Traduzione di Antonino d’Esposito
Ogni volta che si ritrovava solo nella stanza, quella tra il cubo della cucina e il liwan, il salone usato per accogliere gli ospiti, un brivido lo percorreva tanto che, inconsciamente, il suo corpo da bambino veniva scosso da un dolce formicolio che partiva dalla peluria della sua morbida pelle. Si gustava quella strana e nuova sensazione, che così spesso lo chiamava di proposito e con voluttà, in modo istintivo, specialmente quando l’alba s’intrufolava da dietro le tende colorate col cinguettio degli uccelli che fuggivano all’istante dai fucili dei cacciatori. Frattanto si svegliava vincendo la tentazione del torpore e il baule marrone se ne stava in agguato nell’angolo della stanza, accanto alla porta, come l’ultima volta che l’aveva guardata. Costretto dalla vescica piena che chiedeva di essere svuotata, si scapicollava fuori e girava a destra, precipitandosi tra l’angolo della “casa di montagna” e la vasca d’acqua sotto il vecchio pino; poi, svoltava di nuovo a destra prima di arrivare al bagno, separato dalla costruzione principale. All’imbrunire, allorquando s’avvicinava il momento di andare a letto e gli ordini dei genitori prevedevano che si lavasse faccia e denti e si cambiasse i vestiti del giorno indossando il pigiama, quel baule era la prima cosa che gli veniva in mente. Tutto ciò significava entrare nella stanza da solo, e se mostrava di aver paura, gli arrivava un rimprovero: “Che vergogna! E ti sei fatto quasi grande ormai, hai ancora paura?” Allora, con la coda tra le gambe, non gli restava che farsi largo solitario attraverso la porta orientale e il baule lo accoglieva con tutto il suo aspetto regale e il terrore che, nel corso dei racconti e delle generazioni, gli erano stati attribuiti.
La casa dello haj Yassin si trovava sulla strada interna che passava per la cittadina di al-Ain, a nord-est del capoluogo amministrativo temporaneo. Lui, che era il primo nipote che lo haj aveva avuto dal suo terzo figlio, arrivato dopo che nella famiglia di Yassin pareva essersi prosciugata la capacità di generare maschi, trascorse tutta l’infanzia e l’adolescenza a gambe incrociate, felice per le coccole e il trattamento speciale ricevuti. Il figlio maggiore dello haj aveva avuto quattro ragazzi, di cui l’ultimo aveva sei anni l’anno in cui si sposò lo zio; e, nonostante questi avesse anche quattro figlie, quando il terzogenito si sposò ed ebbe un figlio, l’evento fu foriero di grande gioia per Yassin e la moglie, anche perché il loro secondogenito, Yahya, si guardò bene dalle nozze fin dopo la morte dei genitori. In occasione delle grandi feste e in estate, il viziato nipote aspettava sempre con bramosia di andare in visita alla grande casa di famiglia in montagna, sicuro di essere il benvenuto e di ricevere un’attenzione che di certo a casa sua non gli mancavano; eppure, provava piacere nell’essere il preferito tra i cugini, molto più grandi di lui, e le cugine, che si univano al comitato d’accoglienza quando, le prime volte, scendeva dal taxi e, in seguito, dalla macchina dei suoi.
Quando, in ginocchio, salutava il mare di Acri, aspettando che la distesa azzurra, attraverso il lunotto posteriore, si trasformasse nelle collinette scure del deserto e scomparisse dalla sua vista, si girava calmo e rilassato, seduto in mezzo al sedile, per non ostruire la visuale al guidatore o a chi occupava il posto laterale, e si arrendeva all’aria che gli sfiorava il viso e gli scompigliava i capelli. Allora, chiudeva gli occhi, lasciando scorrere il nastro dei sogni ad occhi aperti, che non tardavano a mescolarsi coi sogni veri fatti nel sonno, tanto che poi era impossibile stabilire dove finissero i primi e come si intrufolassero i secondi. Da entrambi emergeva solo col suono del clacson, presso la curva di al-Mutall a nord; prima che il conducente iniziasse la discesa, superando i tornanti successivi, dalla piazza della moschea, al centro del paese, pareva di vedere un serpente gigantesco senza capo né coda. Coi battiti del cuore che acceleravano, la vista di al-Ain gli si apriva davanti agli occhi che luccicavano con le pietre bianche dei palazzi, colpiti dai caldi raggi del sole dalla metà di giugno fino a oltre il quindici ottobre. Edifici che, nelle vacanze d’inverno, si coprivano di un manto bianco, simile a lana cardata, il cui candore era macchiato da colonne grigio chiaro, disseminate qua e là attraverso i comignoli degli sbuffi delle stufe e dei focolari a legna.
