano che catturano, torturano e braccano le colombe in fondo alla piazza. Ne raggiungo il centro passando per i caffè aperti la sera e alcuni tavoli di venditori di sigarette, arachidi e giochi che ostruiscono il suolo e il passaggio di automobiline telecomandate dei bambini che vanno avanti e indietro in ogni direzione mentre loro, dentro di esse, con le mani si ostinano a usare la portiera o il volante convinti di essere loro a guidarle.
Quando arrivo al caffè Lughlasi mi siedo a un tavolo in un angolo a nord e il cameriere non appena mi vede rilassa i lineamenti del volto. Umar ha piacere che mi sieda al caffè, l’ho notato sin dalle prime volte che sono venuta, e spesso rifiuta il costo del tè e manifesta imbarazzo ogni volta che paleso di voler pagare. In realtà la faccenda mi va a genio e cerco di fingere quel tanto che mi permette di non ferire la mia dignità. Chiedo una tazza di tè e una bottiglietta d’acqua naturale.
Una donna sulla cinquantina, con un foulard color popora trasparente che sembra aver messo a caso, stringe un bicchiere pieno per metà di limonata; alcune ciocche di capelli svolazzano all’unisono con le foglie degli alberi alle leggere folate di vento mentre è impegnata a parlare con un giovane. Dai suoi capelli lisci tinti e dal modo di parlare e di muovere il corpo di lui mi dà l’impressione di essere una ragazza che dispiega tutta la sua civetteria ed eleganza.
A un altro tavolo ragazzi e ragazze si scambiano battute e scherzi, le loro voci, le loro risate e le loro grida ogni tanto si elevano e interrompono il filo dei miei pensieri disperdendo il legame fra le immagini che si susseguono nella mia memoria. Ben presto ciò che era profondamente ancorato nella mia immaginazione cede totalmente il posto ai loro schiamazzi e al loro rumoreggiare, tanto che sono costretta a uscire un’altra volta dal mio mondo, quelle idee e quelle immagini svaniscono e vengono sopraffatte da una luce chiara e offuscante, diventando così confuse e invisibili come se fossero uno spettro che passa nella memoria e ben presto se ne va senza tornare.
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