Lettera a John Fante di Najwa Bin Shatwan 

Traduzione di Federica Pistono

4 settembre 2023

  Caro John,

  Ho lasciato la Sicilia, diretta verso la tua casa, in Abruzzo.

  Un lungo viaggio, che sono stata costretta ad affrontare in pullman, a causa dei prezzi elevati di biglietti aerei e ferroviari.

  L’Italia e il resto dell’Europa si trovano ad affrontare una crisi energetica dopo la guerra russo-ucraina, scoppiata due anni fa, una guerra che si è riverberata sui prezzi di tutti i prodotti, dagli alimentari al carburante ai medicinali, a tutto ciò di cui una persona ha bisogno per vivere.

  La vita qui è cambiata molto, John. Un anno dopo l’epidemia di Covid, direttamente sulla scia del virus è arrivata la guerra russo-ucraina. La gente è come un pugile che, subito dopo aver ricevuto un pugno sul naso, si alzi solo per riceverne un altro.

  Penso di doverti spiegare la faccenda, adesso. La guerra che l’Europa e l’America hanno intrapreso in Ucraina contro la Russia non era stata prevista da nessuno; neppure i servizi segreti europei, che sono costantemente informati nel dettaglio delle questioni che riguardano il Medio Oriente e l’Africa, sono riusciti a cogliere un segnale di ciò che Putin si preparava a fare.

  Si tratta di servizi segreti specializzati a scoprire quando dormiamo e quando ci svegliamo, in Medio Oriente e in Africa, cosa amiamo e cosa odiamo. Eppure, nessun servizio segreto ha scoperto l’intenzione di Putin di scatenare la guerra e la sua volontà di sconvolgere il mondo e creare un nuovo equilibrio di potere, forse perché Putin stesso è stato un agente segreto, capace di ingannare i servizi d’intelligence. Permettimi di non trattenere una risata, a questo punto.

  Il pullman che mi ha condotto da Agrigento a Napoli era affollato di gente semplice e malmessa. Con noi viaggiava un ubriaco, che non ha mai smesso di vaneggiare, infastidire i passeggeri e litigare con l’autista, che non si è curato molto di lui, e gli ha impedito di disturbare soltanto nella prima parte del viaggio.  Dopo aver attraversato lo Stretto di Messina, durante una pausa, quell’uomo non ha fatto altro che comprare una bottiglia di birra, scolarla, salire di nuovo sul bus sempre più ubriaco, per proseguire con noi verso Napoli, completamente sbronzo.  

  Accidenti a lui, l’autista. L’ubriaco era seduto accanto a me, le sue mani e i suoi piedi mi colpivano ogni volta che si muoveva. La pizza che aveva con sé avrebbe potuto essere inclusa nel Guinness dei Primati, tanto grande e fetida da inquinare il pullman all’infinito.

  Poi si è spostato sui sedili anteriori e ha cominciato a scherzare con alcune ragazze, facendoci ridere, prima di perdere le forze e piombare in un sonno profondo, dopo aver sollevato i piedi sul bracciolo della poltrona di fronte a lui.

  Nel pullman aleggiava un tanfo nauseabondo, un mix di odori disgustosi, scarpe, uova, formaggio, salsiccia e sonno, ed echeggiavano continui squilli di telefoni. Era tutto uno scambiarsi conversazioni banali, che duravano per ore, del tipo: «Che cosa hai mangiato, amore mio? Che cosa hai bevuto, amore mio? Che cosa stai facendo, adesso?»   

  Itinerario, orari di arrivo e qualche pettegolezzo. C’erano telefoni che rumoreggiavano con i videogiochi, nel disinteresse dei proprietari che giocavano come se si trovassero in una sala da gioco, c’erano persone che si addormentavano, ascoltando musica noiosa. Un baccano continuo, per non parlare di chi russava, un ronfare che ha iniziato il suo ciclo vitale alle tre del mattino per non smettere più, come una canzone incantata sempre sulle stesse note, finché l’autista non ha annunciato al microfono l’arrivo alla stazione dei pullman di Napoli.