Oggi, parallela ad al-Ain, l’autostrada scivola, inghiottendo ampie distese e chilometri quadrati di terreni a est dell’abitato. Più che una via di comunicazione tra i paesini e i villaggi della regione e le città costiere, sembra un piantone messo a guardia degli insediamenti situati sul lato opposto, che ingurgita quel che resta dei terreni agricoli e comunali. Prima della fine dell’occupazione e della diffusione della cementificazione, le terre incolte non superavano i quattromila dunum[1], circa un terzo del totale. Il rimanente forniva alla gente quasi l’autosufficienza; da quelli chiamati ‘orti dissetati’, ossia irrigati, venivano agrumi, frutta e verdura; da Jalali e dai cosiddetti ‘campi di Baal’, dipendenti per lo più dalle precipitazioni, venivano fichi, olive e tabacco. Tuttavia, complice dell’autostrada, la palizzata contribuì a rosicchiare una buona parte di quelle terre, o ne impedì l’accesso ai proprietari. Tutto appassì, deperì, e chi ne ricavava di che vivere se ne andò alla ricerca di altre patrie più indulgenti, se non altro meno inique, o lasciò definitivamente questo mondo, sperando di avere maggiore giustizia nell’aldilà.
Haj Yassin morì anni dopo sua moglie, lasciando dietro di sé come eredità la “casa di montagna” vuota, ad eccezione del baule marrone e delle storie, una proprietà che cercava qualcuno che potesse resuscitarla di nuovo. Le stagioni del raccolto erano un vero e proprio festival rurale del mutuo soccorso, in cui chi ‘aveva’ chiedeva aiuto a coloro i quali Dio non aveva colmato di beni; chi ‘non aveva’ veniva ricompensato in natura in relazione al lavoro svolto, di modo da stare bene a lungo, anche se si aiutava senza pretendere nulla in cambio. Ora, invece, quelle stagioni sono diventate un fastidioso periodo di magra, che a stento basta ai proprietari per tirare a campare. La mietitura, occasione d’incontro a cui si deve la sopravvivenza dei tre quarti dei matrimoni di al-Ain, oggi è solo come una nuvola di passaggio, in cui la manodopera salariata ha sostituito i ragazzi e le ragazze del villaggio, i macchinari elettrici hanno preso il posto dei rituali della trebbiatura, quando il palcoscenico era l’aia, le stelle erano le messi e le gote s’imporporavano per la vergogna. Se si perlustrasse adesso al-Ain da una parte all’altra, in lungo e in largo, alla ricerca di tracce di pascoli o cortili, non li trovereste più. Cavalcare dietro Quzah, il marito di Na’ima, su di un asse di legno intarsiato con basalti neri, trascinato da un mulo col muso spaccato sui cumuli di grano, per separare il loglio dal frumento in vista dell’immagazzinamento e della macinatura, per lui era come la passeggiata che faceva sulla piazza del porto di Acca, accompagnato dalla madre, seguita dalla puntatina al mercato vecchio per mangiare un rinomato falafel o una profumata shawarma; oppure, gli sembrava di stare al parco divertimenti di Giaffa, la cui visita, di solito, si concludeva gustandosi una buzah[2] damascena, in cui le pasticcerie della città eccellevano in modo particolare, un’arte appresa dalle mani della gente di Nablus, discendenti da alcune famiglie libanesi e siriane.
All’inizio delle superiori, durante una delle visite alla casa di montagna, haj Yassin lo chiamò portandolo nella stanza privata. Camminava adagio accanto al nonno, indugiando alla minima occasione di liberarsi dal braccio dell’anziano, che lo spingeva sulla spalla con gentilezza. Pur essendo ormai un adulto, avvertiva ancora quello stesso tremolio che lo sconquassava da bambino. Rimase alle spalle del nonno quando questi si fermò. Lo vide frugare nella tasca del pantalone nero, che aveva gli orli ricamati con del filo comprato appositamente dal sarto a Ramallah; poi, tirò fuori la mano col contenuto della tasca sul palmo, e la tese verso il nipote, che, in segno di biasimo, sbarrò due occhi come solo sanno fare la circospezione di quei giovani adulti, che non hanno ancora dimenticato lo sguardo dell’infanzia e così svelano i loro sentimenti. Gettò un’occhiata alle dita serrate, come quelle di un pettine, lasciando trapelare un misto di stupore e perplessità. Cosa doveva fare con quella chiave che non aveva mai visto prima?
