Ritratto di una scrittrice libica
Articolo di Federica Pistono
Najwa Bin Shatwan è un’accademica e scrittrice libica, nata ad Ajdabiya, in Libia, nel 1970.
Dopo la laurea magistrale in Scienza dell’Educazione, ha conseguito un Dottorato di ricerca in Scienze umane presso l’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sulla tratta degli schiavi in Libia durante il periodo ottomano. Ha insegnato presso l’Università di Bengasi.
Attualmente vive a Roma.
È autrice di diverse opere letterarie in lingua araba:
2004 قصص ليست للرجال (racconti);
2006 طفل الواو (racconti);
2007 الملكة (racconti);
2007 وبر الأحصنة (romanzo);
2008 مضمون برتقالي (romanzo);
2012 الجدة صالحة، (racconti);
2016 زرايب العبيد (romanzo);
2018 كتالوج حياة خاصة (Catalogue of a Private Life) (racconti);
2019 عشرون حالة كنت فيها وحيدًا (racconti);
2019 صدفة جارية (racconti);
2021 روما تيرمني (romanzo).
Fra le sue opere, il romanzo breve Il crine di cavallo ha vinto il premio inaugurale del Festival sudanese al-Begrawiya, nello stesso anno in cui il Sudan era Capitale della cultura araba, mentre romanzo Contenuto arancione, del 2008, in arabo برتقالي مضمون , è tradotto in inglese con il titolo Orange Content.
Nel 2009-10, l’autrice è stata scelta come uno dei trentanove migliori autori arabi sotto i quarant’anni dal progetto Beirut39, e il suo racconto The Pool and the Piano è stato incluso nell’antologia Beirut39.
Il romanzo I recinti degli schiavi, del 2016, si è classificato nella short list IPAF del 2017, (in arabo: زرايب العبيد،), è statotradotto in inglese come The Slave Yards, Syracuse Univ Press, 2020, traduzione di Nancy Roberts, e sarà presto pubblicato in traduzione italiana per Atmosphere libri, 2023, traduzione di Federica Pistono.
La raccolta di racconti Catalogo di vita privata كتالوج حياة خاصة ، è stata tradotta in inglese come Catalogue of a Private Life, Dedalus Africa Book, 2021. Uno dei racconti della raccolta è stato pubblicato nella raccolta di MacSmart Ojiludo, Kanyinsola Olorunnisola, Najwa Bin Shatwan, Madia Ahidjo, Innocent Chizaram Ilo, Disruption: New Short Fiction from Africa, Catalyst Press, 2021.
Il suo ultimo romanzo, Roma Termini, 2021, è ambientato nella capitale italiana e incentrato sulla vita degli immigrati.
Alcuni elementi caratterizzano la narrativa dell’autrice, specialmente quella dei racconti brevi. Nelle sue storie, infatti, echi di antiche leggende popolari si fondono con gli eventi della storia libica, passata o presente. La scrittura segue i canoni ora della narrativa realistica, ora di quella fantastica, assurdo e surreale s’incrociano in una cornice che è sempre quella della quotidianità libica. La raccolta Catalogo di vita privata si compone di otto racconti satirici e drammatici, realistici e onirici, incentrati sulla satira nei confronti di alcuni costumi della società islamica tradizionale e sulla tragedia libica, di cui i civili sono le vittime principali. Nel primo dei racconti, Il ladro dai calzini bianchi, Baqrallah e la sua famiglia, composta di sole donne, vivono una vita ispirata ai principi islamici tradizionali, fondata dunque sull’autorità maschile. Un giorno, però, mentre Baqrallah è fuori, in casa entra un ladro, che la donne, che non hanno mai visto il mondo, trattano con curiosità. La loro esistenza è nascosta in un limbo, in cui anche una parvenza di vita può rappresentare una novità sconvolgente. Il secondo racconto, che dà il titolo alla raccolta, narra la storia di una guardia del corpo che sogna di uccidere il suo generale, che lo imprigiona in una guerra assurda contro un nemico inesistente. Quando torniamo a casa?, racconta il dramma dei civili intrappolati nel caos libico.
