Larbi Ramadani – I canti del sale. Biografia di un harràg[1]. Al-Mutawassit, Milano 2019 pp. 11-15

La presente traduzione è pubblicata d’accordo con l’editore.

Traduzione di Jolanda Guardi

Fallimento del sogno

Quando giunse il momento, decisi di lasciare “la patria” o, per dirla altrimenti, di fuggire da lei, dalla patria dello spergiuro, dell’inganno e della delusione. La decisione non era arbitraria, né affrettata e nemmeno improvvisa, piuttosto era giunta come risultato di numerosi rinvii, una perdita inutile, vuoto e attesa del nulla. Disoccupazione legalizzata, acuita da corruzione dilagante, assenza del più basso livello di vita rispettabile, così appariva la patria agli occhi dei suoi figli, che ricompensava ignorandoli, una semplice “tomba oscura”.

Ricordo l’inizio, erano passati anni da quando mi ero laureato, poi era venuta la leva obbligatoria e l’avevo svolta, e tutto ciò che avevo ricavato dal tempo trascorso lì era l’essere invecchiato e nient’altro, come se fosse l’unica cosa possibile, censura e arretratezza in totale obbedienza. Non c’è nulla che incoraggi a restare, un regime vecchio, decrepito e misero, che non offre altro che programmi ancor più miseri, continua a rubare le nostre vite e aggiunge alla sua una realtà politica volgare, frustrante e malsana con corruzione e favoritismi diffusi, calamità legate alla società e all’ambiente che non si sarebbero mai viste prima, se la giustizia non si fosse indebolita. Questo non incoraggiava a rimanere, specialmente perché il cambiamento è impossibile.

Sono cresciuto e mi sono trovato in trappola, non ho trovato “la patria” che avevo conosciuto a scuola e di cui avevo sentito alla radio e alla televisione, non hotrovato la tranquillità e la sicurezza, piuttosto mi sono trovato in una vasta prigione di nome “patria”, fatta di bugie e slogan altisonanti, in un “appezzamento geografico” che non avevo scelto e in cui mi sono ritrovato per caso. Questa geografia mi opprimeva e mi gettava nei suoi quartieri privi di gioia, come sono potuti passare trent’anni senza che sentissi di appartenervi? Ci vivo controvoglia e ogni giorno muoio di tristezza e struggimento, agognando l’ora della libertà, quando sarò lontano dalle preoccupazioni, dalla crudeltà e dall’incuria.

La decisione è maturata nel 2017, era un inverno pieno di sogni, di voglia di evasione e non appena l’ho presa mi sono sentito – in quel momento – felice, libero ed entusiasta, ero contento di portare i miei sogni nel dossier per il visto che ho presentato a diversi consolati, qualunque sarebbe stata la mia collocazione sarebbe andata bene, l’importante era andarsene in fretta. Sentivo di appartenere a un luogo e a un tempo strani e nel mio profondo vuoto si diffondeva un guizzo di contentezza quando sentivo un nuovo odore in quei consolati, vedevo volti cui non ero abituato, venivo trattato bene, si rafforzava l’idea di libertà da quest’inferno il cui fuoco aumentava ogni volta che non riuscivo a ottenere il visto che mi avrebbe permesso un viaggio onorevole. Il sogno di uscire dalla “patria prigione” in modo legale non si è realizzato, come se la fuga richiedesse una fatica doppia, superiore alla nostra infelicità, che ci spingeva a cercare tutte le vie per ottenere la libertà.

Non sono riuscito a ottenere un visto Schengen e ho sentito che il destino mi era nemico.

Ho scelto un’altra strada per fuggire, la Turchia, passaggio per giungere in Europa. La Turchia è la via preferita da chi non ha più possibilità e sceglie di fuggire verso il sogno e non è riuscito a ottenere i visti di viaggio dai consolati europei, il cui unico interesse è quanto denaro possono prendere dai loro clienti che cercano un bagliore di vita; senza pietà, per la maggior parte del tempo, distruggono tutte le loro speranze quando li informano del diniego, senza dar loro nemmeno un pezzo del visto, con estrema destrezza o, come diciamo nella nostra parlata, con “faccia di tolla”[2] (poca educazione).

Per fortuna ho ottenuto un visto turistico per la Turchia facilmente ed è venuto il momento più triste per il mio cuore e i miei, perché la mia migrazione non era una buona notizia per i miei genitori, specialmente per mia madre, che era contraria alla mia fuga e che mentre mi preparavo scoppiò in lacrime quando la salutai e salii in macchina; rimase davanti alla porta di casa con un’espressione rotta e triste e cominciò a tremare da tanto piangeva. Le lacrime sgorgavano dai suoi begli occhi in abbondanza, come la neve, che quel giorno fioccava intensa, il cielo si era unito a lei e con la sua tristezza sentiva con lei il bruciore dell’addio al figlio; non lo sopportavo, scesi dall’auto, l’abbracciai con calore, asciugai le sue lacrime brucianti, la baciai sulla fronte impedendomi di piangere; non riuscii a tranquillizzarla del fatto che la mia assenza non sarebbe durata a lungo e la lasciai in un pianto isterico.