“Prendi la chiave del catenaccio!”
“Ehm… io?”
“Mi hanno detto che ti piace leggere. Nella cassa ci sono libri e riviste che puoi trovare solo qui, da haj Yassin. Da oggi puoi prenderli in prestito per tutto il tempo che vuoi, a patto che tu te ne prenda cura e li restituisca.”
Solo allora si rese conto del livello di stima che aveva raggiunto, cosa che i suoi cugini prima non avevano fatto; mai, in precedenza, aveva visto uno di loro con in mano un pezzetto di carta dei segreti della cassa. Lo haj non era uno di quegli uomini che rinunciano con facilità ai propri effetti personali, eppure aveva conferito al nipote qualcosa in cui gli altri non si erano mai imbattuti; aveva ritenuto opportuno dargli l’onore di essere il depositario della memoria della famiglia per la prossima generazione. Aveva ancora impressa la prima volta che aveva ghermito il suo sguardo, all’interno della raccolta dello haj Yassin, un pacchetto di foto di gente in cui non conosceva nessuno e in cui alcuni volti e località si erano stropicciati con l’azione del tempo. Assieme alle foto, vi figuravano degli strumenti notarili ‘tabù’ che, gli era stato detto, erano gli atti di proprietà dei terreni di famiglia, e una grossa cartellina grigia, piena di fogli scritti a mano coi nomi e l’albero genealogico della famiglia ‘al-Ain’; a margine, c’erano note in rosso quando non si erano avute più notizie di questo o quel ramo, a causa di emigrazione o mancanza di discendenti. Quel giorno non osò sfogliare altro che i titoli che leggeva frettolosamente, ripromettendosi di farlo con maggior attenzione presto. Qui, durante le numerose gite, in cui consumava ore e ore, dimentico di se stesso, tra libri sulla storia della Palestina e della Siria, leggeva del periodo ottomano e delle epoche precedenti, si concentrava particolarmente su tutto quello che gli capitava in mano riguardante il distretto di Acri, dove la sua famiglia si era stabilita prima della sua nascita. Tra le rilegature di un libro, scoprì Zahir al-Omar al-Zaydani, capo beduino che si autoproclamò emiro, dopo essere insorto contro gli Ottomani, nella seconda metà del XVIII secolo e aver esteso il suo dominio sulla maggior parte della Galilea. L’emiro riottoso pensò bene di consolidare il proprio potere sostenendo l’agricoltura e l’industria tessile, in particolare della seta; inoltre, volle sviluppare lo storico porto di Acri, per mettere in moto l’esportazione e i collegamenti con l’esterno, con un occhio di riguardo alla Francia, paese con cui aveva firmato un accordo di regolamentazione commerciale. Non appena venne aperta la strada alla manodopera proveniente dalle regioni circostanti e dagli emirati, per attirare le maestranze e spingerle a stabilirsi nelle aree sotto la sua autorità, i discendenti dei Fenici, esperti di navigazione e allevamento dei bachi da seta, furono tra i primi a giungere. Così, i ricordi del nipote dello haj Yassin tornarono ai volti e ai nomi seduti sui banchi della scuola ‘Terrasanta’ dei Francescani di Acri, snocciolando i cognomi dei bambini, come Suwayd, Khalifa, al-Asmar, al-Kilani e altri, famiglie originarie del Libano e della Siria. Sforzandosi, provò a rievocare le immagini di volti dal passato, ma la polvere del tempo ingannava i negativi della memoria impedendole di palesarsi di nuovo.