Le storie dipingono l’immagine di un popolo vulnerabile, sprofondato nell’instabilità e nell’incertezza del futuro, ma capace di ingegnarsi a sopravvivere.

I recinti degli schiavi


Ambientato alla fine del XIX secolo a Bengasi, il romanzo I recinti degli schiavi apre una finestra su un capitolo oscuro della storia libica, rievocando il fenomeno della schiavitù nella Libia ottomana, all’inizio del XX secolo.
L’opera racconta la storia di Atiqa, figlia di una schiava nera e del suo padrone bianco. Incontriamo Atiqa quando è già una donna adulta, felicemente sposata e madre di due figli. Quando suo cugino Ali entra inaspettatamente nella sua vita, Atiqa scopre la vera identità dei suoi genitori, entrambi deceduti da tempo, e costruisce lentamente un’amicizia con Ali mentre condividono storie del loro passato.
L’azione comincia in Libia, agli albori del XX secolo, quando il dominio ottomano volge ormai al termine. Tawida, una giovane donna nera, schiava di una ricca famiglia di mercanti di Bengasi, diviene oggetto delle attenzioni del padrone, e ne diventa la concubina. Un simile evento non è certamente insolito in una società schiavista, e molti bambini nascono, in questa fase della storia libica, dalle unioni tra le schiave e i loro padroni. Tuttavia, questa particolare relazione si distingue dalle altre simili per il legame intensamente passionale e reciproco che la caratterizza. Tawida, la schiava attorno alla quale ruota questa storia, dà alla luce una figlia, di nome Atiqa, una delle principali voci narranti del romanzo.
L’opera è incorniciata, nella parte iniziale e in quella finale, dalle conversazioni tra Atiqa e suo cugino Ali Bin Shatwan, conosciuto tardivamente. All’inizio del romanzo, Atiqa è una donna adulta, sposata e madre di due figli. Un giorno, alla porta di Atiqa bussa uno sconosciuto. È Ali, che Atiqa non ha mai incontrato, e che la cerca per raccontarle la storia dei suoi genitori e per rimediare, almeno in parte, a ciò che la donna ha sofferto a causa della tragedia legata alla sua vicenda familiare. Ali è un commerciante di mezza età, affetto da una malattia terminale. Ha ottenuto la documentazione che dimostra che Atiqa è sua cugina, e lotta per il riconoscimento dei suoi diritti di eredità. Dopo aver conquistato la sua fiducia, Ali entra nella vita di Atiqa e nasce, tra i due cugini, un’amicizia, grazie alla quale si raccontano storie per ricostruire il comune passato familiare. È da questi resoconti che emerge la vicenda narrata nel romanzo.
Dai resoconti di Ali emerge la storia di Atiqa e dei suoi genitori, ormai morti. Il padre era Muhammad Bin Shatwan, zio di Ali, un uomo bianco la cui famiglia possedeva schiavi. La madre era Tawida, una schiava della famiglia Bin Shatwan, ma anche amante e concubina di Muhammad.
Nei primi capitoli del romanzo, Atiqa narra gli eventi della sua infanzia fino alla morte della donna che chiamava “zia Sabriya” e che era, in realtà, sua madre Tawida, costretta ad assumere un’altra identità per difendersi dal pericolo di tornare in schiavitù e proteggere la libertà di sua figlia. Con suo fratello in spirito Miftah, Atiqa è cresciuta a Zarayib al-Abid (letteralmente, “I recinti degli schiavi”), un villaggio che, inizialmente, era stato un accampamento improvvisato, allestito fuori Bengasi da neri africani, condotti in Libia come schiavi. Atiqa è stata allevata dalla madre, che lei però conosceva come la “zia Sabriya”. Crescendo, nella ragazza è emersa la consapevolezza della propria identità razziale mista e, contemporaneamente, del suo ruolo sociale non chiaramente definito, in una società in cui ha cominciato a sentirsi, essenzialmente, una cittadina di seconda classe. Racconta di essere stata curata ed educata dalla Missione San Giuseppe a Bengasi, dopo la tragica morte della “zia Sabriya”, rievocando il ruolo amorevole e affettuoso svolto da Yussef, uno schiavo liberato, amico d’infanzia, destinato a diventare suo marito. Narra la tragica fine di Zarayib al-Abid, raso al suolo dalle autorità governative nel tentativo di contenere un’epidemia di peste. Tawida/zia Sabriya è perita nel rogo, nel tentativo di recuperare il certificato di nascita di Atiqa – così vitale per il suo futuro – nell’insediamento incendiato dai soldati.
