Mohammad Rabie

Articolo di Federica Pistono

Mohammad Rabie è nato nel 1978 in Egitto. Si è laureato alla facoltà di Ingegneria del Cairo nel 2002 e il suo primo romanzo, Il pianeta d’ambra (2010), ha vinto il primo premio nella categoria Scrittori emergenti del Sawiris Cultural Award, nel 2012. Il suo il secondo romanzo, L’anno del drago, è stato pubblicato nel 2012, seguito da Otared, del 2015. Quest’ultimo romanzo è stato selezionato nella short list del prestigioso Arabic Booker Prize del 2016.

  Il pianeta d’ambra (Kawkab ̔ anbar), 2010

  A Shaher, un giovane funzionario del Ministero degli Affari Religiosi, viene affidata una missione insolita: redigere un rapporto formale su una biblioteca dimenticata del Cairo, che lo Stato intende radere al suolo per far posto a una nuova linea della metropolitana. Il funzionario decide di procedere seriamente nella sua indagine e, a poco a poco, si schiude, davanti ai suoi occhi, un mondo misterioso e labirintico all’interno dell’edificio fatiscente e polveroso, in cui le opere sono ammucchiate senza catalogazioni né registri, e dove si trovano traduzioni in ogni lingua immaginabile. Affascinato dalla strana biblioteca, il protagonista è incuriosito anche dal piccolo gruppo di intellettuali originali che frequentano il luogo, come Ali, un famoso traduttore che ha perso ogni fiducia nella sua professione, o “Jean il copista”, un uomo muto che ha passato la sua vita fotografare libri pagina per pagina e, soprattutto, Sayyid, un vecchio intellettuale nichilista, cinico e sinistro, che conosce la biblioteca come il palmo della sua mano ma non è troppo disposto a divulgarne i segreti.

  Per molti versi, il disordine della biblioteca è un’estensione della confusione generale che regna nella pubblica amministrazione egiziana. Al di là della missione di Shaher, vano tentativo di salvare un luogo del sapere dalla mediocrità generale, l’autore muove una critica all’Egitto contemporaneo da più punti di vista: lo strapotere governativo sui media, il trionfo della forma sulla sostanza, il lato oscuro di una istituzione come al-Azhar i cui teologi, volendo avvicinare dottrine inconciliabili, “finiscono per fomentare discordia tra i popoli”, l’ipocrisia dei ricchi che nascondono la loro fortuna “per paura della cupidigia della povera gente” o anche la cecità di certi accademici vuoti e pomposi.

  E se la biblioteca fosse, nonostante tutto, fonte di speranza e consolazione? Durante le sue indagini, Shaher vi scopre diverse opere: traduzioni di romanzi egiziani, trattati di filosofia islamica e persino antiche raccolte di poesie. L’opera più inquietante della biblioteca è la traduzione in arabo del Codex Seraphinianus, un’enciclopedia visiva scritta in un linguaggio fittizio dall’artista e architetto italiano Luigi Serafini negli anni Settanta. Un’opera “ermetica” con disegni che sembrano provenire “da un altro mondo, forse addirittura da un altro pianeta”. Perché Serafini avrebbe depositato la sua opera in biblioteca?

  Con riferimenti sapientemente disseminati nel racconto, il romanzo rende omaggio alla letteratura egiziana e araba, dalle famose traduzioni di al-Manfaluti ai classici di Nagib Mahfouz, passando per la poesia di Ahmed Shawqi, il Principe dei Poeti, o la filosofia del testo allegorico di Ibn Tufayl, Il figlio vivente del vigilante o Il filosofo autodidatta, risalente al XII secolo. L’evocazione dell’opera, simbolo di un approccio empirico e razionale alla realtà, serve retrospettivamente a denunciare l’ascesa dell’oscurantismo nelle società contemporanee (“Se Ibn Tufayl l’avesse scritto oggi, lo avremmo bollato come eresia”).

  Il lettore arriva a domandarsi se questa biblioteca caotica non possa essere un’allegoria dei mali sotterranei che continuano a perseguitare il pensiero sociale e culturale arabo, ridotto, come la biblioteca, a “un punto di sosta, un luogo di relax”, ovviamente destinato a ricercatori “che non hanno un piano di lavoro o un tema di ricerca”.

 In tutte le pagine emerge poi una critica ai maltrattamenti inflitti alla lingua araba, come le trasposizioni approssimative dei titoli dei film americani proiettati nei cinema egiziani.

  La biblioteca – come la cultura stessa – è anche il simbolo di uno stato di impotenza generale. Né le manovre segrete ed elaborate di Sayyid, l’archetipo dell’intellettuale accantonato dalla storia che oppone il suo cinismo alla nostalgia di un passato perduto, né i libri fotografati da Jean “il copista”, sembrano in grado di salvare la biblioteca, o di preservarne il segreto.

  C’è, nel romanzo di Rabie, un originale tentativo di ripensare il posto del libro nelle società arabe e di sottolineare la necessità di una libera circolazione del sapere, lontana da manipolazioni politiche, culturali o identitarie. Appropriarsi degli spazi della biblioteca, rileggere opere del passato alla luce dell’attualità, incoraggiare traduzioni libere, combattere la superficialità e la meschinità, riportare l’originalità e il pensiero critico al centro della creazione sono tutti insegnamenti suggeriti lungo tutto il racconto. Con questo romanzo palesemente borgesiano, Rabie ci ricorda che il mondo arabo è una biblioteca viva ma condannata, che non ha altra scelta se non quella di strapparsi al suo caos e lottare contro i suoi demoni.

