Traduzione di Jolanda Guardi
Capitolo 1
Mi sveglio al suono di un richiamo proveniente da un mondo lontano, all’improvviso mi rendo conto che è l’ultima chiamata per il treno. Mi alzo in preda al panico. Guardo i volti di coloro che sono seduti intorno a me al caffè. Non ne vedo nessuno di quelli presenti prima che mi addormentassi al mio posto. Com’è possibile che il colpo di sonno che mi ha colto si sia trasformato in un sonno profondo e ingannevole? Non riconosco il marciapiede indicato per il treno. Il caffè si trova lontano dai binari.
Prendo il portafoglio di pelle dalla tasca posteriore dei pantaloni e ne estraggo una banconota senza controllarne il valore, la metto sul tavolo, prendo la valigia ed esco rapidamente. La borsa sulla spalla mi impedisce di correre con la scioltezza che vorrei. Posso solo proseguire il più velocemente possibile.
Mi rendo conto che perdere il treno significa perdere il mio nuovo impiego, che di certo otterrò dopo i colloqui e dopo che mi avranno accettato come rappresentante marketing nella compagnia farmaceutica. Non sono disposto a perdere l’occasione né a tornare da mia madre e mio padre a mani vuote, non per amore di stare con loro quanto piuttosto per il desiderio di liberarmi dai legami famigliari. I loro volti mi appaiono, ma li scaccio subito dalla mente per non distrarmi e continuare a correre il più velocemente possibile. Quanto allo spettro di Dalal, che è apparso ridendo, è stata la vera ragione del viaggio, ma ora devo prendere il treno.
Mi dirigo al binario 2, il treno è lontano rispetto a dove dovrebbe essere. Ma non ho nessun dubbio che sia il treno giusto, anche perché non ce n’è nessun altro. Lo vedo muoversi lentamente, mi agito, quasi lancio la valigia per alleggerirmi di tutto e riuscire a prenderlo.
Metto un piede sulla predella dell’ultima carrozza che ha la porta aperta e afferro la maniglia, riesco a strisciare all’interno del treno e, non appena appoggio i piedi, mi sfugge il portafogli, che tenevo in mano da quando ero uscito dal caffè; non fosse stato per la tendina, sarei scivolato e caduto. Lancio la valigia, poi mi getto a terra e mi allungo sulla schiena, incredulo di avercela fatta. Provo rabbia e nervoso per la perdita del portafoglio. Poi mi viene un colpo quando mi accorgo di non avere il cellulare! L’ho dimenticato al caffè, dove l’ho dato a un ragazzo perché me lo caricasse?!
Resto al mio posto finché i miei respiri affannosi non si calmano, poi balzo in piedi. Frugo nelle tasche in cerca del biglietto, mentre mi pongo una domanda alla quale non so rispondere: dov’è diretto questo treno?
Apro la valigia e inizio a controllarne il contenuto e mi sembra di aver dimenticato anche il biglietto al caffè. Mi asciugo il sudore dalla fronte col dorso della mano e sorrido all’idea di essere su un treno di cui non conosco la destinazione.
Smetto di ansimare e nel mio corpo si diffonde una piacevole frescura. Provo dolore alla gamba sinistra. Non do importanza alla cosa. Prendo il pacchetto delle sigarette. Mi guardo intorno e non vedo nessuno. Sebbene abbia la gola secca, accendo una sigaretta e mi appoggio alla porta chiusa di fronte, aspirando il fumo. Rimango seduto a terra, con la schiena dritta, contento di essere riuscito a prendere il treno. Spengo il mozzicone della sigaretta. Faccio leva sul piede sinistro per controllare la gamba dolorante. Il dolore è sopportabile. Forse è uno strappo causato dalla corsa prima di salire sul treno. In quel momento ricordo che quando dormivo avevo in mano un libro. Apro la valigia, sospiro di sollievo, lo trovo appoggiato sopra la mia roba. Richiudo la valigia e mi alzo dirigendomi verso la porta interna della carrozza viaggiatori.
Osservo i sedili di velluto blu allineati lungo la carrozza, mi piace siano privi di viaggiatori. Posso scegliere il posto più adatto, la solitudine, il finestrino.
