Il martire dei pomodori di Raad Atly

  Traduzione di Federica Pistono

   Tratto da Raad Atly, Storie di una Siria tradita, Bianca e Volta Ed., 2018, traduzione di Federica Pistono.

  Anche se la calura infuocata aveva sciolto l’asfalto nella metà di quel settembre rovente, nella sua camicia di cotone con le maniche corte, non risentiva del caldo torrido e continuava a sperare, dietro quelle lenti su cui scorreva il suo sangue. L’immagine non era chiara, è vero, ma lui li vedeva, anche se la visione era confusa per via degli occhiali che si erano lievemente spostati. Gli sembrava di aver pagato un enorme tributo di sangue. Eppure li sentiva, scorgeva figure umane nascondersi dietro il muro, aspettarlo, mentre lui era lì, gettato in mezzo alla strada. Il sudore si mischiava al sangue, ne sentiva il sapore salato mentre i liquidi gli colavano sulle labbra riarse. Cercava di bere qualche goccia, pregando che ci fosse un Dio che la trasformasse in acqua dolce, un Dio che, allo stesso modo, trasformasse il fuoco in frescura e pace. Ma non era mai stato un profeta e quella speranza fu delusa. Guardava la zona alla sua destra, non perché vi fosse qualcosa di particolare in quella direzione, ma perché la caduta aveva inclinato la sua testa verso destra. I suoi occhi, le cui iridi, con l’avanzare dell’età, tendevano al grigio blu, erano colmi di speranza: vedeva quelle persone, venivano a salvarlo, non pensava alla morte, non ne aveva paura, non perché fosse prode o coraggioso, ma perché la sua mente era concentrata su qualcosa di totalmente diverso. “Non sono un martire per un chilo di pomodori”. Ripeteva continuamente quella frase nella sua testa, quasi non ricordava altro dal momento in cui era caduto, anzi aveva in mente soltanto quelle parole, voleva che sua moglie venisse a sapere quella cosa. 