Suo nonno ricordava il padre Najm, commerciante, nei giorni in cui i confini erano mere linee immaginarie e collegavano anziché dividere le due sponde, unendo interessi e collegamenti tra le due parti, senza che l’una si dichiarasse nemica dell’altra. Ogni volta che ritornava da viaggi commerciali nella regione di Beirut non la smetteva di elogiare Sidone che, vicina al mare, si trovava sul suo cammino di andata e ritorno; non si limitava a descrivere quanto fosse contento non appena si incamminava verso la città, ma spesso vi voleva trascorrere la notte, anche a costo di ritardare il ritorno ad Acri, perché la somiglianza tra le due città le rendeva quasi perfettamente gemelle, senza alcuna differenza. Sebbene desiderasse con ardore il posto in cui era nato, si dirigeva alla volta del centro della vecchia Sidone per mangiare un falafel accawi o una kunafah al-nablusi. In fin dei conti, Sidone e Acri non erano state parte di un solo emirato sotto il controllo del principe libanese Fakhreddin II, che estese il suo dominio costiero da Latakia fino ai confini settentrionali di Jaffa?
Dopo cinque ore e quaranta di volo da Londra, dove aveva fatto scalo tra Montreal e Tel Aviv, superate le esagerate procedure e gli interrogatori fiume, e in generale provocatori, dell’aeroporto di Lod, fu rilasciato. Si ficcò il passaporto canadese nella tasca interna della leggera giacca di lino e, dall’altra, tirò fuori un pacchetto di Du Maurier e si mise a guardarsi intorno, alla ricerca del padiglione riservato ai fumatori per accendersi una sigaretta. Il nipote dello haj Yassin supponeva che la foglia d’acero stampata sul documento gli avrebbe concesso i privilegi riservati ai sudditi stranieri, facilitandogli il passaggio senza troppi intoppi. Tuttavia, ci mise poco a capire che non c’era stata nessuna differenza tra come era stato trattato lui dalla polizia di frontiera, e poi dagli investigatori dello Shin Bet, e come venivano trattati gli emigrati arabi che tornavano, mentre erano in attesa sull’Allenby Bridge, valico di attraversamento frontaliero per quelli che provengono dalla Giordania; un ponte che alcuni si ostinano a chiamare King Hussein Bridge, espressione di un nazionalismo che nega la realtà dell’occupazione. Il figlio maggiore del terzogenito dello haj gettò una rapida occhiata allo specchietto retrovisore, posto davanti al sedile del conducente, prima che questi girasse la chiave per accendere il motore dell’auto, vi osservò un volto al quale si era abituato da decenni, eppure quel giorno notò qualcosa di non familiare: una piuma grigia di anni si era adagiata tra le folte ciocche di capelli e i fini peli della barba. Fissò due occhi che cercavano la gioia di chi torna dopo una lunga assenza e che avevano incontrato solo il tormento del viandante che incrocia forestieri, in una terra di cui possiede soltanto un documento logoro, come le articolazioni dei primi amici sbriciolate e decomposte sotto una terra che un giorno gli era appartenuta.
Non prestò attenzione ai giardini, con gli alberi appesantiti dalle tonde arance e dai mandarini, attraverso cui il taxi s’insinuava, verso l’uscita dell’area dell’aeroporto; anzi, tutta la sua confusa concentrazione, unita a un pizzico di rabbia residua di cui ancora sentiva risuonare gli strascichi a causa dell’umiliazione subita, si riversò sul navigatore satellitare, che ogni tanto ordinava di svoltare o di proseguire dritto per qualche centinaio di metri, finché non raggiunse l’autostrada di Jaffa. All’improvviso gli venne una voglia infantile di fare una deviazione verso la costa e bagnare i piedi, fosse solo per pochi minuti, nell’acqua del mare di Jaffa. Era ancora un ragazzo di neanche vent’anni quando aveva sentito per l’ultima volta sul suo corpo il tepore dell’acqua del Mediterraneo sulle spiagge della Palestina. Doveva però raggiungere Ramallah prima del tramonto e passare lì la notte, prima di rimettersi in cammino l’indomani per al-Ain, se non voleva perdere l’appuntamento annuale che la gente del paese celebrava – indipendentemente da quanto fosse lontana da quelle terre, da quanto le loro strade si fossero divise o i destini dispersi. Si trattava di incontrarsi di nuovo per ricordare la Nakbah, nonostante quella parola da sola bastava a risvegliare in lui un misto di malcontento, delusione e rancore. All’uomo non occorrono le approfondite analisi degli esperti di strategia, che in quest’occasione ogni anni riempiono gli schermi televisivi dei canali satellitari, per realizzare che la disfatta degli eserciti arabi davanti al drappello dei guerriglieri ebrei dell’Haganah, aveva almeno lasciato in eredità alle generazioni palestinesi la vergogna di aver perso la terra senza perdere l’identità. Il dolore per la sconfitta e dell’abbandono dei fratelli non lenisce le ferite con una giustificazione qui o uno scambio d’accuse buttato lì.