  Nessun dubbio che anche tuo padre, Nick Fante, quando ha lasciato Torricella per l’America, non abbia dovuto affrontare questo genere di disagi durante quel lungo viaggio. Non esistevano cellulari, allora, né social media, né punti di ristoro lungo la strada per la vendita di birra e liquori, né imitazioni cinesi di scarpe sportive per i piedi del popolo, con emissioni maleodoranti destinate ad ammorbare gli spazi chiusi, né la cabina con il bagno incorporata nel bus.

  Alla stazione di Napoli, dove siamo arrivati alle otto del mattino, faceva piuttosto freddo. C’erano persone che dovevano cambiare pullman per raggiungere altre destinazioni, e tanti sconcertanti individui dalla pelle ricoperta di tatuaggi, quasi a sembrare creature emerse dai dipinti di Picasso e Dalì al tempo stesso.

  Ho dovuto aspettare tre ore per prendere il pullman per Pescara, dove sarei arrivata alle ore tredici. Uno degli autisti mi ha consigliato di non sedermi per terra, perché il pavimento era sporco, contaminato dall’urina. Sono rimasta in piedi per tre ore. Avrei preferito che quell’autista non mi avesse informata.

  C’era una biglietteria aperta e un bar lontano, in fondo alla stazione, che non avrei potuto raggiungere senza il disagio di trascinare avanti e indietro il bagaglio per centinaia di metri, né avrei potuto lasciare le valigie incustodite, per via del pericolo di furto. Napoli sarebbe parsa malconcia perfino al governo della Libia e ai suoi politici.

  C’era una vecchietta rinsecchita, scesa dal mio stesso pullman, che aveva perso il treno per Roma, e che mi ha annoiato continuamente con le sue lamentele e la sua rabbia. Alla fine, per liberarmi dei suoi strilli, mi sono offerta di comprarle un biglietto sostitutivo per la corsa successiva. Che Dio abbia pietà dei viaggiatori che ha afflitto con le sue chiacchiere, e perdoni me di averli condannati per tre ore, fino a Roma, a viaggiare con una radio dalla potenza nucleare.

  La vecchia si è zittita, ha infilato il biglietto nella borsa dai bordi sfilacciati, ha tirato fuori un pacchetto di sigarette e ha cominciato a fumare con gusto. La pausa fumo ha rappresentato un gran sollievo dalle sue ciance e, quando l’ho vista in silenzio, mi sono scusata in segreto con le multinazionali del tabacco per essermi sempre opposta al fumo in modo incauto e frettoloso.  

  Pescara

  Due giorni di riposo con la mia amica, professoressa di Letteratura araba all’Università di Pescara, due giorni in cui ho dimenticato il lungo e noioso viaggio iniziato in Sicilia.

  Grazie a lei, il mio corpo ha trovato sollievo dalle asperità della strada. Ho dormito e riposato, prima di trasferirmi per un mese a Torricella Peligna.

  Ho scambiato con la mia amica piacevoli conversazioni, cucinato la pasta, l’ho accompagnata alle lezioni all’università, ho dialogato con le studentesse dei corsi di lingua e letteratura araba, ho preso due volte il caffè nel bar di fronte all’università, abbiamo mangiato un’autentica pizza al centro della città, non lontano dalla stazione ferroviaria di Pescara e dalla casa.

  È stata una pausa davvero rilassante.

  Poi sono partita, viaggiando in treno fino a Lanciano. Da qui, la direttrice del Festival John Fante mi ha accompagnato in auto fino a Torricella. Tutto è andato bene.