  Ogni mattina si svegliava cercando di sistemare le ossa che i reumatismi avevano rattrappito durante la notte, si muoveva lentamente verso il bagno, si lavava il viso e si bagnava la chioma completamente bianca, dal momento che aveva superato i settantasette anni. Quella capigliatura fluente gli conferiva un aspetto venerando di cui si vantava con gli amici che sedevano con lui al caffè. Indossava, quindi, la sua camicia bianca di cotone, una camicia patriottica, dono di suo nipote che studiava in Ucraina, nipote unico, figlio del suo unico figlio, cosa che indicava la sua “grande” propensione per la paternità. Indossava quella camicia finché non era sporca, quando era propria lurida ne metteva provvisoriamente un’altra, provando per la preferita una nostalgia bruciante. La controllava a distanza per evitare di irritare sua moglie, con desiderio ardente. Quando tornava a indossarla, si sentiva di nuovo nella sua pelle. Al mattino, si dirigeva in terrazza, dove era abituato a fare colazione d’estate, mentre sua moglie aveva abbandonato quell’abitudine. Il momento della colazione era una consuetudine che si era consolidata da diversi anni, da quando era giunto nell’età in cui la morte si considera un’amica, di cui si attende la visita mattutina più ancora di quella della vita. Voleva godersi ogni attimo dell’esistenza come se fosse l’ultimo respiro. Sedeva per consumare la colazione: un piatto di insalata. Il tempo passava, ma al mattino mangiava soltanto quel piatto di insalata, che però doveva essere ricca di pomodori. Ogni mattina sorrideva al pensiero del trucco che aveva messo in pratica la notte precedente: nel cuore della notte, andava ad aprire il frigorifero e mangiava i pomodori, assicurandosi che ne restasse una quantità sufficiente per l’insalata del mattino. A volte credeva di essere stato colpito dall’Alzheimer, perché sorrideva della sua avventura notturna senza ricordare il motivo principale di quel sorriso, vale a dire la passeggiata quotidiana che affrontava per procurarsi i pomodori, una spedizione invariabilmente preceduta da un battibecco giornaliero con sua moglie. Sua moglie, che aveva ormai il corpo curvo e smagrito e i capelli grigi e radi, nascosti sotto uno scialle bianco per celare lo sfacelo della sua chioma rispetto alla capigliatura eternamente fluente del marito.     Cominciava subito a rimbrottarlo, mentre lui si godeva la bellezza della giornata. La lite sembrava un film al rallentatore, lei gli manifestava la sua contrarietà e il suo fastidio all’idea di quella scorribanda quotidiana: “Per l’amor di Dio, tu e la verdura! Perché, tutti i santi giorni, vuoi andare a comprare i pomodori? E perché i pomodori che costano poco? Dio, che tirchieria… Perché non porti a casa qualcos’altro?” Continuava a borbottare, a rimproverarlo, ma, nonostante la rabbia sorda che provava, lui vedeva ancora in lei la ragazza dalla pelle candida e dagli occhi di miele sempre allegri che lo aveva urtato un giorno, rovesciando le tazze destinate agli ospiti e imbrattandogli i pantaloni di caffè. Quel giorno, la madre era uscita per negare il consenso al loro matrimonio a causa di quell’episodio di cattivo augurio. La ragazza infatti non si era voltata per versare il caffè, come sarebbe stato di buon auspicio, almeno così si dice, ma era inciampata nell’attimo in cui aveva fissato gli occhi in quelli di lui, che scrutava il suo viso innocente, giacché i loro occhi si erano allora impegnati in una conversazione sempiterna, come accade ai sufi, i mistici che Dio benedice in ogni tempo. In un secondo momento, lei gli aveva promesso con gli occhi che gli sarebbe stata amica per tutti gli anni della sua vita, lui le aveva risposto che l’avrebbe amata come si erano amati Adamo ed Eva nel mondo primigenio, che avrebbe rinunciato a mille paradisi per lei. Amarla gli era ancora facile, era stato sincero, nonostante la frustrazione che provava quando lei brontolava ogni giorno: “Va bene, ho capito, perché non porti a casa tre o quattro chili di pomodori? Non è meglio questo piuttosto che uscire tutti i giorni, tu che non ti reggi più in piedi, che non riesci più a muoverti? E poi, non vedi che la gente muore per le strade?” Lui non l’ascoltava, lei non lo avrebbe mai capito, se le avesse detto la verità lei non gli avrebbe creduto. Così, ogni mattina, usciva con grande entusiasmo, pur frenato dall’amara realtà del suo corpo, sfrecciava con la sua auto attraversando l’assembramento di bancarelle che si estendeva sul marciapiede di fronte a casa sua, dirigendosi verso le zone liberate dai ribelli. Procedeva lentamente, osservando le tonnellate di pomodori che facevano bella mostra di sé su quei banchi, ma lui continuava ad avanzare, non era quella la sua meta, non erano quelli i pomodori che avrebbe mangiato. Laggiù, all’altro capo della strada, avrebbe forse trovato i pomodori “giusti”. Arrivava nel quartiere di al-Mashariqa, parcheggiava l’auto in un posto vicino al “tunnel”[1] , entrava nel corridoio che fiancheggiava il palazzo, un corridoio stretto e angusto con un arco che gli ricordava sempre i cancelli delle monarchie dell’opulenza, usciva dalla parte opposta, ritrovandosi dall’altro capo del “tunnel”. Era costretto ad attraversare il passaggio nel più breve tempo possibile, ma impiegava quasi mezz’ora a percorrere un tragitto che richiedeva cinque minuti. Quel percorso non era certo adatto per una riunione segreta o per una chiacchierata casuale, c’era chi bramava un tributo di sangue, chi si sarebbe divertito a far scorrere il suo sangue in qualunque momento. Su una terrazza in alto c’era un uomo dietro una trincea: sedeva accanto a un ventilatore e a una tazza di erba mate, guardava attraverso il mirino telescopico posto sulla bocca di fuoco, controllava attraverso la lente i movimenti nei territori liberati e nel mercato della verdura, spiava il corridoio che conduceva da un mondo all’altro e, come ogni guardiano di un limbo tra due universi, era protetto da una legge speciale. Sorbiva un sorso di erba mate e osservava il panorama, inquadrava nel mirino la testa di un passante come se non la considerasse adatta al corpo cui apparteneva, decideva la separazione tra testa e corpo, spediva il passante nell’aldilà, un mondo che nulla in comune aveva con gli altri due né con il limbo in cui si trovava lui. Subito si levavano grida acute di donne, pianti di bambini, urla di uomini. Il cecchino sulla terrazza rideva, beveva un altro sorso di erba mate, aguzzava la vista attraverso la lente. In quel corridoio insanguinato erano caduti i compagni, tutti vivevano in attesa della resa dei conti, pregando Dio che la rendesse possibile.

