Faccia di gatto di Al mondher Al marzouki

Traduzione di Antonino d’Esposito

Dopo essersi svegliato tardi, si diresse al bagno vicino alla stanza. Si mise d’impegno a sfregare occhi, orecchie e cuoio capelluto ormai dominato dalla calvizie. Quando alzò lo sguardo allo specchio, notò una cosa che gli parve bizzarra. Infatti, riflessi sulla superficie dello specchio, vide dei lineamenti che non erano i suoi, un volto che non era il suo. Rimase un tantino confuso perché non capiva come poteva lavare quella strana faccia pelosa, quindi si limitò a spruzzarci su dell’acqua; poi indietreggiò, nel tentativo di ricordarsi com’era fatto il suo viso precedente.

Tuttavia, incalzato dalla fretta, smise di chiedere alla sua memoria di sforzarsi a rimembrare alcun che. Adesso la sua fisionomia di prima non c’era più, scomparsa del tutto dietro ai nuovi tratti felini. Gli occhi erano diventati particolarmente tondi e lucenti, di un verde oliva; sopra ai baffi, sottili e bianchi, che vibravano sincronizzati ogni volta che muoveva la bocca o la punta delle narici, il naso appariva piccolo e grazioso.

Vestitosi, si poggiò gli occhiali sulla testa, tenendoli fermi con le orecchie, drizzate come triangoli simmetrici, che terminavano con due ciuffetti dritti di pelo. Di questo fu felice, perché su quella pelata, lucida e convessa, gli occhiali scivolavano in continuazione. Prese il portafoglio e l’ombrello dirigendosi verso la porta, dove gettò un’ultima occhiata allo specchio antico appeso all’ingresso. Il suo nuovo aspetto gli piacque. Sorrise, mettendo in mostra i denti appuntiti e la linguetta rosa e poi si leccò avidamente dalla bocca i residui di olio di sardine in scatola che, contrariamente al solito, aveva trangugiato con ingordigia e senza pane.

Scese le scale con leggerezza, camminò elegantemente sul lastricato del marciapiede sulla destra e gli venne in mente di dire buongiorno ai proprietari dei negozi e dei chioschi con un cenno del capo o della mano; accompagnava i passi battendo lieve l’ombrello sul selciato umido del marciapiede. Sembrava insolitamente felice e suscitava così lo stupore e i sorrisi dei passanti.

Quando l’ossigeno gli riempì l’ampio petto, ebbe la sensazione di avere in corpo una forza propulsiva che proveniva dal punto in cui prima sentiva come un’oppressione. Prese a respirare a pieni polmoni, con tutte le cellule del suo corpo, facendosi beffe delle sue vecchie paure: la paura del direttore, quella del vicedirettore, del capufficio, dei funzionari amministrativi, dei fattorini e dei portieri. Poi, si ricordò della disoccupazione, l’assegnazione, il tirocinio, la nomina nella pubblica amministrazione, le indennità, le promozioni, gli scatti di carriera, le visite d’ispezione, le commissioni di controllo disciplinari. Ricordò tutto questo e rise per quanto timore ne aveva avuto e per quanto si era lasciato abbattere.

Quando raggiunse la porta della sede dell’amministrazione, entrò direttamente senza inchinarsi amichevole o elargire saluti gratuiti che poi tutti ignoravano; non sorrise come un automa a chi incrociava il suo cammino né abbassò la testa per rispetto ai più infimi idioti. No, entrò nel suo ufficio sorridendo e si sedette davanti al computer fiducioso. Cominciò a sistemare quaderni e fogli e quando si mise a battere sulla tastiera capì di avere dita da gatto e artigli affilati da lupo, nascosti sotto una folta pelliccia colorata. Sorrise dentro di sé e grattò sulla gamba di legno del tavolo con le unghie; si sentì calmo, uno sguardo brillante e astuto gli illuminava gli occhi.

Si immerse nel lavoro prima che i colleghi iniziassero ad arrivare a frotte negli uffici. Fece finta di non sentire i saluti che comunque non erano rivolti a lui; poi, trascorso qualche minuto, notò che il collega dell’ufficio di fronte aveva preso una tazza di caffè vuota e gliela puntava contro. Come suo solito borbottava simile a un bue che rumina pigro:

“Mmmm… tu. Il solito caffè, e sbrigati.”

E quando il ruminante non ebbe risposta o non sentì i suoi passi affrettarsi verso di lui, cosa che era solito fare, alzò la sua testa enorme e lo fissò. Eppure, guardando quei suoi occhi scintillanti, balbettò ripetendo parole incomprensibili che gli morirono in gola. Uscì di corsa, diretto al caffè che si trovava ai piedi dell’edificio, quasi soffocato dai suoi belati trattenuti.

