Di Ahmed Fagih (Aḥmad Ibrāhīm al-Faqīh)
Recensione di Federica Pistono
In sintesi
Sotto l’implacabile sole del deserto libico, un gruppo umano si accampa su una terra precedentemente dominata da creature del deserto: ratti dalle lunghe zampe, che si seppelliscono nei tunnel per sfuggire al caldo, serpenti che strisciano nell’ombra, tartarughe, lupi, ed eserciti di formiche. Quando gli umani iniziano a cercare cibo, s’ingaggia una battaglia per la sopravvivenza. Mentre gli animali e gli umani combattono, questi ultimi devono affrontare anche una tribù rivale che si è stabilita nelle vicinanze. Quando un disastro colpisce l’area, arriva il momento per tutti – uomini e animali – di allearsi in un fronte comune.


Il sole raggiunse un punto in mezzo al cielo, e tirò le redini del suo carro. Non riportò alcun danno, sostando un attimo a riprendere fiato.
Da quella posizione, scoccava frecce di fuoco, dardeggiando la terra sottostante, una landa riarsa, che emanava odore di bruciato. Il calore trasformava i ciottoli in carboni ardenti, la sabbia in brace incandescente, e i cespugli e le piante, un tempo verdeggianti, in ammassi di rami secchi, pronti ad avvampare in una nuvola di fiamme e fumo.
Nessun essere umano viveva in quel deserto, dove il caldo era intollerabile. Vi abitavano solo animali e insetti. Fra gli animali, vivevano in quel luogo principalmente i jerboa, roditori dotati di lunghe zampe posteriori, che si muovevano saltando. Per questo motivo, da quelle parti, l gente li soprannominava zampalunga.
I jerboa vivevano in una grande colonia, composta di ratti appartenenti a tutte le generazioni: anziani, adulti e piccoli. I raggi infuocati del sole non rappresentavano la preoccupazione principale del jerboa o, almeno, non direttamente. Il pericolo derivava dal modo in cui il calore agiva sulle vipere e gli altri serpenti, che si agitavano follemente, sollevando la testa con movimenti convulsi, lasciandosi dietro sentieri contorti, in cui le loro pance disegnavano motivi nella sabbia.
Ratti senza tana, opera dell’acclamato scrittore libico Ahmed Fagih, è un romanzo che, pur potendosi senz’altro definire fantastico, contiene elementi di carattere storico e offre una visione approfondita della cultura e della geografia libiche, in particolare quella del Jabal Nafusa occidentale.
La trama dell’opera ruota attorno agli sforzi dei membri di una tribù sfollata dalla città di Mizda (città natale di Fagih) per sfuggire a una terribile carestia, generata da una grave siccità alla fine degli anni Quaranta, appena prima dell’indipendenza della Libia nel 1951 e ben prima della scoperta del petrolio nel 1959. Guidate da Sheikh Hamed, diverse famiglie lasciano la città e si spostano verso sud, dirette a Jandouba, un luogo noto per i suoi campi di orzo, solo per scoprire che il cereale che stanno cercando è stato consumato da una famelica comunità di jerboa, ratti dalle zampe lunghe. La storia è raccontata principalmente dal punto di vista dei protagonisti umani, con occasionali antropomorfizzazioni dei jerboa e degli altri animali che abitano il deserto, tra cui formiche, aspidi, locuste, lucertole spinose, lupi e tartarughe, ognuno dei quali si trova a subire, dal proprio punto di vista, le devastazioni provocate dagli umani.
Questa è, per esempio, la visione di una colonia di formiche del deserto libico:
La terra tremò mentre i piedi di un gigante calpestavano la pacifica città, distruggendola completamente, fino a precipitarla nelle profondità della terra. Migliaia di abitanti di questa città caddero vittime del disastro, mentre altri riuscirono a fuggire, terrorizzati, in tutte le direzioni.
Ma non sono solo le formiche di Jandouba a essere disturbate dagli umani. Un senso di un pericolo comune unisce formiche, scarafaggi, ragni, vermi, scarabei, cavallette e ricci. Gli unici animali che vedono con gioia l’invasione umana sono le falene, che cantano e ballano mentre gli uomini accendono i loro fuochi nell’oscurità della notte. Gli antagonisti principali dell’uomo, tuttavia, sono proprio i roditori laboriosi e socievoli di Jandouba: i jerboa. Il rapporto dei jerboa con gli umani s’incrina e si trasforma in lotta per la sopravvivenza, quando il popolo di Sheikh Hamed scopre l’orzo perduto nascosto nei tunnel sotto terra. Sono stati infatti i ratti a ripulire i campi dalle spighe d’orzo, in uno sforzo collettivo per fare provviste per il prossimo inverno.
Proprio quando la tribù errante sembra aver, almeno in parte, risolto i propri problemi, ecco che un altro clan, proveniente dall’est della Libia, si accampa nella vicinanze del primo gruppo, originario, invece, dell’ovest del paese. Né la fame né i matrimoni fra i giovani delle due cerchie riescono a realizzare la fusione dei due clan, che non rinunciano alle reciproche ostilità causate da mentalità e costumi differenti.
Quando, però, una catastrofe si abbatte sul piccolo lembo di deserto, tutti – umani, topi, serpenti, lupi e insetti – devono finalmente unirsi, in un finale a sorpresa, sotto lo stesso cielo di fuoco.