  Camminava in quel corridoio per mezz’ora ogni giorno diretto alla sua meta, solo uno stupido poteva credere che andasse a comprare i pomodori, come quella cretina di sua moglie, che aveva sempre ragione. Lui stesso non aveva voluto raccontarle la verità, lei non gli avrebbe creduto, anzi, lo avrebbe deriso e sbeffeggiato. D’altronde, durante la loro convivenza, che durava da cinquantasette anni, non si era mai comportato in un modo che rendesse plausibile una storia simile. Era uno di quegli uomini che camminavano radenti i muri, un insegnante tranquillo che tollerava le scempiaggini degli studenti, soprattutto quelli che aveva avuto negli ultimi tempi del suo lavoro, sopportandone l’imbecillità e l’ottusità. Si guadagnava lo stipendio e rifiutava di insegnare privatamente, giacché il governo, a quei tempi, non aveva ancora concesso la licenza a tutti gli istituti privati che poi avevano riempito la città. L’eredità di suo padre era stata miserabile, aveva ereditato soltanto la casa nel quartiere al-Furqan e una rendita mensile che gli passavano i fratelli, tutti più giovani di lui, in cambio della sua quota nell’asse ereditario paterno. Ciononostante, non aveva mai litigato con loro, non era mai stato nominato membro della giunta comunale e, alla fine, si era allontanato dal potere, come da un nido di vipere che non merita che vi si ritorni una seconda volta. Adesso si dirigeva ogni mattina al quartiere liberato di Bustan al-Qasr, lasciando alle proprie spalle le aree in mano al dittatore, con il pretesto di comprare un chilo di pomodori. Entrava nella zona liberata per respirare il profumo dell’aria, per guardare in faccia le persone, anche se gli uomini fermi presso la barriera non lasciavano presagire un futuro migliore, per vivere un presente più bello, poiché non aveva molte possibilità di vivere il futuro. Si contentava di gioire del presente. Sedeva per più di due ore con un amico che aveva una libreria nel quartiere, dove passavano molte persone che avevano i polsi adorni della bandiera verde con le stelle rosse, che condividevano il suo sogno segreto. Provava per loro il rispetto del credente verso il profeta che gli ha indicato la retta via, non parlava, viveva la sua gioia nel profondo del cuore, custodiva il suo piccolo segreto, aspettando il momento in cui entrasse qualcuno con la bandiera al polso per uscire con quella gente. Forse quelle persone non erano diverse da quelle che abitavano dall’altra parte del “tunnel”, ma vedeva i loro volti più rilassati. Pioveva una bomba vicino a lui, il cuore gli balzava in petto per un po’, quindi tornava alle sue occupazioni, rideva del suo piccolo segreto anche se la tragedia di tanta morte gli lacerava l’anima. Da dove gli derivava quel coraggio di fronte ai morti che si accumulavano allo scoppio di ogni bomba? Al termine della visita, temendo un aumento della pressione di cui soffriva, trasformava di nuovo la sua carrozza fatata in una zucca, prendeva il sacchetto di pomodori che aveva comprato per lui l’amico e tornava nel mondo delle tenebre, nell’ovile umano, come definiva la zona controllata dal dittatore, portando con sé l’energia della libertà e un chilo di pomodori.