La separazione ferisce la madre, l’assenza è una devastazione permanente nei cuori delle madri, si ripara solo restando vicino a loro. Ho salutato mia madre distrutta dalla mia partenza, col cuore sofferente e l’animo sopraffatto dall’afflizione, la mia lingua era una cascata di lacrime che domavo con difficoltà.

Mentre l’auto si allontanava osservavo la mia terra natale, sulle alture della wilaya di L’meddiya,[3] al centro dell’Algeria, al confine tra Blida e Al-Buira. La neve contribuiva a coprire i monumenti della zona in cui ero vissuto, i tratti del wadi sulle cui sponde ero cresciuto e dove avevo imparato a nuotare, dove rubavo la frutta nei campi; la cima del Tikjda[4], coperta dalla nebbia e dalla neve, non si vedeva più, non c’era più nulla che allarmasse lo spirito o turbasse la memoria, sentimenti freddi, che non suscitavano nulla. Dopo un decennio di sangue negli anni Novanta la regione aveva perso il suo splendore, la maggior parte degli abitanti l’aveva lasciata e le manifestazioni di bellezza che la caratterizzavano erano scompare. Scomparsa la “solidarietà”[5], il rito della di visita ai santi e le feste e i giochi che la accompagnnavano, anche i matrimoni e le attività contadine avevano perso il loro profumo, la valle non era più copiosa d’acqua come prima e le spose non vi facevano più visita dopo la prima notte. Il terrorismo aveva rubato al mio luogo d’origine la sua anima, lasciando uno scheletro vuoto. A eccezzione della separazione dai miei cari, sentivo di non aver perso nulla.

Sono arrivato all’aeroporto internazionale di Algeri Houari Boumedienne il mercoledì mattina, dopo aver passato la notte a Blida da mia zia, che aveva condiviso la tristezza di mia madre. All’aeroporto c’era poco movimento, l’aria era fredda e piovosa, i miei compagni di viaggio erano arrivati, compagni di studi e amici uniti dal sogno di fuggire, ex studenti universitari. Non eravamo riusciti a ottenere un impiego dall’Algeria del potere e della dignità. Bevemmo un caffè, fumammo, chiacchierammo dei rituali dell’addio esperiti con i parenti; osservavo i volti dei viaggiatori ora stanchi e tristi, ora felici per la partenza, la patria pesante nei loro movimenti. C’erano anche nuovi ricchi o figli di responsabili e di personalità dell’esecutivo che si dirigevano all’altra sponda in cerca di divertimento e businness.

Non rimaneva molto tempo prima del decollo dell’aereo della Turkish Airlines che avevamo prenotato; i prezzi sono esorbitanti, a cominciare da quello del caffè e dell’acqua, che non sono diversi in nulla da quelli proposti non lontano da qui, senza che trovi una spiegazione valida per questo rincaro. Ho comprato un pacchetto di sigarette economico e ho lasciato i soldi che mi rimanevano in dinari algerini a mio nipote, che mi aveva accompagnato, mentre lo salutavo. Siamo saliti alla squallida sala d’aspetto, con pochi viaggiatori. Ho fumato l’ultima sigaretta, salutato di nuovo i miei per telefono. Sono salito sull’elegante e lussuoso aereo turco verso mezzgiorno, siamo stati accolti da un giovane steward con un sorriso gentile, mi sono messo a osservare la capitale dal finestrino, sembrava molto fioca e sparpagliata in masse disordinate.

Addio, madre.

Addio, nobili martiri.

Addio, abitazioni ammassate nella geografia tentacolare di Blida.

Addio, dolore.

Benvenuto al sogno.

Addio, marciapiedi e bettole in rovina, caffè pieni di mozziconi di sigarette e cricche di calcio sconfitte.

Addio, patria ammassata nei labirinti dell’oblio.

Non ho bisogno di te, e non mi mancherai.

Larbi Ramdani, classe 1987, è un giornalista originario di Sidi Nu’màn (mitigia) che ha compiuto studi di giornalismo. I canti del sale è la sua prima pubblicazione, una biografia romanzata nella quale racconta la sua esperienza di migrazione attraverso Turchia, Grecia e Italia. Si tratta del primo testo algerino che parla di migrazione scritto da un migrante. In un’intervista rilasciata a Echorouk TV nel 2019, Ramdani ha affermato che ha scritto il testo per rivendicare il diritto dei migranti alla libertà e alla dignità.


[1] Harràg è il termine con cui, nella parlata algerina (ovest) vengono designati i migranti che, una volta giunti nel paese di migrazione, bruciano i loro documenti.

[2] Sahhaniyyat al-wajh nella parlata algerina.

[3] L’meddiya (Médéa) è una città a circa 80 chilometri da Algeri, nei pressi della valle della Mitigia zona che, durante il decennio nero, è stata particolarmente colpita dal terrorismo.

[4] Monte nei pressi di Al-Bouira noto perché sulla sua cima si trova un campo di calcio dove si allena la squadra nazionale algerina.

[5] At-twìza, solidarietà di gruppo nelle zone rurali e nei villaggi per la quale i membri del gruppo si aiutano gli uni gli altri in occasioni specifiche come il raccolto o la costruzione di una casa.

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