Traduzione di Federica Pistono
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La canna passa di mano in mano, fra noi cinque, consumandosi in meno di un minuto: soltanto due tiri a testa. Hashish puro, genuino, come al solito. Quando viene tagliato e sbriciolato per essere mischiato con il tabacco, il blocco si polverizza fra le dita, sprigionando un odore pungente, proprio come il collega della squadra Narcotici mi ha detto, descrivendo il prodotto puro degli anni Ottanta. Mi ha raccontato quello che avveniva di solito, quando gli uomini della squadra face- vano irruzione nei magazzini degli spacciatori.
Eravamo entrambi seduti tranquillamente a un posto di blocco, in via Qasr al-Aini. C’erano pochissime auto. Un uomo ci è passato davanti, fumando una canna, che abbiamo riconosciuto dall’odore. Il mio collega è scoppiato a ridere: «Avrei potuto identificare un deposito di hashish dall’esterno. Camminando per la strada, l’odore fluiva dalle porte e dalle finestre, e trovavamo immediatamente l’appartamento. Gli spacciatori non potevano farci niente, era impossibile camuffare quell’odore. Sorridevamo beati, rilassandoci. Da quel momento in avanti, spettava ai poliziotti in divisa il compito di perquisire i locali e ispezionare le cantine, alla ricerca dei depositi segreti. A volte dovevano scavare, per riuscire a trovare l’hashish. Seppellire il nascondiglio nella terra non impediva a quell’aroma di diffondersi in giro.
Per quel motivo, a un certo punto, i trafficanti hanno deciso di tagliare l’hashish e mescolarlo con sostanze più economiche, non soltanto per aumentare i profitti, ma anche per mascherare l’odore».
Non conosco questi quattro tipi che fumano con me. Sono rimasto bloccato con loro, e costretto a condividere il mio pezzo di hashish. Ci troviamo in una delle sale del penultimo piano della Torre del Cairo. Fra qualche ora, la nostra lunga permanenza nella Torre si concluderà, dopo due anni interi. Ci troviamo in un posto di osservazione avanzato, l’occhio della resistenza affacciato sul Cairo orientale. Una macchina di morte, una postazione per esecuzioni e omicidi perpetrati da cecchini invisibili. Siamo il braccio armato e avanzato della resistenza. Io, il colonnello Ahmed Otared, a capo di questa unità, sono rimasto forte, fedele alla missione e legato alla postazione per tutto questo tempo. Anche quando gli altri ufficiali sono crollati, uno dopo l’altro, sotto l’intensa pressione psicologica, anche quando tre di loro si sono suicidati nello stesso giorno, sono rimasto impassibile, senza neppure un capello fuori posto. Ho inviato un messaggio al comando della resistenza, richiedendo nuovi cecchini, e un gruppo che venisse a prelevare i cadaveri. Mentre un’unità mobile si spostava dal Cairo occidentale alla Torre, ho redatto il mio rapporto sul suicidio dei tre colleghi, attribuendo il loro gesto allo stress del lavoro, al nostro brillante successo nel raggiungere gli obiettivi, alla mancanza di formazione psicologica degli ufficiali, all’isola- mento e alla solitudine, e a molti altri fattori.
In seguito a ciò, ho preso l’abitudine di congedare gli ufficiali dopo una permanenza di tre o quattro mesi nella Torre, in modo tale da mantenere uno standard di comportamento ragionevolmente elevato all’interno dell’unità, e preservare la vita dei miei uomini. Ho notato che chi rimaneva nella Torre troppo a lungo era colpito dall’esaurimento nervoso, o andava incontro alla depressione. In effetti, tutti gli elementi menzionati nel mio rapporto contribuiscono a quel risultato. In definitiva, non importa quanto un ufficiale creda nel suo lavoro: l’uccisione di un essere umano sconosciuto resta un atto sconvolgente. Sono un cecchino, lo so perfettamente. So che le immagini delle vittime indugiano a lungo nella mente. E che la memoria selettiva sceglie alcune immagini precise per conservarle per sempre. Sono un cecchino professionista, e anche la mia memoria conserva le immagini di alcune persone alle quali ho sparato di cui ignoro l’identità. Non ricordo dove mi trovassi, dove si trovassero loro, non rammento i dettagli della faccenda, né come mi fosse giunto l’ordine di sopprimerle. Resta l’immagine dei tre cadaveri, accatastati l’uno sull’altro, inquadrati nel mirino circolare. Quella è impressa nella mia mente, non sarà mai cancellata, fino al giorno della mia morte. Se questo succede a me, un professionista, che cosa accade, allora, a dei dilettanti come questi ragazzi? Se non fosse stato per l’entusiasmo, per lo spirito patriottico, la squadra-Torre non avrebbe avuto alcun successo.