Per tornare, aveva scelto di prendere la strada che, salendo, passava per burroni e alture e si teneva lontano dalla via a scorrimento veloce, che spesso era vietata alle auto con la targa verde dell’Autorità Palestinese, anche se il suo taxi era identificato con una targa israeliana. Di per sé, quell’esperienza non era strana, ma durante quel viaggio aveva scambiato il sedile posteriore, quando era condotto dove gli altri volevano, col posto del conducente rivolto ovunque volesse andare lui, con nulla ad offuscargli la vista. Il paesaggio non era inusuale, tranne per quello che era creato in sua assenza: una stazione di servizio qui, un’area di ristoro viaggiatori lì, o una strada asfaltata recentemente che conduceva a uno degli insediamenti aggiuntivi. La vettura continuava sul suo cammino come se avesse un pilota automatico, mentre lui veniva condotto dalla curiosità, dalla storia e dall’afflizione che, afferrandolo e ingigantendosi, gli gravava sulle spalle. Nessuno dei viaggi che aveva fatto in Indonesia, Singapore, a New York, alle Hawaii, nei paesi dell’Europa occidentale e orientale, era riuscito a risvegliare in lui questo miscuglio di sentimenti, come stava facendo questo spostamento tra Jaffa e al-Ain. Ad affascinarlo non erano gli edifici e i centri commerciali, costruiti su terreni che non erano mai appartenuti prima agli attuali occupanti; la sua vista non era attratta dai nuovi luoghi di interesse perché restava concentrato, diviso tra i segnali stradali davanti a lui e iNAKBA, un’applicazione dello smartphone che forniva mappe interattive con le informazioni sulle rovine che lo circondavano; rovine che un tempo erano stati prosperi villaggi brulicanti di vita. A destra e a sinistra della strada, i nomi avevano quasi perduto i luoghi cui appartenevano nei meandri della memoria, come Ma’ain o Barfiliyya; altri, come al-Burj e Kharouba, solo di recente erano stati oggetto di riflessione. Poi, d’improvviso, il nome al-Qastal lo scosse, risvegliando le storie che aveva sentito su Abd al-Qadir al-Husayni, colui che si rifiutò di deporre le armi, nonostante le richieste insistenti e l’amarezza sofferta negli ultimi giorni, suggellati dal dispiacere per la viltà di chi credeva ‘fratello’. Era possibile che non conoscesse Deir Yassin[3]? La sola presenza del nome del nonno fu sufficiente a piantare quell’episodio nel suo intimo, al di là del fatto che era l’emblema della folle pulizia etnica, un pazzia infuriata mentre tutti erano ai funerali di al-Husayni a Gerusalemme.
Quanto aveva desiderato un giorno prendere il toro per le corna, sentire a pieno titolo da dentro di sé emanare un coraggio, per unire la sua voce a sostegno delle critiche sarcastiche che i suoi colleghi ed amici canadesi erano soliti muovere alla presunta solidarietà araba al popolo palestinese. Quelli si chiedevano come fosse possibile che qualcuno sostenesse di essere solidale con una popolazione alla quale non aveva mai fatto visita e di cui non conosceva la realtà della vita quotidiana. Un qualsiasi cittadino di uno stato arabo, sopportando la vergogna della disfatta di ieri e innalzando oggi la bandiera del boicottaggio contro Israele, oserebbe sostenere l’economia palestinese, fosse pure con un solo centesimo dei proventi turistici dei periodi di vacanza e della stagione del pellegrinaggio, e aiuterebbe i nipoti della Nakbah a restare radicati nei loro villaggi e certi del loro lavoro? Le agenzie turistiche israeliane non vengono forse a visitare Nazareth, Betlemme, Gerico, Betania oltre il Giordano e altre città, sotto l’attento occhio di guide, e, di sera, riportano i loro clienti a mangiare e pernottare fuori dai Territori Palestinesi, perché così non vi spendano neanche un soldo bucato?! Come ci può essere sostegno e solidarietà con dei mercati ormai deserti e chiusi, in cui le antiche dimore per ospiti si sono svuotate e, coi pilastri crepati, sugli usci sono avvizzite le piante di oleandro, giglio e gelsomino? Con le frecce puntate su di lui, i suoi amici canadesi concludevano così a mo’ di rimprovero: “Signori, le famiglie che sgobbano non si nutrono di slogan, i bambini non si vestono, non coprono la loro nudità con i fogli degli elaborati proclami, rilasciati da conferenze di sofisti, fatte in hotel a cinque stelle!”
