Papaveri Selvatici di Haya Saleh

Traduzione di Alessandra Amorello

1° Capitolo

Gli incubi di Thoraya

«Scappateeeeeee!»

«Scappateeeeeee!»

Mi sveglio con le urla di mia sorella Thoraya. L’abbraccio cingendole la testa, la stringo al petto. Le prime luci dell’alba sono abbastanza intense da permettermi di scorgere la paura nei suoi occhi. Cercando di confortarla, le dico: «siamo al sicuro qui, non aver paura. Non ti succederà niente, te lo prometto!»

Anche nostra madre si sveglia di soprassalto, esortando Thoraya ad andare a dormire accanto a lei. La bacia e le mette un braccio dietro la testa per farne un cuscino, poi prende a cantare, come faceva prima della guerra:

“Dormi, dormi, mio piccolo tesoro,

ti ho coperta con uno scudo d’oro.

Oh Signore, non ti dimenticar di me

Ti prego, Dio della Misericordia, non ho che Te”.

La mia famiglia vive stipata in una piccola stanza assegnataci dalla zia di mia madre, Sajida, nella sua casa di campagna. Ci sono altre tre stanze in cui vivono i parenti fuggiti dalla distruzione che si è abbattuta sulle città e i villaggi, in cerca di salvezza lontano dai luoghi dove infuriano i combattimenti…

La casa di nostra zia si trova in un villaggio chiamato “Al Nuaman”, che significa papavero, e si chiama così perché in primavera vi crescono i papaveri selvatici. Ogni primavera, le colline e le valli intorno al villaggio sembrano giovani donne in abiti da festa, ricoperti di fiori brillanti, e i campi di grano si estendono in ogni direzione.

Mia zia abita nella stanza più grande della casa col figlio maggiore e sua moglie; la seconda stanza è riservata a mio cugino e sua moglie e nella terza vive un’altra cugina col marito, più i genitori del marito. Non c’è alcun rapporto tra i residenti della casa, ognuno rimane nelle proprie stanze e ne esce a malapena; ogni famiglia è impegnata a pensare al proprio sostentamento. Forse alcuni sono riusciti a sfuggire alla guerra, ma non si rendono conto che il suo fuoco avrebbe continuato ad ardere.

Le voci di mia madre e Thoraya svegliano mio fratello Sufyan. Si alza dal letto, si avvicina alla seienne Thoraya e le dice: «Apri la mano. Questo ti renderà una ragazza coraggiosa».

Thoraya apre il suo minuscolo palmo e Sufyan vi mette dentro un piccolo scarabeo nero. Thoraya emette un urlo di terrore e lui balza indietro, mentre mia madre prende a urlargli contro.

Sufyan è l’unico che riesca a turbare nostra madre e a farle perdere le staffe. Da quando mio padre è mancato e la nostra casa è stata distrutta, lei è diventata un’altra persona: sembra forte, imperturbabile e calma. È raro che ci sgridi, come faceva prima, anzi, per la maggior parte delle volte rimane silenziosa, forse perché ha già la testa piena del rumore dei proiettili e delle esplosioni.

Sufyan lascia la stanza, e gli animi si placano.

Mia madre riprende a cantare per Thoraya e una leggera brezza si intrufola dalla finestra della stanza. Mi rannicchio per terra e prendo a contemplare nostra madre, la cui dolce voce mi inonda l’anima portandomi indietro nel tempo. Sono passati solo pochi mesi, ma mi sembrano più di cent’anni.

Prima della guerra avevamo una casa nella tranquilla città di Raqqun. Tornavamo a casa da scuola senza correre alcun rischio e quando mio padre tornava dall’istituto in cui insegnava fisica, mia madre ci faceva trovare il pranzo. Sento ancora l’odore dei deliziosi piatti che preparava e cucinava, a cui era impossibile resistere. Dopo pranzo andavo con Sufyan a giocare a calcio nel nostro quartiere, oppure uscivo con i miei amici a fare un giro al mercato, o accompagnavo mio padre nella fattoria che aveva ereditato da mio nonno per aiutarlo col raccolto. Pensavo che avremmo vissuto tutta la nostra vita così, felici, in pace e armonia. Poi, è bastata una sola sirena ad annunciare la guerra per porre fine a tutto questo.

Ricordo la notte in cui iniziarono i bombardamenti…Papà ci svegliò tutti, terrorizzato. Aveva il capo scoperto e indossava solo una camicia di flanella e i pantaloni del pigiama. Chiuse bene tutte le finestre e spense le luci. Quando i bombardamenti si intensificarono e la gente prese a urlare, scappammo in direzione dell’ospedale pubblico. Centinaia di famiglie stavano lasciando le proprie case in cerca di un luogo sicuro. C’erano donne, anziani, bambini: alcuni tentavano di ripararsi dalla pioggia di fuoco proveniente dall’alto, altri venivano colpiti dalle bombe lanciate da terra, altri ancora morivano, diventando martiri.