Questa è la nostra designazione ufficiale, la squadra-Torre. Nessuno la troverà mai, registrata in un documento ufficiale. Ma, poi, la gente ha cominciato a chiamarci Calabroni, e questo è diventato il nostro nome di battaglia. A onor del vero, nessuno al mondo è al corrente della nostra esistenza, ma la popolazione è consapevole della presenza di molti cecchini, distribuiti in tutta la città, specialmente sui tetti degli edifici alti. Lasciamo tracce ben visibili: un ufficiale cammina per la strada, d’un tratto cade senza preavviso; un soldato siede in un bar, un istante dopo il suo cervello schizza sui tavolini dei clienti in- torno a lui. Inoltre, le persone ci confondono con i cecchini sparsi in ogni angolo del Cairo orientale. Per loro, siamo tutti Calabroni. Nessuno potrebbe immaginare che la nostra base si trovi nella Torre del Cairo, il punto più lontano da tutto, al li- mite della portata dell’arma e del mirino. Nessuno ci vede o ci sente: con i nostri silenziatori, siamo angeli della morte.
All’inizio, credevo che la Torre contasse, effettivamente, sedici piani. Con il tempo, a forza di salire e scendere con l’ascensore, mi sono reso conto che la sua superficie è molto limitata.
Questa struttura immensa non si compone che di due piani che, tuttavia, sono chiamati il Quindicesimo e il Sedicesimo. Al di sopra di quest’ultimo, c’è una strettissima passerella che corre intorno all’enorme colonna centrale, visibile dai quattro angoli della città.
Salgo al sedicesimo piano, il cui ampio balcone circolare offre una vista panoramica della metropoli. Osservo Il Cairo orientale da un’altezza di circa centottanta metri. I suoi celebri monumenti sembrano più solidi degli uomini, più duraturi del tempo, più forti di qualsiasi altra cosa. Perfino l’architetto più tollerante nei confronti dello stile modernista considererebbe gli edifici come una bruttura alla quale ci siamo ormai abituati, a forza di vederli. Forse proprio la bruttezza è il motivo per il quale alcuni monumenti sopravvivono, mentre gli uomini muoiono. La sede della radio e della televisione, nel palazzo Maspero, per esempio, non dovrebbe continuare a esistere. Si direbbe un gigante dal culo enorme, seduto sulle chiappe mostruose, mentre il busto e la testa, ridicolamente sottili, svettano in aria. Un Buddha eretto. Un Buddha deforme. Più a Nord, la torre del Ministero degli Esteri: un longilineo gentiluomo europeo con un turbante orientale che incombe sulla città, mentre, alle sue spalle, sono ammassati blocchi di edifici bassi, privi di armonia architettonica e giuste proporzioni, attraversati da vicoli tortuosi, la cui larghezza cambia ogni cento metri. Il caos del quartiere Bulaq si adatta ai disordini, quasi infantili, scoppiati in quel luogo anni fa. Il Museo Egizio somiglia a una banda di fannulloni decrepiti che, seduti per terra a scambiarsi chiacchiere a bassa voce, immobili negli anni, si muovono soltanto per sorseggiare il tè, nascondendosi agli occhi del pubblico, detestando la propria storia bugiarda.
Le rovine desolate del Nile Hilton, distrutto all’inizio del- l’occupazione, somigliano a un turista americano ubriaco caduto, inconsapevole di ciò che accade intorno a lui. Venuto a cercare la bellezza nello schifo che lo circonda, non ha trovato nulla. Così, invece di ammettere che non c’è niente di bello in questa collezione di immondizie, s’incolpa di non essere stato in grado di scoprire i gioielli sepolti nel letame. Il Ramses Hil- ton è una vecchia puttana obesa rivolta verso il Nilo: saluta tutti i passanti, ma nessuno le si avvicina. Come le puttane, che possono essere riconosciute per le scarpe logore e sporche, come se fossero tutte d’accordo tra di loro sul tipo di scarpe da indossare, così l’anarchia della strada e il disordine dei venditori rap- presentano i vecchi tacchi dell’albergo. L’incrocio tra il ponte Qasr al-Nil e la Corniche è un labirinto incomprensibile, una versione più bizantina del suo gemello, l’incrocio in cui la Corniche incontra il ponte 6 Ottobre… L’hotel Semiramis evoca una famigliola: marito, moglie e bambino. L’uomo è infuriato, ma rimane al suo posto, non cerca di allontanarsi dalla pozza di urina ai suoi piedi, né permette alla sua famiglia di muoversi. Infine, il palazzo ministeriale Mugamma, in piazza Tahrir… Sembra riassumere in sé tutte le sofferenze che affliggono gli egiziani. Mostra soltanto un lato, perché sa bene che nutriamo un timore reverenziale nei confronti del petto, della testa, del ventre, dell’immensa cavità nel suo cuore. Di fronte a quel palazzo giacciono le macerie della sede della Lega Araba. Le gloriose vestigia. Le rovine supreme. Il cedimento dell’edificio ha finalmente messo a nudo piazza Tahrir, l’ultimo ostacolo a impedirmi di contemplarla integralmente. Il crollo è avvenuto a un solo giorno di distanza da quello del Nile Hilton ma, a differenza dell’albergo, che si è afflosciato su un fianco, senza disintegrarsi, la sede della Lega Araba si è sbriciolata, lasciando soltanto un cumulo di detriti.
