Articolo di Antonino d’Esposito
Classe 1989, nato a Gerusalemme, Karim Kattan è quello scrittore palestinese che non ti aspetti, che ti sorprende per la delicatezza con cui affronta il dramma del suo popolo e la carezza con cui usa il francese. Ebbene sì, probabilmente Karim Kattan è il solo autore palestinese francofono. Con un dottorato in letteratura comparata ottenuto a Paris-X, una vita divisa tra Parigi e Betlemme, Kattan ha all’attivo due pubblicazioni, uscite entrambe per le edizioni tunisine Elyzad: la raccolta di racconti Préliminaires pour un verger futur (Preliminari per un frutteto futuro, 2017) vincitore del Prix Boccace, e il romanzo Le palais des deux collines (Il palazzo delle due colline, 2021) che ha ottenuto nel 2021 il Prix des Cinq Continents de la Francophonie, il massimo riconoscimento letterario in ambito francofono assegnato annualmente.
La raccolta Préliminaires con cui debutta consta di soli tre racconti, accomunati da due elementi fondamentali: protagonista è una coppia di palestinesi – il cui amore nasce, si sviluppa o cresce lontano dal suolo palestinese- e la relazione amorosa è costantemente subordinata all’altro tema caro a Kattan, ossia la lingua. In tutte e tre le storie, l’arabo è il terzo incomodo, quasi un’amante segreta, un fattore che viene tenuto a distanza volontariamente, ma che, malgrado le persone, torna e si impone quando le barriere mentali crollano e si lascia libero sfogo ai sentimenti veri.
Iodio, il primo racconto, si svolge a Gaza, dove un due giovani, approfittando di un viaggio pagato dall’organizzazione per cui lavorano, si chiudono in una stanza d’hotel vista mare per vivere un fine settimana d’amore. Intrappolati in un’inezia falsamente vacanziera da cui non provano nemmeno ad uscire, uno dei due ragazzi ripercorre la relazione e la propria vita e, da contrappunto alla narrazione, inserisce i ricordi della madre. La donna, attribuendo all’arabo un potere di morte, aveva sempre esortato il figlio ad abbandonare la lingua delle sue origini per parlare le lingue degli altri, quelle in cui avrebbe vissuto in pace e libertà.
Il linguaggio verbale, dunque, si configura subito come il terreno di scontro dove si combatte la guerra della sopravvivenza dei palestinesi fuori dai propri confini. Anche Emilie, protagonista della seconda novella, Bombay, midi, à la fin août 1948, persa nel peregrinare per il mondo al seguito del lavoro del marito e degli sconvolgimenti bellici del primo Novecento, dal Sudan, al Giappone fino in India, lontana dalla cucina della casa di famiglia a Betlemme, riduce sempre più l’uso della parola per dare spazio alla scrittura e al disegno. Dà ai figli nomi che gli altri, i non palestinesi, possono pronunciare senza troppi problemi, ma il richiamo della terra è comunque troppo forte per morire lontani dai profumi dei piatti della tradizione.
Préliminaire pour un verger futur, terzo ed ultimo racconto della raccolta, si svolge a Londra, città in cui un giovane palestinese arriva e dove conosce una compatriota con la quale intratterrà poi una lunga relazione clandestina. Anche qui si ripropone lo stesso schema di coppia: uno dei due è ancora legato alla Palestina, ci è sempre vissuto o ci torna spesso, e l’altro, invece, fa di tutto per tagliare i ponti con le radici, soprattutto linguistiche. È la donna in questa ultima storia a voler essere libera dal fardello della storia personale e nell’ultimo incontro lo dice chiaramente: Je ne serai prisonnière de rien. Ni de toi, ni d’eux à la télé, ni de cette île , ni même de Jérusalem. Quest’odio viscerale, che però nasconde una tremenda sofferenza, che si percepisce mentre osserva alla televisione le immagini della prima Intifada, la obbligano a vivere l’amore in inglese, ma lui a un certo punto cede. Per esprimerle il dolore per un distacco deciso unilateralmente da lei, che gli telefona dal Giappone, le dice in arabo: sakakin fi albi, ho il cuore trafitto da coltelli.
Con una scrittura lirica e densa, in cui nessuna parola risulta di troppo, Karim Kattan fa muovere dei palestinesi in un arco temporale che va dagli anni ’30 ai primi anni 2000, sottolineando in tutti il particolare rapporto di amore-odio per la propria terra che si concretizza, nel quotidiano, nel rapporto con la lingua madre. Un idioma camuffato, evitato, relegato, ma che improvvisamente risorge, risale a galla ai meandri dell’inconscio per dire la cosa più importante: i sentimenti, quelli veri.
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