Sierra de muerte di Abdelouahab Aissaoui

Traduzione di Antonino d’Esposito

Mentre fissava il cielo carico di nuvole, Pablo urlò:

“Sono tre anni, Manuel, o mi sbaglio? Sono già passati tre anni dalla caduta di Barcellona e noi, qui, continuiamo a spalare la neve dalla ferrovia di Djelfa.”

“E che differenza fa? L’ultima volta non l’abbiamo spalata sulla Sierra de Muerte!”

Gli tirò la pala di mano e lo guardò arrabbiato:

“Fanculo tutti i comunisti della tua specie. Fosse per te, difendere la Spagna equivarrebbe alle cure profuse dal signor Caboche per le sue tasche.”

“Non intendevo questo!”

Si stava accingendo a parlare quando una mano gli batté sulla spalla e poi si allungò reggendo il badile. Mi voltai e, dietro di lui, c’era lo spahi[1] Ahmad:

“Finisci il lavoro, per favore. Tra qualche minuto l’ufficiale Gravelle sarà qui.”

Non era l’unica volta in cui Pablo aveva fatto un casino, spesso le sue grida d’ingiurie erano giunte a chi gli stava attorno. Gesticolando con le mani, provocava le guardie arabe e, nonostante la maggior parte di esse non ne comprendesse la lingua, l’espressività dei gesti non lasciava nulla all’immaginazione. Gli si avvicinavano e se ne andavano via solo quando era il capo ad ordinare loro di allontanarsi. Lo spahi Ahmad sapeva in parte cosa era successo sulla Sierra de Muerte e, parimenti, comprendeva quanto si sarebbe adirato Gravelle nel momento in cui avesse scoperto lo scompiglio messo in piedi da Pablo, non lo avrebbe assolutamente tollerato e gli avrebbe fatto passare i giorni a venire nel carcere di Caffarelli.

A fine lavoro, risuonava il fischietto della guardia. Ci mettevamo in fila reggendo i picconi e camminavamo in linea retta, completamente circondati dalle guardie arabe e seguiti dal capo a cavallo. Fatto qualche passo, si sentiva il fischio del treno annunciare la terza e ultima corsa della settimana.

Benché spalare la neve non rientrasse nei nostri compiti, talvolta la direzione era costretta a farcelo fare, come quando le precipitazioni erano abbondanti lungo la strada che collegava la città al campo di internamento, o sulla ferrovia. Capitava pure che scendessimo nella piccola cittadina per pulire la strada principale e, liberi dalla sorveglianza degli spahi, passeggiavamo vicino al municipio e persino all’ufficio postale.

Nel tragitto, mi strofinavo le mani coperte di macchie viola. Il freddo le indeboliva in modo spaventoso e le faceva diventare di un colore che mi inquietava. Acceleravo l’operazione e ci alitavo sopra con molta forza, così, dopo qualche minuto, riprendevano il loro colorito naturale e la mia paura di doverle un giorno amputare svaniva. Quasi non pensavo a niente durante la marcia; prendevamo a destra e poi a sinistra, oltrepassavamo gli sparuti edifici, attraversavamo la strada principale allontanandoci dalla ferrovia per scorgere l’altura dove si ergevano le nostre tende. Nello stesso modo, sgombera di qualsiasi cosa, eccezion fatta per dei soldati in discesa, si mostrava a noi la strada che conduceva lassù. Eravamo spronati a camminare sotto le urla delle guardie, ci affrettavamo per veder apparire i fili spinati intorno alle tende e lì mi rendevo conto di essere arrivato ad Ain Srer.

Pablo camminava ancora davanti a me, lo sentivo borbottare sottovoce; afferravo soltanto la frase di maledizione che continuò a ripetere durante i mesi che avevamo passato insieme a Vernet d’Ariège, il campo di detenzione. Si era portato dietro quella bestemmia anche a Djelfa. Lo avevo pregato di dimenticarla, almeno quando uscivamo, ma ogni giorno mi dimostrava il contrario. Sierra de Muerte era la maledizione di molti altri, non solo nostra, di quelli che erano lì e, forse, alcuni di quelli che ci eravamo lasciati alle spalle nel sud della Francia. Quel giorno, con noi c’erano anche degli anarchici. Ne ricordo i volti pallidi mentre, in piedi presso le porte del campo, ci dicevano addio a Vernet  d’Ariège. Fu un giorno che difficilmente potrò cancellare dalla memoria. Persino Pablo sembrava diverso, era più ottimista da quando aveva saputo che saremmo andati in Africa. Era convinto che l’Africa fosse quella che aveva letto nei viaggi d’avventura, un posto in cui si cacciavano leopardi ed elefanti; eppure, rimase zitto quando un giovane francese spuntò tra noi e gli altri e disse:

“Moriremo in colonie infestate dalle malattie e dalla fame. Ci spediscono lì solo per crepare. Quelli che sono internati laggiù hanno detto così nelle lettere. Sono andati là e non sono tornati. Non voglio lasciare Vernet.”