Voleva che il mare fosse la ciambella che lo salvasse dall’annegamento e dalla pena, perché con la Nakbah gli si erano erte in faccia torri enormi prima che si eclissassero dietro di lui, come lui se fosse la copia carbone di uno dei guerrieri di Tareq bin Ziyad, il conquistatore dell’Andalusia, quando ai suoi soldati semplificò il dilemma che si trovarono a fronteggiare con questo famoso detto: “Il nemico è davanti a voi e il mare è dietro di voi.” Era vero che aveva letto molti libri che non facevano parte di quelli del baule marrone dello haj Yassin, che aveva visto molti documentari diversi da quelli girati da Palestinesi, ma sulla strada verso al-Ain stava attraversando la propria Nakbah personale, dopo quella vera e propria. Non volendo perdere quelle riflessioni nell’oblio, le scrisse sul suo profilo Facebook, prima che il motore si spegnesse e lui scendesse dal taxi.
Quando il padre parcheggiava l’auto e, a dispetto della sua risolutezza, lo chiamava con voce calma per accertarsi che fosse sveglio, lui, prima di preoccuparsi di scendere, muoveva rapidamente lo sguardo tra tre punti fissi: il portone esterno in ferro il cui candore lo distingueva dal famoso verde degli altri cancelli, il colore della “gente della casa”; il pino secolare, simbolo distintivo del vicinato; tra questi due, l’albero e il cancello, sotto una rigogliosa pergola ombreggiata, il terzo era lo haj Yassin, sulla sua sedia preferita, con la struttura di metallo e le estremità rinforzate con cordicelle in plastica arancione che andavano a formare il sedile e lo schienale. E se lo haj mancava da questa scena tripartita, lo chiamava con ansia e stupore: “Nonno!” E sentiva la risposta: “Siete già qui, cari i miei eterni?”, prima di vedere un volto dai lineamenti rilassati e due braccia; allora i battiti del cuore mi mettevano a pulsare per la bramosia di quel dolce incontro.
Filava dentro, portando i bagagli per le vacanze che, ogni anno, con l’avanzare dell’età, si facevano più pesanti; attraverso l’ampio salone, si dirigeva alla stanza degli ospiti e quando, col capo chino e la schiena arcuata, al pari di Ercole che regge il globo terrestre senza fiatare, oltrepassava la volta di pietra, che da sola reggeva il peso di tutta la casa, si rendeva conto di aver percorso metà della distanza che lo separava dal baule. Prima di sbarazzarsi del carico, analizzava dall’angolo e non si rimetteva in moto senza essersi accertato che l’imperituro abitante fosse ancora lì accucciato, al riparo dai segni del tempo; anche se non gli era mai passato per la mente di supporre che qualcosa potesse alterarne l’apparenza o i dettagli. Eppure, quando chiamò suo zio Yahya per fargli le condoglianze per la morte dello haj, si limitò a cortesi frasi di conforto e indugiò a interrogarlo sul baule e quale ne sarebbe stato il destino. Fu estremamente felice di sentire in risposta, con le sue orecchie, il testamento non scritto dello haj; sul letto di morte, il nonno aveva ribadito che, dopo la divisione degli atti di proprietà agli eredi con equità e comune accordo, la chiave del baule avrebbe dovuto essere consegnata soltanto a lui, una volta tornato dall’esilio. Voleva sempre che un giorno l’anima si immergesse nei suoi segreti intimi, portando a termine la traversata della memoria, abbeverandosi alla sua fonte con le esperienze degli antichi che elargiva; quello che riguardava i conti erano altra storia.