  Sul treno, mi trovavo in uno scompartimento in cui una donna sedeva di fronte a una ragazza, nei sedili situati sui lati opposti. La scena mi ha ricordato il racconto La siesta del martedì di Gabriel Garcia Marquez. La donna non ha detto “Faresti meglio a chiudere il finestrino, altrimenti i tuoi capelli si riempiranno di fuliggine”, né la ragazza si è alzata dal suo posto, posando a terra le sue poche cose: un sacchetto di plastica contenente del cibo e un mazzo di fiori avvolto nella carta di giornale.   La ragazza non si è seduta sul sedile opposto, lontano dal finestrino, di fronte a sua madre. Quella mattina, le due non indossavano abiti modesti. La madre non sembrava adulta come dovrebbe essere una madre, non aveva vene azzurre sulle palpebre, non aveva un corpo piccolo, morbido, informe o drappeggiato in un abito da suora. Non aveva una borsa posata in grembo, né una pelle lucida pur essendo screpolata.

  No e poi no. I tempi sono cambiati.

  Possiedo un’acuta immaginazione letteraria, che si risveglia quando mi trovo in mezzo alla gente e nascondo la mia identità di scrittrice.

  Il treno sostava in tanti paesini, che sembravano tutti simili tra loro. Ho annotato i loro nomi sul mio taccuino, per non dimenticarli: Francavilla, Tollo, Ortona, San Vito Lanciano.

  È salita una giovane coppia con un neonato nel passeggino. Due ragazzi simpatici, provenienti dall’Ucraina. A lui piaceva guidare la macchina, metteva la mano sul ginocchio come se fosse la leva del cambio, sincronizzandosi con lo sferragliare del treno, simile al rombo di una vecchia auto. Mi hanno permesso di prendere in braccio il loro bambino, che continuava a guardarmi come se il mio volto gli fosse familiare.

  Il giovane mi ha raccontato di essere arrivato, con moglie e figlio, due mesi prima, fuggendo dalla guerra, dopo che la loro casa di Kiev era andata distrutta nel crollo del palazzo. Parlava bene l’inglese, portava gli occhiali, aveva una barba leggera che non l’avrebbe distinto da un giovane siriano. Ha detto che, per la prima volta, il loro bimbo di sette mesi non manifestava paura in braccio a una persona sconosciuta, né scoppiava a piangere tra le sue braccia né mostrava stupore davanti a lei. Forse a unirci era il legame del terrore della guerra, un legame grazie al quale lo spirito del piccolo non mi aveva considerato estranea a lui.

  Sono scesi a Ortona.

  Mi hanno salutato, sono stati molto educati.

  Il treno ha attraversato una galleria di montagna, in cui si aprivano nella roccia finestre affacciate sul mare: uno spettacolo magnifico, sembrava la scena di un film che narrasse eventi accaduti nel diciannovesimo secolo.

  Prima di arrivare all’ultima stazione, Lanciano, il treno si è fermato all’improvviso in mezzo a un fitto bosco di pini, emettendo un forte stridore, come se chiamasse un branco di lupi.

  I pochi passeggeri rimasti a bordo si chiedevano perché il treno si fosse fermato, perché vibrasse, e sono rimasti a guardarsi intorno dai finestrini, sperando di vedere qualcosa di strano che potesse spiegare il motivo dell’arresto del vecchio convoglio.  

  C’era una ragazza dai capelli neri e unti, spioventi sul viso, che cercava disperatamente di sporgere la testa dal finestrino chiuso, come se avesse trovato un’occasione per dimostrare la sua stupidità.

  Siamo rimasti per qualche istante fermi sui binari, in mezzo al bosco, prima che i vecchi motori si riavviassero e il treno si scuotesse, emettendo un fischio terrificante.

  Il treno ha proseguito la sua corsa fino a Lanciano, siamo scesi dalla scaletta troppo ripida della stazione per ritrovarci in un paese molto piccolo, tant’è che l’abbiamo attraversato passando semplicemente dall’altro lato della ferrovia, attraverso un corridoio di cemento realizzato per consentire il transito dei passeggeri. Non era troppo sicuro, ma almeno esisteva…

  Dalla piccola stazione, mi sono voltata a guardare il treno alle mie spalle, e ho visto che era un enorme, decrepito blocco di ferro che somigliava al castello errante di Howl nell’omonimo film di animazione. Dubitavo, però, di essere la ragazzina novantenne protagonista della nuova versione.