Nostro padre cercò di proteggerci dai bombardamenti col suo stesso corpo. Ci teneva tra le braccia, e noi ci sentivamo al sicuro, perché quelle due braccia forti non avevano mai smesso di proteggerci, non ci avevano mai deluso.

I bombardamenti divennero spietati e gli spari a bruciapelo. La gente correva in ogni direzione. Rivolsi gli occhi al cielo, infuocato di lava incandescente, e poi non riuscì più a vedere mio padre. Mi voltai a cercalo, e lo trovai lì, dietro di me. Stava per cadere giacché era stato colpito a morte dai proiettili. Con la mano destra ci fece cenno di voltarci e andare avanti, mentre con la sinistra premeva sulla parte del corpo dove il sangue sgorgava, fino a quando le mani e i vestiti non ne furono inzuppati. Provai a correre verso di lui per salvarlo. Volevo restare al suo fianco, ma un giovane che si trovava nelle vicinanze mi afferrò per trascinarmi via, mentre tiravo calci e pugni per aria.

Urlai più forte che potevo: «Papà, Papà, Papà!» poi persi conoscenza. Al mio risveglio, la tristezza incombeva sul mondo e i fantasmi avevano preso la città.

Prima che iniziasse la guerra, sentivo mio padre fare congetture su ciò che sarebbe potuto accadere se la guerra fosse scoppiata nel nostro paese. Ne parlava al telefono, o la sera con gli amici al caffè. Diceva che gli altri paesi ci avrebbero uccisi dal cielo mentre i conflitti interni ci avrebbero uccisi dalla terra. A quell’epoca, non avevo dato alcuna importanza alle sue parole, ero sicuro che la guerra di cui si parlava sarebbe scoppiata da qualche altra parte, e che non avrebbe mai potuto raggiungerci!

Quel giorno, il pianto dei bambini, i gemiti delle madri e le preghiere degli anziani si mescolavano. Era la prima volta che sentivo l’odore del sangue. Non riuscivo a sopportarlo e continuavo a vomitare. C’erano macerie ovunque, le macerie mi riempivano il cuore.

Il libro

Papaveri selvatici (شقائق النعمان) è un libro per ragazzi scritto da Haya Saleh e pubblicato dalla casa editrice giordana Al Yasmine. Il romanzo narra le vicende di due fratelli, Omar e Sufyan, sullo sfondo della guerra civile siriana.

Vincitore del premio Etisalat per la categoria “Miglior romanzo per ragazzi” nel 2020, è un’opera che tratta un argomento delicato quale il reclutamento minorile.

In seguito alla morte del padre, colpito dai bombardamenti, il quindicenne Omar, responsabile e introverso, stenta a portare avanti la famiglia, cercando di preservare le precarie condizioni di salute della madre. Sufyan, al contrario, è impulsivo e determinato, e decide di prendere in mano la situazione, reputando il fratello troppo debole per gestirla.

Nel tentativo di sbarcare il lunario, Sufyan si imbatte in due sconosciuti che lo invitano a frequentare un centro religioso, dove i responsabili elargiscono ricompense in cibo, denaro e regali per aver svolto compiti all’apparenza insignificanti. Ben presto però, il ragazzo scopre di esser stato ingannato e che il fine ultimo dei suoi benefattori non è altro che reclutare e addestrare bambini e ragazzi all’arte della guerra.

Le strade dei due fratelli si separano: quando alcuni balordi fanno irruzione nel villaggio per terrorizzarne gli abitanti, anche Omar è costretto a fuggire. Su consiglio della madre si allontana per mettersi in salvo, e con lui ci sono anche Salma, l’affascinante vicina di 13 anni, e Rakan, un ragazzo dal carattere problematico.

Alternando il racconto dei protagonisti, seguiamo da una parte le vicende di Omar, Salma e Rakan in lotta per la sopravvivenza, dall’altra quelle di Sufyan, che cerca disperatamente di scappare dal centro di addestramento.

Riusciranno a ritrovarsi?

Il romanzo getta luce sulle difficili condizioni della guerra attraverso gli occhi di due adolescenti che ne testimoniano le atrocità, pur non dimenticando valori quali l’amicizia, la condivisione e l’empatia nei confronti del prossimo.

Il libro racconta con delicatezza la storia di un Paese che nell’ultimo decennio è stato colpito da una disastrosa guerra civile. Pur essendo destinato ad adolescenti, la bellezza della scrittura e della costruzione dei personaggi principali incanterà anche gli adulti. Le dinamiche del conflitto vengono narrate in modo crudo, ma pacato, alternando momenti di terrore a gioia e umorismo.

L’autrice

Haya Saleh (هيا صالح) è un’autrice giordana di Amman. Classe 1977, ha studiato letteratura presso l’Università Al-Bayt University. Scrittrice, drammaturga, saggista e critica letteraria, fa parte del Consiglio della Jordanian Writers Society.

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