A sua volta, Ali racconta la parte della storia che Atiqa ignora. La madre di Muhammad Bin Shatwan, Lalla Uwayshina, ha tentato in ogni modo di sbarazzarsi di Tawida, cercando perfino di venderla, mentre Muhammad era assente per un viaggio. Tuttavia, Ali ha salvato la situazione, riuscendo ad annullare la vendita. In seguito, Tawida ha dato alla luce un figlio di Muhammad, ma non ha mai avuto il coraggio di sfidare la sua famiglia e la cultura dominante per ottenere il riconoscimento del bambino da parte del padre. Un giorno, Tawida è stata brutalmente punita per aver dimenticato di svolgere un compito domestico, e suo figlio è morto di sete e di fame. Lalla Uwayshina ha quindi venduto Tawida, in segreto, a un mercante di Bengasi, un uomo corrotto e lascivo che si professava pio e credente. Tawida è stata, così, costretta a vivere un nuovo incubo, quando è stata condotta e imprigionata in un bordello, sfruttata e violentata da quell’uomo e da altri come lui.
Muhammad ha disperatamente cercato Tawida, senza trovarla. Alla fine, Tawida riesce a fuggire dal bordello, portando con sé il neonato illegittimo di un’altra donna. Invece di abbandonare il bambino sulla soglia di una moschea, com’era stata incaricata di fare, l’ha portato via con sé.
Con il piccolo, è tornata dagli amici ed ex- compagni di schiavitù, Aida e Jaballah, che ora vivono a Zarayib al-Abid. Per proteggere se stessa e il bambino, cui impone il nome di Miftah Daqiq, Tawida ha cambiato identità, assumendo un nuovo nome e diventando così la “zia Sabriya”.
Quando Muhammad ha finalmente trovato Tawida, la loro relazione è ricominciata, ma, tra i due, si è instaurata una dinamica conflittuale: la donna incolpava l’uomo di non averla salvata, l’uomo accusava la donna di averlo tradito con altri uomini. Anche se è nata un’altra figlia, Atiqa, emerge palesemente la doppia morale che dominava la società libica, che permetteva a un uomo, sposato con due mogli, di accusare di immoralità l’ex-schiava per gli stupri subiti.
Dalla narrazione finale di Ali, il lettore conosce un nuovo aspetto della società libica schiavista e dei meccanismi che la supportavano. Ali descrive gli aborti che venivano imposti alle schiave che restavano incinte dei loro padroni. Gli aborti erano supervisionati e amministrati da Lalla Uwayshina, madre di Muhammad, e da altre donne che non volevano che i figli delle schiave competessero con i propri figli per le eredità dei loro mariti. Il primo figlio di Muhammad e Tawida era morto in seguito a una di queste macchinazioni.
Tawida ha cominciato a bere, per alleviare i ricordi del trauma subito nel bordello, amando Muhammad ma, a volte, odiandolo. Lui affermava di essere suo “marito”, ma lei ribatteva di non essere sua “moglie”, essendo priva di qualunque diritto. Emerge, così, l’essenza rigida e spietata della mentalità e della struttura sociale schiavista.
