Recensione di Federica Pistono
Samar Yazbik
È nata a Jable nel 1970. Laureata in Letteratura araba, di confessione alawita, è scrittrice e giornalista. Autrice di diversi romanzi, le sue opere si imperniano sulla condizione femminile e sui rapporti della comunità alawita con il potere. Nel 2008 ha pubblicato il romanzo Rā’iḥat al-qirfah (Il profumo della cannella), incentrato su una storia d’amore tra due donne. Nel 2010 è stata selezionata per il progetto Beirut39 e, nel 2011, dopo la sua presa di posizione contro il regime, è stata costretta all’esilio a Parigi, dove tuttora risiede.


Taqāṭu῾ nīrān. Min yawmiyyāt al-intifāḍah al-sūriyyah, (Fuoco incrociato. Diario della rivoluzione siriana), di Samar Yazbik, 2012.
L’opera consiste in un diario dei primi quattro mesi della rivoluzione siriana, esplosa nel marzo del 2011. L’autrice narra l’esordio della rivoluzione, di cui è stata testimone oculare, descrivendo le prime manifestazioni pacifiche dei cittadini siriani, scesi in piazza per reclamare libertà, dignità e democrazia, ma documentando anche la sanguinosa reazione del regime. Nel luglio 2011, l’autrice è costretta a fuggire a Parigi per mettere in salvo la propria figlia da probabili ritorsioni del regime.
L’opera è pubblicata come: Samar Yazbik, Taqāṭu῾nīrān, Min yawmiyyāt al-intifāḍah al-sūriyyah, Bayrūt, Dār al-Ādāb, 2012.
Il testo, inedito in italiano, è tradotto in inglese come: Samar Yazbek, A woman in the Crossfire, Diaries of the Syrian Revolution, London, Haus Publishing, 2012; in francese come: Samar Yazbek, Feux croisés, Journal de la révolution syrienne, Paris, Buchet-Chastel, 2012.
L’opera, insignita del premio Harold Pinter Pen, costituisce un resoconto dettagliato, attendibile e personale dell’esordio della rivoluzione. Nel preambolo, l’autrice spiega al lettore che, questa volta, a scrivere l’opera non è la celebre scrittrice di romanzi ma una cittadina siriana che offre al mondo la sua testimonianza:
«Questo diario non rappresenta una semplice cronaca dei primi quattro mesi della rivoluzione siriana; è fatto di parole che mi hanno aiutato ad affrontare la paura, di parole vere, reali, che non hanno alcun contatto con l’immaginazione»[1].
Il testo consiste in una serie di informazioni, date, avvenimenti costatati personalmente dall’autrice, testimonianze raccolte fra i cittadini siriani.
Capitolo dopo capitolo, sfilano le storie narrate dai testimoni e dagli autori della rivolta: i primi sit-in di protesta, la violenza della repressione, le manipolazioni ordite dai servizi di sicurezza, le voci diffuse nelle città e nelle campagne per fomentare l’odio tra alawiti e sunniti.
Come osserva Robin Yassin-Kassab, «Yazbek’book is part journalism, part memoir and all literature»[2]. L’opera può infatti considerarsi rigorosa nell’ottica della documentazione degli eventi, personale dal punto di vista della rielaborazione dei ricordi, letteraria in base all’impianto narrativo e allo stile. L’autrice realizza infatti con successo, in questo diario della rivoluzione, una delicata operazione, quella cioè di sovrapporre alla storia di un paese che sta “soccombendo alle forze della morte” [3]la propria vicenda personale, il viaggio all’interno della rivolta di una donna tormentata dall’emicrania, dall’insonnia, dall’angoscia per il proprio paese e dal terrore per la sorte della propria figlia ancora bambina, esposta alle possibili vendette dei servizi di sicurezza. A volte, nel rapido susseguirsi degli eventi narrati, la velocità delle informazioni precede ogni altro sentimento dell’autrice.
Consacratasi alla promessa, fatta a se stessa, di vivere una vita libera, Samar Yazbik ha lasciato la casa paterna a soli sedici anni, per poi divorziare dal marito e allevare la figlia come una madre single. La sua voce di donna indipendente e laica contribuisce a svelare l’inganno della propaganda del regime, che, fin dal principio, ha bollato come “rivolta salafita” la rivoluzione siriana. La scrittura del diario, come pure la pubblicazione di articoli destinati alla stampa araba e occidentale, le costa l’accusa di tradimento da parte del regime e il ripudio da parte della sua famiglia e della sua comunità.