Passeggio per la carrozza vuota avanti e indietro e mi metto comodo tra due sedili al centro, mi piace siano distanti dalle porte della carrozza, dove c’è il movimento di chi entra e chi esce. Guardo fuori dal finestrino ma non vedo nulla. C’è la nebbia. Prendo il libro. Metto una gamba – dolorante a causa di uno strappo provocato da ragioni sconosciute e che indossa pantaloni verdi – sull’altra. Mi guardo le scarpe marroni eleganti come se le vedessi per la prima volta. Sento il sudore colarmi sulla schiena. Penso di togliermi la giacca, ma poi decido di aspettare, l’aria condizionata, fra poco, raffredderà la carrozza.
Afferro il libro. Osservo il titolo sulla copertina. Il libro dei sogni. Mi sembra di leggerlo per la prima volta. Non capisco il motivo del mio strano vuoto di memoria. Trovo un segnalibro di cartone tra le pagine, sono contento di continuare la lettura, ma mi stupisco di non ricordare nulla di ciò che ho letto. Ciononostante proseguo dal punto in cui si trova il segnalibro. Il passo riguarda il corpo nel suo viaggio dall’infanzia alla vecchiaia. L’autore osserva il graduale indebolimento del corpo, legato alla maturità e per finire l’appassire di entrambi. Mi stupisco di non riuscire a ricordare nulla.
Osservo, dopo un po’, che la carrozza continua a essere vuota. Nessun venditore ambulante di quelli che di solito si incontrano, nessun viaggiatore curioso che guarda i passanti mentre si dirige alla toilette o cerca una carrozza vuota. Nemmeno il controllore che chiede ai viaggiatori di mostrare il biglietto. Mi alzo e mi dirigo verso la carrozza successiva. Apro la porta e la richiudo, poi passo fra le due carrozze sommerso dal frastuono del treno che si eleva nello spazio aperto nel percorso fra le due porte una di fronte all’altra. Non trovo nessuno nemmeno nella carrozza successiva.
La scena dei sedili vuoti, silenziosi, abbandonati si ripete. Mi affretto un po’, stupito. Rivolgo lo sguardo ai finestrini, ma fuori non vedo nulla. Arrivo alla carrozza numero 5 e qui non vedo sedili. Ci sono invece scompartimenti uno dietro l’altro con le porte chiuse, che si affacciano tutte su un corridoio deserto la cui ampiezza è metà della carrozza, a sinistra i finestrini ampi del treno che non lasciano intravedere nulla all’esterno.
Forse sono le cuccette. Questo penso, mentre trovo uno scompartimento aperto. Getto uno sguardo cauto all’interno: un piccolo tavolo rettangolare posto al centro tra due divanetti di pelle sufficienti perché una persona possa sdraiarvisi. In un altro scompartimento due letti a castello.
Comincio a preoccuparmi, mi sento confuso. Sono in dubbio se tornare al mio posto o continuare a cercare altri esseri viventi su questo treno, poi mi viene in mente una terza possibilità, ignorare tutte queste sciocchezze e rilassarmi sdraiato su un divano. Di sicuro il treno si fermerà per accogliere altri viaggiatori in altre stazioni. Con questo pensiero rassicurante dico a me stesso che leggere in uno scompartimento comodo come questo è meglio di qualunque altra scelta. Resto indeciso se tornare al posto che mi sono scelto o proseguire fino alla carrozza ristorante.
Titolo originale: Ibrahim Ferghali (2021). Qàri’at al-qitàr. Al-Qahira: Ad-dar al-misriyya li-l-bananiyya.
Ibrahim Ferghali è un critico e scrittore egiziano. Nato nel 1967 ad Al-mansura, ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti, Bi-ittigiàh al-ma’aqi, nel 1967. È autore di numerosi romanzi che si muovono tra il realismo e il fantastico e sperimentano stili di scrittura diversi. Due di questi hanno vinto il premio Sawiris: Abnà’ al-Giabalawi (2009) nel 2012 e Ma’bad unàmil al-harir nel 2017. quest’ultimo è stato inserito nella Long List del Booker Prize nel 2016. È anche stato finalista del premio Shaykh Zayd. Alcune sue opere sono state tradotte in inglese e alcuni racconti in inglese, italiano e tedesco.
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