  Quella mattina era diversa dalle altre. Dopo l’arco “monarchico” la gente stava ferma, bloccata dal terrore di attraversare il “tunnel”. I “pellegrini” verso la casa della libertà percepivano tutto il peso di quel pellegrinaggio. Sentì una persona dichiarare: “Il cecchino oggi è scatenato”, e un altro passante raccontare: “Ha ammazzato tre persone stamattina alle nove”. Tuttavia, c’era qualcuno che si avventurava nel “tunnel”. Lui non poteva tenere il passo con gli altri, così decise di tornare a casa, ma i suoi piedi si ribellarono davanti a quella scelta. Provava un senso di impotenza, di disagio e malessere. Era possibile tornare indietro senza essere entrato nel regno della libertà, come poteva sopportare di vivere senza vedere le sue nuvole bianche? “L’assuefazione alla libertà è pericolosa”, si diceva. Come sarebbe arrivato all’indomani senza quell’energia magica? Dalla metà del mese di Ramadan, vale a dire un mese e mezzo prima, la sua vita era cambiata, o almeno si era rinnovata. Sentiva che la morte era ormai appollaiata sul suo petto ma, da quando aveva preso l’abitudine a quella passeggiata quotidiana, ogni cosa era mutata, una vita ribelle aveva cominciato a scorrere nei recessi malandati del suo corpo stanco, il suo spirito era rinato, il bagliore della libertà aveva scacciato lo spettro della morte. Suo nipote, che tanto amava, era tornato segretamente ad Aleppo da sei mesi, aiutava i ribelli nelle zone che controllavano nelle campagne. Quando erano entrati in città, si era unito a loro e, essendo affezionato al nonno nella stessa misura in cui questi era legato a lui, gli aveva telefonato per informalo del fatto che si trovava a meno di tre chilometri di distanza, pregandolo di non fare parola con nessuno, altrimenti suo padre lo avrebbe costretto a tornare in Ucraina o lo avrebbe portato a casa con la forza. Il nonno aveva preso l’impegno sul serio e veniva ogni giorno a trovare il nipote: “Hai restituito la libertà al mio spirito”, gli ripeteva. Tuttavia, non veniva soltanto per incontrare il ragazzo, ma si muoveva anche per se stesso. Sarebbe morto di malinconia se non fosse andato quel giorno a vedere il nipote, e, se pure non fosse morto di malinconia, magari sarebbe morto per un caso. Perché privarsi delle cose più interessanti al mondo quando poteva goderne ancora un po’, prima della fine? E poi, che gusto avrebbe avuto la sua colazione senza i pomodori della libertà? Era praticamente sicuro che avrebbe rischiato la vita, che probabilmente sarebbe morto se avesse deciso di attraversare il “tunnel”, ma sarebbe morto comunque se non lo avesse oltrepassato. Con passo lento, ma audace e sicuro, si avviò lungo il corridoio della morte. Qualcuno pensò che fosse pazzo: quell’anziano che camminava a stento, con i pantaloni grigi eleganti, la camicia bianca di cotone, gli occhiali di buona fattura, la folta chioma candida, suscitava negli uni la rabbia, negli altri la speranza. Dopo un quarto d’ora era a metà strada. Sentì fischiare la pallottola del cecchino, un uomo al suo fianco cadde, quindi udì un’altra pallottola e questa volta fu una donna a crollare lungo la via dei pomodori. Spaurite, le persone che avevano deciso di passare con lui si misero a correre. Si ritrovò solo, cercò di affrettare il passo, ma era oppresso dai reumatismi, schiacciato dal diabete, dalla pressione, dalla vecchiaia, dal cecchino e dal dittatore. La risata del cecchino, provocato dalla lentezza del vecchio, gli risuonò nelle orecchie. Sentiva il sibilo dei proiettili che lo sfioravano. Dunque il cecchino non voleva ucciderlo, si divertiva con lui come un cacciatore che gioca con la preda. La cosa lo fece infuriare più di qualunque altra cosa alla fine della sua vita. Quelle due ore di libertà, gli occhi di suo nipote e quelli dei ribelli avevano scosso la sua compostezza interiore: ricordava l’ingiustizia dei fratelli, le provocazioni degli studenti, la perdita di molte opportunità della vita, l’esilio di suo nipote, la rottura con suo figlio, le torture subite dai servizi segreti militari a causa di un errore di persona, i cumuli delle vittime dei missili, il riconoscimento dei giovani rivoluzionari dalle bandiere ai polsi. Con una voce che lo scuoteva fino alle fibre più intime, gridò: “Non sono un topo! Sarò io il tuo cacciatore!” Lo scambio di ruoli tra vittima e carnefice rimase segreto, gli occhi tristi, stanchi, incapaci di nascondersi dietro il muro gli dicevano di completare il tragitto. D’un tratto, cominciò a ridere forte: preferiva essere una vittima piuttosto che un pagliaccio, messo là a divertire l’individuo sulla terrazza. Il cacciatore mirò, la pallottola lo colpì di striscio alla testa, sentì un fuoco incendiargli il lato sinistro del capo. Cadde a terra. Un secondo proiettile gli si conficcò nella schiena, il sangue cominciò a sgorgare tingendo di rossa la camicia. Il dolore alla schiena era più acuto di quello alla testa. Distingueva nitidamente le figure umane dietro il muro, vedeva occhi colmi di lacrime e, nonostante il dolore atroce che lo tormentava, provò una felicità misteriosa. Per la prima volta aveva preso una decisione che veniva dal suo io più intimo, per la prima volta non si trovava dietro un muro, non era ai margini. Era l’eroe, questa volta. Ricordò la camicia di suo nipote, che era zuppa di sangue. Mancava solo il verde per completare la bandiera, si rilassò al pensiero che il martire viene sepolto nei suoi vestiti. “Sia ringraziato Iddio, la camicia sarà con me nella tomba”. All’improvviso gli venne in mente sua moglie: non voleva che pensasse che la sua presenza in quel luogo fosse dovuta a un chilo di pomodori, voleva che capisse che era dovuta alla sua dipendenza dalla libertà. Voleva rispettare la promessa fatta al nipote di non avvertire nessuno, non pensava più ad altro. Poco a poco dimenticò il dolore bruciante alla schiena, il fuoco che gli incendiava la testa, il calore infernale dell’asfalto sotto il suo corpo. Nel delirio, continuava a ripetere una sola frase: “Non sono il martire dei pomodori”. Le sue illusioni non l’avrebbero salvato alla morte, ma non voleva morire col pensiero che sua moglie lo ritenesse morto per un chilo di pomodori, mentre era un martire per la libertà. Nonostante la vista annebbiata, il sapore salato del sangue sulle labbra, i vestiti incollati al corpo per via del calore intenso, sentì che qualcosa lo aveva urtato. Allungò la mano lentamente, toccò l’oggetto, era una corda con un gancio attaccato. Capendo che il ferito non era abbasta forte per afferrare la corda e farsi trascinare via, i soccorritori agivano con calma, cercando di strapparlo al cecchino. D’altronde, lui non poteva muoversi se non con lentezza. Nella sua estrema debolezza, prese la corda, infilò il gancio nella cinta dei pantaloni, scostandolo dalla camicia di suo nipote perché non si lacerasse, cominciò il suo viaggio penoso, mentre il cecchino gli sparava di nuovo alla schiena. Quando arrivò dietro il muro, nella zona liberata, cinque pallottole lo avevano colpito. Lo sollevarono rapidamente, mentre tante voci si levavano intorno a lui: “Un’ambulanza, presto!”, “Una trasfusione, in fretta!”, “Grande eroe, Dio non ti abbandona!”