Non volle credere alla realtà che gli si palesava davanti, con una bruttezza che ne semplificava la tragedia. Passò al setaccio tutto ciò che gli capitava sott’occhio con la precisione di un investigatore della scientifica che cerca le prove, come per dare alla propria mente la possibilità di analizzare le immagini. Un cumulo di pietre, rovinate una sull’altra, come appena crollate, dietro cui squarci vuoti lasciavano vedere il vacuo buio alle loro spalle, dopo che negli anni di gloria tutto era stato custodito da porte che bloccavano l’ingresso a volti non graditi, ma che si aprivano agli ospiti amici e leali. Il piano superiore, a cui si accedeva salendo una scala esterna in cui ogni gradino era stato ricavato da una sola lastra e recava incisi i solchi del calpestio delle suole che erano salite e scese per incontri privati o per le soirée di festa sulla terrazza che dava sulla strada, era stato distrutto; l’erba già cresceva su quel che rimaneva del tetto spaccato e dei muri. Gli archi di pietra, che per secoli persi nel tempo avevano ornato la casa, erano incrinati e le giunture così distanti da causarne il crollo definitivo. Ascoltando attentamente, si poteva sentire il gemito delle pietre, sussurri di dolore profondo portati dal vento che schiaffeggiava il viso coi profumi di un passato splendido e il tanfo di putrido del presente. La pioggerella di una scura nuvola di passaggio cadde come giunta appositamente per l’occasione; le gocce si mescolavano alle lacrime che avanzavano furtivamente sulle sue gote. Prima di riuscir a mettere insieme la determinazione e i soldi per il viaggio di ritorno che così si era allontanato, lo zio Yahya era morto senza un erede e la casa era crollata tra le grinfie dell’indifferenza e della dimenticanza. Barcollando sui stessi passi, inciampò tra le pietre e quasi rovinò a terra anche lui, ma la voglia accelerò i suoi piedi, evitò di cascare sostenendosi a ciò che restava al solido pilastro portante; s’affrettò a penetrare nelle tenebre coi passi mossi da una domanda di cui già conosceva la risposta. All’interno non rimaneva nulla che potesse raccontare cosa era accaduto, nessun baule marrone né persone a lutto. Anzi, una macchia di luce nel solito posto in cui si rintanava lo sospinse verso dentro, superando lo scheletro quadrato di ferro della finestra, a cui ancora erano aggrappati l’unica feritoia; i fili di un tramonto rosso sfavillavano sugli occhiali, indossati per correggere la vista. Per qualche minuto s’invaghì del disco giallo che si delineava tra le nubi al limitare dell’orizzonte, come qualcuno che cerca un’ispirazione o un segno divino credendo che arrivi fissando lo sguardo.
Ora, la casa dello haj Yassin era casa sua. Sulle bocche dei passanti, che andavano e venivano, solo il suo nome scorreva, a seconda delle loro impressioni, tra un “Dio cancella l’assenza!” e un “Che peccato che questa fortuna sia abbandonata così!”. Si arrovellava i pensieri nel vasto oceano delle possibilità e dei propositi, spinto da una forza occulta, come se col suo istinto perseguisse la salvezza, mentre uno spirito rimaneva fuori nella luce evanescente. Prima che l’oscurità prendesse il sopravvento, si chinò su un asse, che sembrava ancora qualcosa di simile a una porta, steso ai suoi piedi e lo sollevò appoggiandolo al muro e poi lo fissò fermo con una pietra. Era lì, ripudiato tra i sassi, prima che gli venisse confidata la sua nuova missione, accettò quella responsabilità giuntagli in eredità, raddrizzando le reni e portando la sua nakbah sulle spalle.
Nahed Abou-Zeid
Scrittore ed educatore libanese, emigra in Australia sul finire degli anni ’80 dove continua ad insegnare. Laureato in filosofia in Libano, prosegue gli studi a Melbourne, città in cui si laurea in Scienze dell’educazione e poi si addottora in Studi Arabo-islamici. Agli inizi degli anni ’90 entra nel giornalismo, collaborando con la testata libanese al-Bayrak e la radio australiana SBS. Più tardi si trasferisce a Londra ed entra alla BBC Arabic come inviato in tutto il mondo arabo. Il presente racconto è tratto dalla sua prima raccolta edita, “Nero… bianco”.
[1] Unità di misura corrispondente a 2500 mq in Iraq e circa 900 mq in Palestina.
[2] Preparazione dolce a base di salep, gomma arabica, zucchero e latte che vengono lavorati fino ad ottenere una sorta di gelato elastico e gommoso che non si scioglie.
[3] Villaggio ad ovest di Gerusalemme, teatro di un tristemente famoso massacro nel 1948 ad opere delle milizie sioniste.
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