Il romanzo, pubblicato per la prima volta in arabo con il nome di Fa’rān bilā ğuḥūr nel 2000, è stato tradotto in inglese e pubblicato da Quartet Books nel 2011, con il titolo Homeless Rats. L’edizione inglese ha messo questo gioiello a disposizione del vasto pubblico internazionale, che non è certo troppo abituato alla narrativa proveniente dalla Libia. L’opera travalica i limiti della letteratura fantastica. L’autore dipinge infatti un ritratto vibrante della società libica, descrivendo il paese attraverso la sua gente, i suoi sconfinati deserti, le sue leggende popolari e la ricca varietà di tradizioni culturali.
Ratti senza tana è ambientato negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, ma evoca, in realtà, un universo senza tempo, con la sensazione che le battaglie tra fauna selvatica ed esseri umani richiamino anche le esperienze che i Libici hanno vissuto negli ultimi anni. Quando Fagih descrive la comunità di formiche sotto attacco, intrappolata e spaventata come un gruppo di profughi, il pensiero corre alla Libia di oggi. I Libici hanno sofferto proprio in questo modo, prima sotto la dittatura di Gheddafi poi a causa delle guerre dell’ultimo decennio. La storia ricorda i profughi fuggiti in Tunisia o in Egitto, coloro che sono annegati nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, le famiglie coinvolte in combattimenti di strada, coloro che hanno perso la casa e i beni. E ricorda un popolo libico che ora deve affrontare lo stesso compito delle formiche: ricostruire la propria società.
Il romanzo è ricco di spunti e riflessioni di carattere sociale. Descrivendo la lotta per la sopravvivenza affrontata dalla tribù, Fagih parla delle difficoltà causate della scarsità di cibo. Fa sì che Sheikh Hamed rievochi la storia di una famiglia seppellitasi nella propria casa, bloccando con il fango la porta e le finestre, in attesa della morte, per non dover mendicare. Condivide il pianto del capo tribù, quando non ha altra scelta che uccidere il suo cammello – un caro compagno che anni prima gli aveva salvato la vita quando si era perduto in una tempesta di sabbia – per provvedere alla sua gente. Ma Sheikh Hamed, scrive Fagih, non prende parte al banchetto, incapace di mangiare la carne del cammello che gli è stato fedele fino alla morte.
La saga di Fagih nel deserto libico mette a nudo l’anima di un luogo. E il luogo, Jandouba, non è solo teatro di un’immaginaria disputa sull’orzo, ma anche di una battaglia nel 1913 tra colonizzatori italiani e combattenti locali privi di moderne attrezzature militari.
Sebbene il ricorso all’elemento fantastico da parte di Fagih riecheggi la narrativa di altri scrittori della sua generazione, come al-Sadiq al-Nayhum e Ibrahim al-Koni, il romanzo ha molto in comune anche con le precedenti opere di Fagih, in particolare con il racconto Le Locuste, ambientato a Mizda. In effetti, le cavallette protagoniste del racconto compaiono nuovamente, iconicamente, nel romanzo.
L’autore sfiora anche argomenti tabù, come le disavventure sessuali di un ragazzo ritardato, la promiscuità sessuale, le virtù dei cani come animali da compagnia e, non ultimo, il ruolo della religione nella società libica. Un tema che suona particolarmente attuale è quello delle divisioni e delle differenze di mentalità tra gli abitanti dell’Est e dell’Ovest della Libia (il famoso divario Tripolitania-Cirenaica), che può cogliersi nei contrasti che separano i due gruppi accampati nella medesima area.
Il messaggio, contenuto nel finale, che suona quasi profetico nella Libia di oggi, è quello della necessità di unione e solidarietà – fra le persone, gli animali e l’ambiente – di fronte alle avversità.
L’Autore
Il romanziere libico Ahmed Fagih (1942-2019), è stato, insieme a Ibrahim al-Koni e Khalifa Hussein Mustafa, uno dei romanzieri libici più famosi del XX secolo. È ricordato come “l’autore del romanzo arabo più lungo” per la sua opera monumentale Mappe dell’anima, ed è entrato nella lista dei “105 migliori romanzi” del XX secolo dalla Arab Writers Union, con la sua trilogia Ḥadā’iq al-layl (I giardini della notte), 1991, un’opera che ha vinto il premio per il miglior romanzo alla Fiera del Libro di Beirut del 1991.
Fagih, nato nel villaggio di Mizda, a sud di Tripoli, ha iniziato a pubblicare storie fin dall’ adolescenza, alla fine degli anni ’50. Nel 1962 ha ottenuto una borsa di studio per studiare giornalismo in Egitto. La sua prima raccolta di racconti, Il mare senz’acqua, edita nel 1965, ha vinto un premio dalla Royal Commission of Fine Arts della Libia.
Fagih ha continuato a studiare teatro a Londra, rientrando in Libia nel 1972, poco dopo il colpo di stato di Gheddafi. Tornato nel Regno Unito, ha conseguito un dottorato in Letteratura all’Università di Edimburgo nel 1982, con una tesi sul racconto libico.
Al centro della sua opera, la critica a una società caratterizzata da forti ingiustizie e soprusi contro i deboli, ma anche la speranza costante in un futuro migliore.
Frequenti, nelle opere letterarie dello scrittore, la descrizione della vita agreste, del mondo rurale, da cui egli stesso proveniva, e che ha descritto in tono appassionati e sinceri.
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