  Non saprei dire come mi abbia riconosciuto Loredana, una degli organizzatori del Festival John Fante, che è venuta a prendermi con la sua auto per portarmi a Torricella Peligna, dove vive anche lei.

  Più tardi, mi ha confessato di essersi sbagliata e di non avermi riconosciuto subito, quando sono scesa dal Castello errante di Howl, e di essere andata a stringere la mano a un’altra donna.

  Avevo con me una piccola borsa per i vestiti e uno zaino, contenente un computer, i documenti personali, un pacchetto di caffè e un po’ di pane e formaggio. I generi alimentari mi erano stati dati dalla mia amica, perché sarei arrivata in paese di sera, avrei trovato i negozi chiusi e non avrei avuto niente da mangiare.

  La strada di montagna era splendida e tranquilla, come la si immagina leggendo i romanzi classici americani, specialmente La via del tabacco di Erskine Caldwell. Loredana si destreggiava tra le curve guidando in modo professionale, parlandomi del luogo. Abbiamo chiacchierato come due vecchie amiche.

  Il sei ottobre, un’ora prima del tramonto, mi sono ritrovata nella tua tenuta, in quella che, nei tuoi discorsi, chiamavi “la tenuta di John Fante”. Quando l’auto è entrata in paese, hi visto il tuo grande ritratto su un’insegna di ferro, e credo di essermi detta: “Ciao, buonasera, John Fante”.

   Poi, ho visto un’altra fotografia affissa alle mura dell’ex albergo La Stella, nel centro del paese, e mi sono detta: “Uno scrittore va e uno scrittore viene, tra loro può passare tanto tempo e possono verificarsi tanti cambiamenti, ma la letteratura continua a vivere in ogni circostanza. La letteratura e le arti superano i confini e le distanze tra le persone”.

  Sono passata davanti ai due alberghi che avevo già visto, quando sono venuta in luglio per ritirare il Premio letterario John Fante alla carriera.

  La piazza del paese era deserta, soffiava una fredda brezza serale.

  Sono entrata nella casa che il comune di Torricella mi ha messo a disposizione per scrivere.

  La proprietaria mi aspettava per consegnarmi le chiavi e spiegarmi il funzionamento di gas e acqua. È stata così gentile da portare un piatto di “ferratelle”, i dolci abruzzesi fatti con le sue mani da offrire agli ospiti.

  Abbiamo fatto una passeggiata veloce per il paese con l’auto di Loredana, che voleva mostrarmi il borgo prima del tramonto. In paese, ho potuto vedere molte case antiche sulle vette dei colli, affacciate sulle montagne e sulle vallate verdeggianti.

  Un paesaggio così pittoresco da suscitare in me il desiderio, in quel momento, di possedere una casa con una vista così affascinante sulla natura.

  Alcune abitazioni erano effettivamente vuote, altre erano abbandonate e chiuse perché i proprietari vivevano fuori, su altre ancora era affisso il cartello “vendesi”.

  Villa Scozzo era quasi deserta, abitata soltanto da undici persone!

  La tua tenuta è bella, John, quieta e pulita, abitata da circa milleduecento anime, a meno che qualche donna non partorisca proprio mentre scrivo queste righe, e la popolazione non aumenti di qualche unità.

  Non credo però di aver visto qui donne incinte, ma solo un gran numero di anziane e anziani, che riempiono il centro del paese, escono al mattino per la spesa e al pomeriggio per una passeggiata, ti osservano da ogni vicolo, accompagnati da una persona di famiglia, per realizzare la giusta dose di moto quotidiano prima che tramonti il sole, per poi rincasare, cenare alle otto e andare a dormire subito dopo.

  Devo dirti, John, che c’è una piccola biblioteca, dotata di internet e di un moderno, bellissimo cinema che porta il tuo nome, che le tue fotografie sono dappertutto, e che sei l’orgoglio di questo paese, che sorge a novecento metri di altitudine, sospeso tra la montagna e il mare.

  Un paese che si unisce agli altri comuni vicini per ricordarti e celebrarti, organizzando un Festival di letteratura e di vita a te dedicato.