Nel corso delle sue conversazioni con Atiqa, Ali le racconta questa dolorosa serie di eventi, aiutandola così a ritrovare le sue radici. Rivela ad Atiqa che suo padre aveva promesso a Tawida di riconoscerla come figlia al ritorno da un viaggio a Malta, dal quale, però, non è tornato vivo. Il romanzo si conclude con Ali e Atiqa che vanno insieme a visitare Miftah. Ali è sul punto di donare ad Atiqa un paio di orecchini che la nonna Lalla Uwayshina aveva comprato per sé, con i soldi incassati dalla vendita di Tawida. Ma poi ci ripensa, intuendo che il regalo le causerebbe soltanto dolore.
Attraverso questo romanzo, l’unico dei sei finalisti del Premio Internazionale di Narrativa Araba 2017 (IPAF) scritto da una donna, il lettore scopre un capitolo oscuro della storia libica di cui poco o nulla è stato scritto o detto, con un importante focus sui flagelli dello schiavismo e del razzismo nella società libica, nonché sull’uso di insegnamenti religiosi per giustificare la schiavitù e lo sfruttamento sessuale delle donne schiavizzate.
Con il suo linguaggio semplice e scorrevole, la narrazione avvincente e la schiera di personaggi approfonditi e ben delineati, il romanzo ricorda per molti aspetti Canna di bambù, dello scrittore kuwaitiano Saud Alsanousi, vincitore del sesto Premio Internazionale per la Narrativa Araba (IPAF) che, come I recinti degli schiavi, affronta in modo onesto e limpido i temi della disuguaglianza sociale, del razzismo e dell’identità mista. A questi elementi si aggiunge il fatto che I recinti degli schiavi è anche un romanzo storico, tanto più intenso e potente perché ci si rende conto che gli eventi narrati sono accaduti effettivamente a persone realmente vissute, in situazioni di vita reale. A questo proposito, il romanzo di Najwa Bin Shatwan presenta una somiglianza con Dodici anni schiavo di Solomon Northup, con la differenza che, mentre quest’ultimo testo è basato interamente su resoconti di vita reale, I recinti degli schiavi, pur fondato su fatti storici reali, resta un’opera di fiction.
Il romanzo offre così ai lettori l’opportunità di conoscere un periodo della storia libica e aspetti della cultura libica che sono stati finora trattati solo sommariamente in altri scritti, storici o meno. Scritto in uno stile fresco e scorrevole, I recinti degli schiavi è un libro drammatico, colmo di pathos e suspense.
Roma Termini

I lettori delle opere di Najwa Bin Shatwan sono costantemente stupiti dalla scrittura sperimentale dell’autrice libica, dalla sua capacità di approfondire un argomento di evidente rilevanza per poi trasformarlo in un tema nuovo e ricco, da esplorare e raffigurare in un nuovo romanzo. Roma Termini ci porta in Italia a incontrare Natasha, un’immigrata ucraina che lavora come badante nelle case di tre anziane donne italiane, che vivono in modo comodo e lussuoso, anche se i loro figli e nipoti non godono del loro stesso benessere economico. La società italiana, non avendo saputo garantire un futuro ai giovani, appare spaccata da una frattura generazionale che contrappone i giovani agli anziani. Le donne accudite da Natasha sono viziate e prepotenti, convinte di essere al centro del mondo. Non comprendono i problemi delle generazioni più giovani, né, a maggior ragione, sono in grado di capire gli stenti e le difficoltà in cui si dibattono le donne immigrate, pur vivendo a stretto contatto con loro.
Natasha intesse rapporti con altri immigrati, provenienti da aree del pianeta diverse dalla sua. La trama del romanzo ruota sulle sue relazioni con le nuove persone che incontra e con le donne italiane per le quali lavora.
È un romanzo sulla diaspora contemporanea, sui compromessi che gli immigrati sono costretti ad accettare. Le vittime, in definitiva, sono sempre accusate, non per errori eventualmente commessi, ma per ciò che rappresentano. Un’identità diversa da quella del paese ospitante è percepita come una colpa da espiare. Il romanzo dipinge la società italiana di oggi, con la sua mappa umana fluida, in continuo mutamento, con una lucidità che stupisce il lettore italiano.
L’opera della scrittrice libica, ancora sconosciuta in Italia, merita sicuramente l’attenzione dei lettori italiani.
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