  Tutti i lettori di Borges sanno, infatti, che la biblioteca è il luogo ideale per esplorare temi complessi come l’immensità del sapere universale, la circolazione dei miti, il labirinto della creazione letteraria o anche il confine necessariamente poroso tra i regni della realtà e dell’immaginario. Nel testo di Rabie, l’eredità borgesiana è rivisitata in un testo iconoclasta e geniale che unisce creatività narrativa, riflessioni sulla traduzione, ritratti socio-culturali e critica politica dell’Egitto e del pensiero arabo. 

  Da sottolineare, infine, come l’autore tessa magistralmente un doppio intreccio narrativo. Tra la voce di Shaher e quella di Sayyid, la storia rivela frange di marginalità, lontane dal mondo soffocante della burocrazia, e strati di sogni e leggende sotto l’epidermide raggrinzita della città.

  Il romanzo è tradotto in francese con il titolo La Biblothèque enchantée, Sindbad, Actes Sud, 2019, traduzione di S. Dujols.

  Otared ( ̔ Uārid), 2015

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   Protagonistadel romanzo è l’ufficiale di polizia Ahmed Otared.

  Durante la rivoluzione del 2011, Otared si è già trasformato in un killer, agendo per salvare il regime, reprimendo ferocemente i manifestanti. Anni dopo, quando tutte le speranze di un ritorno alla democrazia sono svanite, è diventato un cecchino, combattendo contro un singolare esercito di occupazione: corre l’anno 2025 e i Cavalieri della Repubblica di Malta hanno invaso l’Egitto da due anni, occupando Il Cairo orientale e lasciando libera la parte occidentale della città.

 Quello dei Cavalieri di Malta è un esercito di occupazione che ha condotto una guerra lampo con aerei da combattimento, ha imprigionato i leader politici e comprato i necessari “alleati”, dopo aver soppresso la costituzione.

 Il romanzo si apre con una strage raccapricciante: un uomo ha sterminato in modo orribile tutta la sua famiglia. Una scena del crimine che prefigura l’orrore della guerra descritta in seguito, guidata da combattenti della resistenza che preferiscono il crimine di guerra – e di massa – alla capitolazione al nemico.

  La resistenza contro l’occupante è orchestrata da alcuni ex ufficiali di polizia. Il colonnello Ahmed Otared, appostato come cecchino sulla Torre del Cairo, è posto a capo di un corpo speciale infiltrato nella zona occupata. Ahmed ha già assassinato il Ministro della Cultura, così come molti politici egiziani che collaborano con il nuovo regime. A volte, uccide in poche ore decine di ufficiali, soldati, imprenditori che forniscono cibo e merci al nemico, civili. Stila, cinicamente, macabri elenchi delle sue vittime, e non sente mai il bisogno o la volontà di riscattarsi. Elimina a sangue freddo uomini, donne e bambini.

 I cecchini, in cima alla Torre, sono costantemente riforniti di cibo, armi, munizioni e droga tramite droni. La nuova droga in auge in Egitto è il Karbon, che produce l’amnesia nei consumatori. Libertà e rispetto sono diventati concetti privi di senso.

 Nel frattempo, la società è sprofondata nel caos più totale, i cittadini rubano, violentano, si drogano, si massacrano a vicenda, si suicidano. Il sangue scorre per le strade, gli obitori sono stipati, i cadaveri sono ovunque. L’inferno è sulla terra. L’unica speranza di sottrarsi a quest’incubo è la morte. Lungi dal temerla, la maggior parte della gente la desidera.

  Uccidere tutti questi infelici è un lavoro compassionevole, una specie di missione umanitaria.

  Per i capi della resistenza, i cittadini sono caduti così in basso da meritare una sorta di purificazione collettiva attraverso il sacrificio di molte vite, per liberarsi dalla codardia e dalla passività. Arriva l’ordine di sparare sulle folle per provocare una rivolta popolare.

  L’inferno è la dittatura, è l’oppressione del popolo da parte di un regime autoritario, è l’assenza di libertà, è il caos che deriva da una rivoluzione fallita, è la disperazione che segue la grande speranza. L’inferno è lo stato in cui gli uomini sottomessi rivelano il lato oscuro della natura umana, diventando ancora una volta pericolosi predatori privi della minima empatia verso i loro simili.

  L’arte di Mohammad Rabie consiste nel mescolare intrighi, ma anche epoche e momenti diversi della storia dell’Egitto. Con un improvviso salto temporale, l’azione si sposta nel 2011, sulle orme di un uomo che vaga per la città, ispeziona obitori e ospedali per trovare il corpo del padre di un’orfana che, insieme alla moglie, ha raccolto. Con un nuovo salto temporale, il lettore si ritrova nell’Egitto medievale, per assistere alla “resurrezione” di un personaggio che preannuncia l’avvento dell’inferno.

   Otared è la distopia più violenta e disperata fra i romanzi ispirati alla Primavera araba. Con una narrazione dura e macabra, l’autore ci rivela che l’inferno è sulla terra e che non sempre la morte è l’unica certezza.

 Scritto nel 2014 e pubblicato 2015, il romanzo è innegabilmente un libro sulla sconfitta. Una sconfitta umana, sociale, di civiltà. È una crudele distopia sulla legittimità della violenza, che può essere letta solo alla luce della delusione e disperazione seguite al fallimento della Primavera araba del 2011.

  Questa storia crudele ci obbliga a volgere lo sguardo ai tumulti del mondo arabo e del Nord Africa, per valutare le possibili conseguenze dei tradimenti politici, anche a livello internazionale. È la prova che, con 2084 di Boualem Sansal, i romanzi di Riadh Hadir e Utopia di Ahmed Khaled Tawfiq, la fantascienza apre nuove brecce letterarie nella narrativa araba, di espressione araba e francese, per offrire voci nuove, innovative e riflessive, dalla risonanza universale.

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