  Nel momento in cui lo colpiva, sulla terrazza riparata dalla trincea il cecchino scaldava l’acqua per prepararsi la seconda tazza di erba mate.

  In ambulanza, chiese al medico di avvicinarsi a lui. Sentendo che l’uomo voleva dirgli qualcosa, il dottore accostò l’orecchio alle labbra. Raccogliendo le energie accumulate in quel mese e mezzo di libertà, parlò al medico: “Dica a mia moglie che non sono un martire dei pomodori, sono un martire della libertà. Le dica che sono qui”. Pronunciò quelle parole sentendo il sapore salato del sangue. D’un tratto, il dolore delle ferite alla schiena lo assalì, feroce, tagliente, quindi ogni cosa intorno a lui si fece bianca. Con un gesto calmo e triste, il medico posò la mano sugli occhi dell’uomo e li chiuse. A causa della mancanza di tempo e della necessità dell’ambulanza, prese la carta di identità dalla tasca e affidò la salma a due soldati dell’Esercito Libero perché la seppellissero sotto il Ponte del Pellegrinaggio.[2]


[1] Il “tunnel” è un varco al confine tra due paesi, e il tunnel nel quartiere di Bustan al-Qasr era l’unico passaggio tra le aree controllate dai ribelli e quelle controllate dal dittatore. (N. d. A).

[2] Uno dei luoghi sotto il controllo dei ribelli. Le persone venivano sepolte nei giardini e lungo le strade perché non c’era più posto nei cimiteri. (N. d. A).

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