Era la terza o la quarta? Non mi ricordavo più bene tutti i dettagli, la memoria aveva cominciato a venirmi meno, si restringeva. Anche il numero di quanti erano stati raggruppati insieme a noi mi sfuggiva; io, Pablo e qualche altro spagnolo e dei polacchi. Ci dicevano:

“Dovete fare i bagagli, lascerete Vernet.”

Non ci azzardammo a fare domande, ma rimanemmo zitti mentre legavamo le borse e, prima di uscire dalle stanze, fummo convocati uno a uno e in gruppetti nell’ufficio della direzione per prendere le impronte. Poco dopo, trascinando la valigia, mi ritrovai insieme agli altri al portale del campo. Mi accostai a Pablo e gli mormorai:

“Non devi fare chiasso, non devi fare un bel niente, tranne spalancare le braccia a quei miserabili come te.”

Si erano già avvicinati e lo scambio di abbracci era continuato fino all’arrivo dei camion. Ci fecero salire dietro e non passò molto tempo che si misero in moto velocemente in direzione sud. Le mani continuarono a agitarsi verso di noi da lungi e le lacrime a scorrere dalle palpebre dei vecchi amici. Quello fu l’ultimo addio che demmo ad alcuni volti, altri li rincontrammo a migliaia di chilometri lontano dall’Europa.

Non mi è mai piaciuto mettere a confronto Vernet d’Ariège e Ain Srer. Sapevo che Vernet era il paradiso dei detenuti, ma la questione mi pareva differente. La collinetta del campo di detenzione mi aveva insegnato molto, e anche la piccola cittadina di Djelfa mi si presentava sotto un altro aspetto, non come la vedevano gli altri. È così che mi venne in testa di conoscere gli arabi, e successe quel che successe in quelle strane domeniche.

Non potevo neppure comparare la montagna che chiamavamo Sierra de Muerte e quella che si trova qui a est, dietro l’altura di Ain Srer. La cosa potrebbe sembrare bizzarra a pensarci, nonostante alcuni ebrei polacchi se ne stavano seduti per ore a tenere d’occhio il fianco orientale della montagna, dove, più in basso, si inerpicava il cimitero dei musulmani, con le sue tombe modeste e lo strano edificio. Una volta chiesi spiegazioni all’ebreo responsabile della cucina, stavano quasi tutti lì seduti a osservare. Mi guardò squadrandomi da capo a piedi:

“Dentro l’edificio c’è il sepolcro del marabutto, è un santo per i musulmani.”

Fui sorpreso che la stessa parola significasse anche tenda. L’ebreo tornò taciturno a scrutare il capannello di persone che, da lontano, sembrava stessero seppellendo un musulmano.

Il soffio della vita varia da un posto all’altro, ed ero convinto che lo stesso valesse per il soffio della morte e che il luogo avesse un punto di vista su di essa. Sul fronte pensavamo alla morte, ma con coraggio, non come quella volta a Djelfa, la morte significava altro, qualcosa di più spaventoso. Non saprei dire esattamente come tutto sia precipitato velocemente, però, potevo scandagliare i sentimenti che talvolta mi assalivano, disteso all’interno della trincea, col cielo sulla mia testa illuminato dai proiettili, i lampi del fuoco dei due fronti che non si interrompeva; noi che trascinavamo i nostri morti, li portavamo fuori dai fossati con tutta semplicità, fumavamo sigarette, bevevamo e giocavamo a carte nei giorni seguenti, senza che succedesse alcun che. Forse era la logica della guerra, ma oggi la vedo in tutta la sua follia, e sembro non credere che sia successo per davvero. È la guerra, e in guerra l’uomo non può conservare la propria umanità, uccide per sopravvivere, per salvare sé e i suoi soldati, per poter vivere dopo, rimpiangere i molti atti che ha o non ha commesso. Era questo probabilmente quello che intendeva dire con Sierra, o forse quello che a quei tempi credevo che fosse. Comunque, i giorni che seguirono cancellarono tutto e mi resero sempre più incredulo verso quanto accaduto. Ormai avevamo perso ogni cosa, la terra e la famiglia, eravamo inseguiti da un posto all’altro; le carceri d’Europa iniziavano ad essere zeppe di gente come noi e poi, in un sol colpo, ci gettarono in Africa. Aveva ragione Pablo quando, alle porte del campo di Vernet, rifiutò ogni abbraccio, oltrepassò l’ingesso e si sedé sull’uscio, col volto tra le mani, e poi salì sul camion in silenzio. Non appena il mezzo partì, scoppiò in lacrime, come quel giovane francese. Mi guardò, con quella sua faccia dura, stanca e rigata dalle lacrime:

