Cugini, addio! di Muhsin Al Ramli

 Recensione di Federica Pistono

  Splendeva un sole bianco, abbagliante. Le donne piansero, i vecchi tremarono, i bambini strillarono, le palme appassirono, i passeri volarono via, e la testa china di Qasim si spettinò. Gli legarono i piedi con i ferri, le mani dietro la schiena. I suoi abiti erano macchiati dei colori – rosso, verde, bianco -, e i ricordi restavano sospesi nella mente di quelli che lo attorniavano, mentre era ancora vivo.  

  Il breve romanzo Cugini, addio!, dello scrittore iracheno Muhsin Al Ramli, pubblicato in italiano da Cicorivolta Edizioni nel 2015, è stato pubblicato inizialmente in arabo nel 2000, con il titolo al-Fatīt al-mubaʻthar (Briciole sparse). Tradotto in inglese con il titolo Scattered crumbs, ha vinto nel 2002 il Premio Arabic Translator Award dell’Università dell’Arkansas. Riscritto completamente dall’Autore nel 2013 in lingua spagnola, è stato pubblicato in Spagna nel 2014, con il titolo Adiòs, primos (Cugini, addio). 

  Si tratta di un breve romanzo autobiografico che ricostruisce, attraverso il prisma dell’esilio e della nostalgia, un affresco dell’Iraq durante la dittatura di Saddam Hussein, descritta attraverso le vicende di una famiglia contadina, che vive in un villaggio rurale sulle rive del Tigri. L’opera ci consegna, dunque, uno spaccato della vita di un piccolo borgo iracheno nell’ultimo trentennio del Novecento.

  Il romanzo racconta come l’esistenza semplice e serena della piccola comunità, con i suoi vizi e le sue virtù, con le sue tradizioni e leggende, venga lacerata e sconvolta dalle esperienze della dittatura e della guerra, perdendo per sempre le proprie caratteristiche originarie.

  L’Autore sceglie di raffigurare l’operato del regime e le conseguenze della guerra non in una grande città, non in un ambiente di intellettuali o di borghesi, ma nella società contadina, collocando la storia in un paesino sperduto e mostrando come la tirannia ne disgreghi i legami familiari, ne disperda i valori secolari, ne dissolva il tessuto sociale.

  “Le storie tristi in Iraq diventano monotone per la loro abbondanza”, osserva la voce narrante all’inizio del racconto. E la vicenda evocata nel romanzo è emblematica di come la vita del popolo iracheno sia stata travolta e spezzata dalla dittatura prima, da una serie di guerre poi, conflitti e lutti che sembrano non avere una fine.

  Ijayel abita in un villaggio rurale sulle sponde del Tigri, nella casa antica ereditata dagli antenati. Vive una vita semplice e pacifica con sua moglie, tirando su sette figli. È un nazionalista, simpatizza per il regime e per Saddam Hussein, “l’uomo forte” dell’Iraq, il “protettore della patria”.

  Ma la vita gli riserva amare sorprese: con il deflagrare del conflitto Iran-Iraq, negli anni Ottanta, la guerra gli porta via uno dei figli e il genero. Un altro figlio, oppositore di coscienza, viene fucilato come disertore. Un altro figlio, il più intelligente e brillante, divenuto addirittura magistrato, non si piega a diventare un burattino del regime: rifiutando di giudicare secondo gli ordini del governo, viene destituito e finisce in carcere. L’unico figlio di Ijayel a conquistare il successo è, paradossalmente, il pedofilo Saadi, un pervertito che riesce a salire fino ai vertici del potere.

  Di fronte alla rovina della sua famiglia e al disastro del suo paese, all’anziano padre non resta che morire di crepacuore.

  Della famiglia, inizialmente numerosa e felice, non restano che brandelli, “briciole sparse” condannate all’esilio, come il narratore, o a rifugiarsi in un’innocua follia, come accade a Warda, l’unica figlia di Ijayel, e al suo ultimo marito Ismael, o a vivere nel lutto e nella disperazione, come succede alla vedova di Ijayel e a sua nuora Hasiba.

  Un romanzo breve ma intenso e drammatico, ci narra una vicenda simbolica della storia irachena di questi anni.   

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