  Grazie a questo Festival, io, una scrittrice straniera, araba, sono venuta qui e ho ricevuto un premio a tuo nome per ciò che ho scritto.

  Caro John, il successo dei nostri libri può arrivare mentre siamo in vita oppure più tardi, com’è destino di molti scrittori, che riacquistano una vita, sono apprezzati e hanno successo soprattutto dopo la morte.

  Penso che tu appartenga alla schiera di quelli che hanno cominciato a vivere dopo la partenza per un’altra esistenza.

  Prima mattina a Torricella

   Il sole splende dolcemente al mattino presto, e tende a diventare più caldo quando ci si avvicina a mezzogiorno e poi, man mano che la giornata avanza.

  La gente è gentile con un’estranea, la saluta e le pone tante domande. Penso che le mie informazioni personali abbiano fatto il giro del paese in un paio di giorni, raggiungendo anche chi non mi ha ancora incontrato.

  Ci sono, qui, tanti gatti di tutti i colori, la maggior parte di quelli che ho avvicinato sono maschi. Sono buoni, passeggiano placidamente nel tranquillo paese, e la loro quantità indica che, sicuramente, trovano cibo e riparo.

  Il paese è pulitissimo, non c’è traccia di immondizia, Roma ne sarebbe invidiosa se solo si facesse un paragone.

  Qui il Comune è ben organizzato, grazie a un sindaco giovane e attivo, che si occupa egregiamente della raccolta dei rifiuti e dei servizi di base.

  Le strade non sono più buie come un tempo, al calar delle tenebre, e i fantasmi e i lupi non possono più ghermirti, perché i lampioni si illuminano automaticamente ogni sera fino all’alba del giorno seguente.  

  I boschi di pini si estendono sui due lati del paese e, di notte, il luogo diventa tetro e spaventoso. Ho sentito dire che i lupi si avvicinano ai giardini e ai frutteti, annusando cibo e tracce di gatti, cuccioli, galline domestiche e conigli selvatici.

Io amo vivere immersa nella natura, nei luoghi popolati di animali.

  Caro John,

  devo parlarti del fabbro del paese. Credo che sia una persona che si considera autorizzata a parlare di tutto, indipendentemente dalla veridicità o meno delle cose che dice.

  Quando ha saputo che sono una scrittrice premiata dal Festival John Fante, ha attivato la sua sensibilità letteraria e mi ha raccontato tante storie. Fra queste, quella secondo cui la tua vera casa non sarebbe quella acquistata dal Comune con l’intenzione di trasformarla in un museo a te dedicato, ma un’altra casa, accanto a quella in cui abito io. La tua sarebbe una famiglia povera… Mi ha consigliato di tenere per me questo segreto!

  Non so perché tutto ciò debba restare segreto, forse si tratta solo di una persona che vuole creare intorno a sé un alone di mistero.

  Nel piccolo negozio di Pino, pieno di cose inimmaginabili, ho trovato, in mezzo alle merci, una piccola signora anziana in carne e ossa. Credevo che la vecchietta fosse in vendita, ma in realtà si trattava della madre del proprietario.

  Nel negozio, ho trovato molte canzoni inglesi e Mark Knopfler la faceva da padrone, con la sua voce che diventava impercettibile non appena si metteva piede in strada. 

  Ho visitato dimore storiche i cui proprietari hanno avuto un ruolo pionieristico nella storia del paese o, in generale, nella storia d’Italia: la casa del dottor Minetti, casa Persichetti, casa Di Paolo.

  Ho ascoltato una guida turistica che illustrava la storia del paese, ho visto, all’interno delle vecchie dimore, tutti gli oggetti dei proprietari defunti, conservati perfettamente, e ho provato un moto di tristezza per la caducità e la brevità della vita, non importa quanto duri.

  L’uomo lotta per mettere insieme tutto ciò che trova intorno a sé, poi, in un istante, si lascia alle spalle ogni cosa, senza portarsi via nulla. Tant’è vero che un tavolo, una sedia, una posata, una bottiglia di vino durano più a lungo di chi li ha ideati e realizzati.

