Capitolo I
Traduzione di Federica Pistono
Il sole raggiunse un punto in mezzo al cielo, e tirò le redini del suo carro. Non riportò alcun danno, sostando un attimo a riprendere fiato.
Da quella posizione, scoccava frecce di fuoco, dardeggiando la terra sottostante, una landa riarsa che emanava odore di bruciato. Il calore trasformava i ciottoli in carboni ardenti, la sabbia in brace incandescente, e i cespugli e le piante, un tempo verdeggianti, in ammassi di rami secchi, pronti ad avvampare in una nuvola di fiamme e fumo.
Nessun essere umano viveva in quel deserto, dove il caldo era intollerabile. Vi abitavano solo animali e insetti. Fra gli animali, vivevano in quel luogo principalmente i jerboa, roditori dotati di lunghe zampe posteriori, che si muovevano saltando. Per questo motivo, da quelle parti, l gente li soprannominava zampalunga.
I jerboa vivevano in una grande colonia, composta di ratti appartenenti a tutte le generazioni: anziani, adulti e piccoli. I raggi infuocati del sole non rappresentavano la preoccupazione principale del jerboa o, almeno, non direttamente. Il pericolo derivava dal modo in cui il calore agiva sulle vipere e gli altri serpenti, che si agitavano follemente, sollevando la testa con movimenti convulsi, lasciandosi dietro sentieri contorti, in cui le loro pance disegnavano motivi nella sabbia. I serpenti strisciavano fino a raggiungere la tana di un jerboa, contorcendosi, alla ricerca di un punto riparato dal sole. I serpenti non costruiscono nidi, come gli uccelli, non scavano tane, come i jerboa. Vivono esclusivamente degli sforzi di altre creature. Invadono i nidi degli uccelli, in primavera, per divorare i piccoli e stabilirsi là. In estate, occupano le tane dei jerboa. Questa era stata la più grande catastrofe ad aver colpito i jerboa di Jandouba. Non appena arrivati, i serpenti spalancavano le fauci e affondavano le zanne velenose nei corpi dei jerboa, facendo di loro un gustoso pasto, con le femmine e i piccoli.
I jerboa erano abbastanza intelligenti da scavare una seconda apertura alle loro tane, in modo di poter uscire rapidamente dalla porta posteriore e sfuggire ai serpenti. La famiglia seguiva il maschio, saltando, sbattendo i naso sulle pietre, mentre le lunghe zampe posteriori si lasciavano dietro un gorgo di polvere in quella fuga terrorizzata. Si spostavano il più lontano possibile dalla vecchia casa, fino a raggiungere un posto in cui sentirsi al sicuro, quindi iniziavano immediatamente a scavare una nuova tana.
In questo modo, i jerboa fronteggiavano la minaccia costituita dai serpenti e vivevano una vita felice, giocando e saltando tra loro. Scavavano nuove tane per i piccoli, vedevano formarsi nuove coppie. Erano contenti quando il loro numero aumentava, perché il futuro sembrava sorridere: i loro magazzini traboccavano di grano, così da poter sfamare ogni piccola bocca.
Era la stagione del raccolto, le spighe d’orzo erano mature, e i jerboa di Janduba e dintorni si passarono parola per prepararsi alla mietitura. Svolsero il lavoro in pochi giorni, senza risparmiarsi, finché l’ultima spiga d’orzo dei campi di Janduba non fu raccolta e messa al sicuro nei magazzini sotterranei.
Così, non solo tutti i jerboa di Janduba, con le relative famiglie, avrebbero mangiato a sazietà, ma avrebbero messo da parte scorte di cibo sufficienti per un anno intero.
Il sole, dopo essersi riposato, aveva ripreso fiato. Spronando i cavalli del suo carro, si muoveva attraverso le vastità del cielo, lento e tranquillo.
Dove, poco prima, non esisteva ombra, l’assenzio e la ruta selvatica, la ginestra, lo shwaal e i rami spinosi del nabk proiettavano ora lunghe ombre. Anche i gambi secchi delle spighe raccolte, perfino le orecchie sfrangiate dei jerboa proiettavano ombre.
Il sole non aveva ancora raggiunto la sua meta finale quando, con le ombre dei numerosi arbusti, alberi e cespugli di Janduba, apparve un’ombra nuova e diversa. Le altre ombre restavano al loro posto, allungandosi o accorciandosi, a seconda dei momenti. L’ombra nuova, invece, si spostava rapidamente. Non era l’ombra di un branco di lupi, volpi o conigli. Era larga e lunga, l’ombra di una carovana che arrivava a Janduba: cinque cammelli, tre asini, quattro cani, un cavallo e quaranta persone, uomini, donne e bambini.
All’arrivo del gruppo, i jerboa cominciarono a saltare tutto intorno, cercando di rassicurarsi a vicenda. Osservavano, terrorizzati e sbalorditi, le ombre gigantesche avanzare verso di loro. Un vecchio jerboa si strinse tristemente le mani, poi si rivolse ai figli e ai nipoti intorno a lui.
«Dobbiamo stare attenti», disse. «Questi estranei potrebbero fare del male alla nostra comunità pacifica. Sono pronti a devastare la nostra terra, portando distruzione e morte».
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