“Perché ci sta succedendo tutto questo?”

“È il prezzo da pagare per il no.”

“Ci hanno ingannato, hanno detto che stavano con noi, e poi, eccoli che ci portano in Africa.”

Quel giorno non gli potetti spiegare quello che sapevano tutti, quello di cui anche noi ci vergognavamo, e cioè la maledizione che ci aveva colpiti e che ci aveva fatto combattere uno contro l’altro dentro Barcellona, facendoci dimenticare che Franco era ogni giorno più vicino, tant’è che ben presto fummo cacciati fuori dalla città. Ora i francesi potevano farsi beffe, ridere di noi fino a piegarsi in due e dire: “Non dovevate prima mettervi d’accordo, e poi decidere di difendere la patria dal fascismo? Ve lo meritate di essere trascinati in Africa come cani randagi.”

Certo, Pablo non aveva sentito cosa mi passava per la testa, si sarebbe rinchiuso nella tristezza e nel dolore quando avrebbe preso maggior coscienza della verità. Talora l’illusione rende l’uomo felice, fosse solo per qualche istante, e noi, i repubblicani esiliati, dovevamo almeno sognare il ritorno, per quanto esile potesse essere la speranza, nonostante fossimo quasi annientati e ci avvicinassimo al primo anniversario di permanenza nelle tende del campo di Djelfa.

Vedevo Ain Srer farsi più vicino o, chissà, eravamo noi che ci avvicinavamo ad esso, quando dietro di noi il capo delle guardie ci gridò di metterci di lato, cosa che poi provarono a fare le guardie. Infatti, un gruppo distaccato iniziò a spingerci sul fianco per sgomberare la strada alla macchina che sfrecciò sputandoci in faccia il fumo. La osservammo salire rapida l’altura, varcare il portone e fermarsi presso l’edificio della direzione. Ci vollero pochi istanti prima che seguissimo le sue tracce, in piedi vicino all’ingresso ad aspettare che giungessero le altre guardie. Non so quanto rimanemmo lì; alcune delle guardie arabe inventavano sempre scuse per andare a Djelfa e tornare senza passare per la direzione. Sicuramente il capo sapeva cosa succedeva tra i detenuti e le guardie arabe, ma chiudeva un occhio, almeno in assenza dei soldati francesi e dell’ufficiale Gravelle perché, in loro presenza, potevano soltanto eseguire gli ordini. Così aspettavamo per minuti che le guardie tornassero per entrare nel campo e ogni gruppo poi si dirigeva alla propria tenda.

La prima volta che alzai la testa e vidi il portone, ero convinto che ci fosse qualcuno con l’uniforme delle guardie; sgranai gli occhi a più riprese, ma non vidi nessuno. Le ossessioni divampavano nella mia testa, mi portavano indietro a quella bellissima serata nella sala del teatro di Barcellona. C’era la prima del Fidelio, l’unica opera di Beethoven. Mia moglie era alla mia destra, esultante; vide Leonora, la moglie dell’eroe incarcerato, ferma, camuffata con abiti maschili per eludere le guardie e liberare il marito. Quel giorno mi parve che mia moglie indossasse l’uniforme di una guardia. All’inizio esitai, ma poi la sua immagine continuò ad accompagnarmi nel campo, anche dopo aver lasciato Djelfa, poi lessi le sue lettere.


[1] Truppe coloniali a cavallo diffuse nelle colonie francesi e italiane in Nord Africa (N. d. T.)

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