Al termine del turno serale, quando aveva quasi finito di rivedere e verificare i documenti che aveva davanti, si rese conto di un altro collega che gli veniva incontro con un malloppo di fascicoli che gli piazzò dinnanzi. Al che, come d’abitudine, gli ordinò di distribuirli agli uffici degli altri piani al posto suo. Poté soltanto sorridere, sbeffeggiando il naso da topo dell’altro e l’urlo che aveva lanciato con la sua voce patetica e adirata. Da dietro quel sorriso sicuro di sé, emersero i canini appuntiti; allora, il roditore, confuso, se ne andò tirandosi dietro la lunga coda. Giocando con le vibrisse, ammiccò al riflesso del volto felino sullo schermo del computer dove gli occhi tondi brillavano lieti per qualcosa. 

Così la giornata trascorse senza che nessuno lo avesse colpito alle spalle, senza che un collega lo avesse preso in giro o che uno lo avesse messo in imbarazzo, o che gli altri gli avessero attribuito barzellette sconce, alle quali era obbligato a ridere e fare moine adulando e umiliandosi. Quando il turno fu concluso, non un minuto dopo, lasciò il posto sotto gli occhi dei colleghi attoniti e ipocriti, senza sentirsi costretto a sprecare un’altra ora per ultimare i loro dossier che avevano ammucchiato sulla sua scrivania prima di andarsene. A quell’ora, decise di fare una passeggiata sulla Corniche per godersi il tramonto, quando il sole arancio si tuffa dietro l’orizzonte, propagando sulla distesa del mare e nella volta del cielo un miscuglio di colori infuocati per accompagnare gli stormi di uccelli ai loro rifugi lontani.

Se ne tornò tranquillo alla sua stanza, che si trovava al quarto piano di un palazzo antico, in una strada trafficata. Era deciso a godersi le briciole del suo nuovo giorno. Fece la doccia, cenò e si mise comodo perché avrebbe voluto guardare un documentario che parlava delle gerarchie all’interno dei branchi di lupi e dei felini, o rileggere l’ultima ora del romanzo di Mikha’il Nu’ayma L’ultimo giorno. Ma dimenticò tutti i suoi propositi quando il suo gatto balzò sul letto e gli si accovacciò di fronte.

Provò ad ignorarlo, ma l’animale miagolò e gli si strofinò addosso. Solo così fece caso al volto pallido del gatto, alla pelle cadente e gli occhi tristi e stanchi. Lo sguardo era sottomesso, spezzato, le zampe come impigliate. Le labbra, invece, erano secche e pulsavano neanche stessero implorando o piagnucolando.

Sembrava nervoso, fece all’animale:

“Lo so che mi supplichi e fai l’elemosina come sempre. Vuoi che ti coccoli, che ti accarezzi la testa, che davanti agli altri giustifichi la tua debolezza. Vuoi che ti convinca che la tua rassegnazione è una cosa buona, che la tua contrizione è una forma d’amore perché detesti far del male a chi ti molesta, che perdoni e assolvi perché non hai la forza di odiare e di essere crudele.”

Il gatto non disse una parola, ma chinò il capo accondiscendente. Continuò:

“Io, invece, a partire da oggi non accetterò più di riavere questa faccia dai tratti candidi, gravati dalla troppa gentilezza. Oggi ho testato la loro codardia, hanno evitato il mio sguardo acuto come topi spaventati. Oggi ho capito che la mia sottomissione è la mia tragedia, la mia debolezza, il mio crimine… un crimine che ho deciso di non reiterare per me stesso mai più.”

Finì il discorso ed uscì sul balcone della stanza, che dava sulla via gremita di gente e luci. Osservò le alte stelle sorridendo; fece un respiro profondo, si lisciò i baffi e avvertì il corpo del gatto depresso avvicinarsi e strusciarglisi contro.

All’alba, sul lato destro della strada, i passanti notarono il cadavere in una pozza di sangue che sgorgava da tutte le membra. Osservarono che il volto aveva perso completamente i lineamenti a causa dell’impatto sulle pietre del marciapiede, e che il corpo era diventato una massa di carne senza una chiara identità. E lassù, al di sopra della folla che si interrogava, al quarto piano dell’antico palazzo, dietro la tenda del balcone così stretto che due persone non ci stavano, si nascondevano dei lineamenti offuscati che guardavano di sottecchi verso la salma sul marciapiede e i passanti. Poi, scomparvero dietro la stoffa, completamente.  

Tunisi, 22 agosto 2021.

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