La camminatrice di Samar Yazbek

  Recensione di Federica Pistono

Nel 2017 è pubblicato il romanzo di Samar Yazbik al-Maššā’ah (La camminatrice, 2017), ambientato nella Ġūṭah di Damasco nel periodo della guerra. Il romanzo, tradotto in francese come La marcheuse (Stock, 2018), è ancora inedito in italiano.

 Attraverso gli occhi di una adolescente dalla sensibilità particolare, la Yazbik descrive l’assedio della Ġūṭah, il ricorso alle armi chimiche, le sofferenze inaudite della popolazione civile. Con questo testo, l’autrice si allontana definitivamente dallo schema, precedentemente utilizzato, del diario romanzato, del reportage giornalistico intersecato da ricordi, riflessioni e considerazioni di carattere personale, per tornare finalmente al romanzo, narrando gli eventi in chiave autenticamente letteraria.

  Rīmā è un’adolescente, orfana di padre, che ama i libri, in particolare Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry e Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, adora dipingere quadri e, soprattutto, avverte la necessità impellente di camminare. La ragazzina, muta, considerata pazza dalla madre, soffre infatti di una malattia rara: le sue gambe si muovono indipendentemente dalla sua volontà, senza possibilità di fermarle. Proprio perché a volte non può smettere di camminare, la madre la tiene legata al polso con una corda. Grazie a Sitt Suʽad, la bibliotecaria della scuola in cui la madre lavora come bidella, la bambina ha imparato a leggere, a scrivere e a disegnare. In un giorno di agosto del 2013, mentre Rīmā si trova in autobus, da un posto di blocco un soldato apre il fuoco sui passeggeri, uccidendo la madre e ferendo la ragazzina. Il fratello maggiore raggiunge Rīmā in ospedale, trasferendola nella zona assediata della Ġūṭah, nella periferia di Damasco, in un rifugio sotterraneo gestito dall’opposizione siriana.  Rinchiusa nel sotterraneo, senz’acqua né corrente elettrica, la ragazzina racconta la sua storia, munita soltanto di un quaderno e di una penna blu. Tiene il conto dei giorni che passano strappando ogni giorno un filo del suo velo, non vedendo, del mondo, se non un lembo di cielo attraverso una finestra munita di sbarre. Le sue giornate scorrono vuote e tristi, animate dal rombo degli aerei che sorvolano l’area sganciando bombe, ma la fantasia, il ricordo dei libri preferiti e delle persone amate aiutano Rīmā a scrivere le sue memorie, corredandole talvolta di disegni. Il racconto è fosco, opprimente, sconvolgente, ma sempre sottilmente lirico, giacché l’autrice si serve dell’espediente di affidare la narrazione a una adolescente dalla sensibilità particolare, dotata di una visione della vita estremamente poetica. La ragazzina ha imparato, infatti, a conoscere il mondo esterno soltanto attraverso i libri, posa pertanto uno sguardo assolutamente ingenuo sugli orrori della guerra, in particolare sugli attacchi chimici e sull’assedio della Ġūṭah. La Yazbik immerge il lettore nel mondo interiore di quest’adolescente tanto diversa dalle altre: il romanzo contiene molte digressioni dal tema principale, la narrazione dell’assedio della Ġūṭah, perché Rīmā scrive seguendo le idee e i ricordi che si presentano, di volta in volta, alla sua mente. Questo espediente narrativo, che consente di inframmezzare il racconto dell’assedio e della guerra con episodi del passato e riflessioni della protagonista, alleggerisce notevolmente la cupezza e la pesantezza della narrazione.

  Il personaggio di Rīmā, con il suo bisogno inarrestabile di camminare, di correre, di muoversi, pur rinchiusa in un buio sotterraneo, è metafora della vita stessa, dell’infanzia stretta nel contrasto tra la necessità continua di agire e la reclusione forzata.  L’autrice utilizza l’esperienza di una protagonista muta per giustificare il ricorso massiccio del personaggio alla scrittura, alla condivisione con un ipotetico lettore della sua realtà quotidiana, intessuta di solitudine, di lutti, di terrore. Nelle memorie della ragazzina, emergono i ricordi delle letture preferite e quelli delle persone amate, la madre, il fratello, la bibliotecaria. Rīmā possiede un’immaginazione fervida, riuscendo a creare, con i suoi scritti, un mondo parallelo in cui si rifugia per sopravvivere, un universo felice, coloratissimo, che funge da antidoto ai momenti di angoscia e di tristezza e che esprime, con i suoi colori, i pochi attimi di felicità.

  Nell’opera si riscontra, talvolta, un’ambiguità: da un lato, la Yazbik ci consegna un testo composto a volte di frasi semplici, scritte da un’adolescente in un linguaggio infantile allo scopo di rappresentare lo sguardo ingenuo che la protagonista getta sul mondo che la circonda, a volte di profonde considerazioni di carattere filosofico. 

  L’opera si configura come una testimonianza della tragedia della Ġūṭah e della Siria intera. La conclusione è tragica, l’autrice chiude l’opera senza concedersi un filo di speranza:

   Il pavimento del sotterraneo è disseminato di fogli bianchi – li ho sparpagliati. I miei fogli, coperti di scrittura, volteggiano intorno alla mia testa. Escono dal mio baule e volano verso i pianeti del Piccolo Principe. Li vedo muoversi come immagini in televisione.

  Non riesco a concentrarmi. Ho fame. Forse i due ragazzi con il carretto di legno arriveranno presto.

  La mia storia non è finita, e la storia di Ḥassān è ancora al principio.

  La storia di mia madre, che è scomparsa.

  La storia della ragazza calva, che è scomparsa.

  La storia di mio fratello, che è scomparso.

  La storia di Umm Saʿīd, che è scomparsa.

  La storia di Ḥassān, che è scomparso.

  La storia dei due ragazzi, che sono scomparsi.

  Del cane, che è scomparso.

  Della mosca, che è scomparsa.

  Anch’io sono una storia che sta per scomparire. Forse sono con te in questo momento, mentre tu leggi le mie parole sparpagliate. Come accade al gatto sorridente nella storia di Alice.

  Le mie dita hanno ricominciato a tremare. La penna contiene ancora un po’ di inchiostro, ma il blu inizia già a impallidire. Alcune lettere svaniscono e sono costretta a riscriverle. Ormai, rischio di fermarmi in qualunque momento.

  Ho l’impressione che i miei occhi siano visitati da piccole formiche, formiche che escono dalle mie orbite impedendomi la vista; il mio campo visivo ha assunto un colore bruno simile a quello delle formiche, che circolano nella mia testa…

  Andavamo a casa di quella donna di cui mia madre doveva pulire la casa. È lei che mi ha insegnato a leggere e a scrivere. È le che ha fatto di me quella che sono oggi…

  Siamo appena usciti…

  Siamo saliti su un minibus bianco…

  È un breve tragitto, che abbiamo percorso decine di volte!

  Ho la gola secca.

  Mi gira la testa.

  Non riesco più a concentrarmi sulle lettere.

  E ho voglia di urlare…  

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