  La vita è così, splendida e fragile.

  Visitando le case del paese, ho chiesto della casa della tua famiglia. Dove si trova?

  Mi è stato detto che il Comune, in accordo con un altro Comune, l’ha acquistata per restaurarla e farne un museo dedicato a te.

  Oggi Torricella, dall’Abruzzo, apre una finestra sul mondo per accogliere tutti in tuo nome, John. Quindi, riposa in pace nella tua tomba.

  La terra, qui, tiene viva la tua memoria e ti regala una vita più lunga di quella che hai vissuto, gloria ed eternità. 

  L’ultimo giorno

  Caro John,

  mi vieni in mente grazie alla tua grande fotografia incollata sulla parete del vecchio albergo in Piazza del Municipio.

  Sei un po’ accigliato, ma non importa. Ti invito a bere il caffè mattutino e a parlare di letteratura e scrittura. Un po’ di conversazione ti cancellerà il cipiglio dalla fronte e migliorerà il tuo umore. In paese ci sono tre bar. In quale preferiresti prendere il caffè? All’interno o all’esterno?

  Il tempo è favorevole, soleggiato, non freddo, un tavolino fuori, sul marciapiede, sembra una buona opzione, con una sigaretta e una canzone:

  “Robertino…Per un bacio piccolissimo”.

  Le ragazze preparano il caffè per i clienti e lo servono caldo. A me piace il caffè caldo. E tu, a quale temperatura lo preferisci?

  Ho letto quello che tuo figlio Dan ha scritto su di te, sulla tua famiglia, sul fumo, l’alcol, la rabbia, i film e la scrittura, ma non ho trovato nulla, nei suoi discorsi su di te, che avesse a che fare con il caffè.

  È il mio ultimo giorno a Torricella.

  Sono triste di dover dire addio a questo posto così bello e tranquillo.

  Ma prometto di ritornare, quando l’inverno sarà passato e saranno sbocciati i fiori di primavera.

    Quindi aspetta la primavera, figliolo, perché tutte le strade portano a Torricella Peligna.

  Torricella Peligna

  Ottobre 2023

                                                           Najwa Bin Shatwan    

Traduzione di Federica Pistono

Najwa Bin Shatwan

Najwa Bin Shatwan (1970) è un’accademica e scrittrice libica. È autrice di diversi romanzi, raccolte di racconti e opere teatrali. Nel 2009-10, è stata scelta come una dei trentanove migliori autori arabi sotto i quarant’anni dal progetto Beirut39 dell’Hay Festival. Nel 2018, l’autrice ha vinto una borsa di studio Banipal per la scrittura creativa. Nel 2018, la sua raccolta Catalog of a Private Life (2018) ha vinto l’English Pen Translates Award. Nel 2019, la sua raccolta di racconti Serendipity (2019) è stata selezionata per l’Al-Multaqa Short Story Prize. Il suo romanzo I recinti degli schiavi (Atmosphere Libri, 2023) è stato selezionato per il Premio Internazionale 2017 per la narrativa araba (IPAF). Il suo ultimo romanzo, Concerto Quirina Eduardo, edito nel 2022, è giunto nella sestina dell’IPAF del 2023. Sempre nel 2023, la scrittrice è stata insignita del Premio John Fante alla carriera Vini Contesa 2023, decretato dalla giuria tecnica composta da membri di L&Gend, gruppo di ricerca dell’Università Gabriele d’Annunzio di Pescara/Chieti, con la seguente motivazione: “Per aver diffuso, attraverso le sue opere, una letteratura che ha affrontato temi universali quali le discriminazioni razziali e di genere, ricorrendo a un linguaggio ora altamente simbolico ora diretto. I personaggi dei romanzi, racconti e opere teatrali di Najwa Bin Shatwan, uomini e donne, pur muovendosi in contesti diversi, si fanno interpreti di quell’anelito universale che è il desiderio di libertà e di uguaglianza”.

Il suo romanzo Roma Termini, ambientato a Roma e incentrato sulla vita degli immigrati, è in corso di pubblicazione.

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