Non c’è altro che caos. Cerco un segno di ordine in tutto questo, ma sembra che chi ha costruito Il Cairo non abbia mai guardato la città da lontano, non ne abbia mai colto la visione globale. Probabilmente, ha considerato ogni edificio come un’entità autonoma, circondata dal nulla. Deve aver progettato ogni costruzione in modo indipendente, senza curarsi dei palazzi vicini. Ha studiato gli edifici dal punto di vista di chi cammina a terra, non da quello di chi vola nel cielo. Ha voluto stupire la gente vissuta prima dell’era dei droni, e chi l’ha seguito ha continuato a costruire allo stesso modo, di generazione in generazione. Vivrò abbastanza a lungo da vedere la città di- strutta?
Ho assistito a questo spettacolo di devastazione per due anni interi. E oggi, gli dirò addio.
In principio, abbiamo suddiviso la superficie del vecchio ristorante, al quindicesimo piano, in diversi cubicoli utilizzando divisori di compensato, e abbiamo lasciato accessibile la scala che unisce il quindicesimo al sedicesimo piano, in modo che gli ufficiali potessero salire, in caso di emergenza. Ogni cubicolo è occupato da un cecchino. È là che il cecchino vive e dorme. Durante le ore di servizio, sale all’ultimo piano per sorvegliare il Cairo orientale. Il numero degli ufficiali in servizio varia, a seconda delle circostanze e delle esigenze del Cairo occidentale e della squadra-Torre. La nostra missione è quella di “proteggere l’ambiente circostante”. Questa definizione estremamente elastica mi è sempre piaciuta, perché la sua flessibilità ci offre la libertà di agire nelle situazioni critiche, anche se la natura della nostra professione va ben oltre i parametri convenzionali e include apertamente l’omicidio. Il mio lavoro, quindi, è il risultato della mia personale interpretazione e riflessione, non ha mai previsto un piano rigido da rispettare ed eseguire. Devo adattarmi continuamente ai nuovi sviluppi e attendere gli or- dini, che sono precisi: giustiziare il tale che passerà lungo la Corniche, eliminare cinque ufficiali delle forze di occupazione nel giro del prossimo mese, sparare a poliziotti egiziani e a civili che collaborano con l’occupazione. E poi, naturalmente, la nostra missione quotidiana consiste nell’osservare Il Cairo orientale con i nostri binocoli per rilevare qualunque movimento sospetto. Come ho già spiegato, il nostro è tanto un centro specializzato nell’omicidio, quanto un posto avanzato di osservazione.
Una fitta coltre di bruma polverosa ricopre la città, una miscela formata, in parte, dagli scarichi delle auto, in parte, da una nebbia inspiegabile, che sembra provenire dal nulla, che forse è fumo derivante dai roghi dei rifiuti agricoli in fiamme, nelle città e villaggi circostanti. Da diverse settimane, questo smog forma una sorta di cortina che cela gli edifici lontani da tutti gli occhi del cielo, un velo simile a quello che tesso per proteggermi dalla curiosità, simile alla maschera che indosso quando prendo di mira i miei bersagli.
Ogni mattina, ogni uomo prende il suo fucile, regola il mirino e assume la sua posizione preferita: seduto per terra, con il fucile appoggiato a un ginocchio o a un supporto. Salgo al- l’ultimo piano, sul balcone circolare, dal quale posso osservare tutta la città. Compio due giri, per localizzare correttamente tutti i palazzi, tutte le strade prive di ostacoli in cemento o vetro. Il Cairo orientale, con tutti i suoi celebri monumenti, zona occupata, e Il Cairo occidentale, zona libera, con i suoi edifici anonimi, sotto il completo controllo delle autorità egiziane. Pochi immobili, in questa parte della città, sono stati colpiti dai bombardamenti. Ogni volta che salgo sul balcone, Il Cairo si svela al mio sguardo, più accessibile.
Sono l’ufficiale più alto in grado, il capo dell’unità, ma porto il fucile esattamente come gli altri. Non ricevo ordini da un altro ufficiale, sono pienamente libero di comportarmi come la situazione richiede, se non in alcuni casi precisi, che si presentano ogni mese. Ecco perché non guardo spesso nel mio binocolo. Solo quando mi stanco di osservare il quadro più ampio, alzo il fucile per inquadrare i dettagli nel mirino. Nessuno di noi spara un proiettile da quasi un mese. La situazione si è stabilizzata, la vita è tornata alla normalità, come se nulla fosse accaduto. La settimana scorsa, ho ricevuto l’ordine di evacuare la postazione. Oggi è il giorno stabilito. Abbiamo passato la settimana a imballare le attrezzature senza neppure posizionarci ai nostri posti con la consueta serietà. Abbiamo semplicemente trascorso i nostri ultimi giorni nella Torre, prima di andarcene. Dove? Quale sarà la prossima missione? Non ne ho idea.
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