La Yazbik di Taqāṭuʽ nīrān è una presenza forte, un’autrice che si impone al lettore. Un lettore che non si trovi a Damasco al momento della narrazione, infatti, che non viva in prima persona la trasformazione della città e del paese in un luogo di morte quotidiana, ha bisogno di un autore- personaggio che lo guidi alla comprensione degli avvenimenti come se stesse leggendo un romanzo. La scrittrice non pretende di conoscere i fatti per poi spiegarli al lettore, ma espone gli eventi man mano che questi si verificano, descrivendoli con chiarezza e con uno stile lineare e documentario. Durante uno dei fermi cui è sottoposta, l’autrice è condotta dagli agenti dei servizi segreti a visitare le carceri e i centri di detenzione della capitale in cui sono imprigionati i “ribelli”, i giovani cioè arrestati durante le manifestazioni e i cortei. L’intento è quello di mostrare alla Yazbik il trattamento riservato ai “traditori”, cui l’autrice scampa grazie alla propria appartenenza alawita. Ecco come la scrittrice racconta l’atroce esperienza:
La cella era talmente stretta di permettere a malapena a due o tre uomini di stare in piedi. Non avrei potuto dirlo con precisione, ma vedevo tre corpi appesi, non avrei saputo dire come. Allibita, sentivo i miei denti mordere l’interno delle guance e le mie viscere rivoltarsi. I tre corpi erano quasi nudi. Filtrava un raggio fievole, un filo di luce che mi ha permesso di vedere che si trattava di ragazzi che non avevano più di vent’anni. I loro giovani corpi erano coperti di sangue. Erano appesi alle catene per le mani, le dita dei piedi sfioravano appena il suolo, il sangue colava, sangue fresco, sangue coagulato, le ferite profonde sembravano assurde pennellate di pittura, le teste penzolanti. Svenuti, oscillavano come bestie sgozzate e appese ai ganci di un mattatoio. (…) Uno dei ragazzi torturati ha alzato penosamente la testa e ho potuto intravedere il suo viso. Non era più un viso, gli occhi completamente chiusi, senza luce. Non distinguevo il suo naso né le sue labbra, il suo volto tumefatto somigliava a un ritratto dipinto di rosso, senza più lineamenti[4].
A tale proposito, osserva Miryam Cooke che questa descrizione richiama alla mente i disegni del vignettista ʽAlī Farzāt, che ha ritratto i prigionieri torturati nel carcere di Tadmur: «Her description of these shredded humans recalls cartoonist ʽAli Farzat’s Tadmor drawing»[5].
Miryam Cooke nota inoltre che le storie narrate dalla Yazbik in questo testo assumono un ruolo centrale nella pratica della resistenza quotidiana: «Individual stories about the struggle to live with dignity and to be true to oneself and to one’s community became essential to everyday practices of resistence»[6].
L’opera non si limita a consentire al lettore di spingere lo sguardo all’interno delle prigioni siriane, ma lo accompagna lungo le strade e i viali di Damasco, seguendo manifestazioni e cortei, riportando i commenti di attivisti e dimostranti, rappresentando gli assalti combinati delle forze di sicurezza, della polizia, degli Šabbīḥ[7]. Ecco come l’autrice racconta una delle prime manifestazioni della rivoluzione siriana:
D’un tratto, intravedo nelle strade degli strani individui, mai visti in precedenza. Giganti dalla corporatura massiccia, dal petto muscoloso, dal cranio rasato, dallo sguardo inquisitore, in maglietta nera dalle maniche corte che lasciano scorgere braccia robuste e tatuate. Avanzano agitando le mani e spostando pesantemente l’aria. Figuri spaventosi. Dov’erano, prima di invadere la città? (…) All’improvviso, gli strani individui sono apparsi e hanno cominciato a picchiare la gente. Colta dal panico, ho gridato:” Il traditore, è colui che uccide il suo popolo!”. I manifestanti hanno incassato le percosse e l’umiliazione, prima di sparire uno dopo l’altro, inseguiti dagli uomini che si erano sparsi per le strade.
Uomini armati di nodosi bastoni, dalle braccia muscolose, dagli occhi stanchi, dalla pelle spessa e callosa, formavano una barriera umana: si sono avventati sui manifestanti, picchiandoli, gettandoli a terra, calpestandoli sotto i piedi. Altri agguantavano i passanti, trascinandoli lontano prima di farli sparire. Li ho visti aprire un negozio, spingere all’interno una donna, abbassare la saracinesca metallica, quindi dirigersi verso un’altra passante[8].
La volontà di documentare la rivoluzione induce l’autrice a intervistare i protagonisti di questa prima fase del conflitto: giovani attivisti, cittadini che, in segreto, simpatizzano con la rivoluzione, un dipendente della televisione di Stato, un soldato che si è rifiutato di sparare addosso ai dimostranti inermi.
L’autrice informa il lettore di come il regime, fin dall’inizio, abbia strumentalizzato l’odio settario tra sunniti e alawiti, soprattutto nelle città costiere e nelle campagne circostanti, aree condivise dalle due comunità. Nei villaggi e nei quartieri abitati dai sunniti, spie prezzolate diffondono le voci di bande armate di alawiti in arrivo per sterminare tutti i sunniti. Le stesse menzogne sono ripetute nelle zone abitate da alawiti, e riguardano bande di sunniti animate da intenzioni omicide nei confronti degli alawiti. Se questo gioco crudele non funzionasse il più delle volte, la situazione apparirebbe addirittura comica. Capita perfino che sia lo stesso infiltrato a diffondere per due volte la stessa notizia falsa.
La caratteristica dell’opera che più colpisce il lettore non è l’immediatezza né l’ampiezza di prospettive che offre, ma il senso di shock, di trauma profondo che traspare da ogni pagina:
Che cos’è questa pazzia? La morte avanza, la guardo in faccia, ne sento la voce. Io, che ne conosco il sapore, che conosco il gusto del coltello alla gola e dello scarpone sulla nuca. Un sapore che ho conosciuto tanto tempo fa, fin dal momento della mia prima fuga da un mondo troppo stretto, poi durante la mia seconda e la mia terza fuga. Sono un delitto d’onore nella mia stessa famiglia, nel mio gruppo, nella mia comunità. Ormai non ho più paura, non perché sia coraggiosa, tutt’altro, ma per abitudine… (…) Chi sono coloro che uccidono dall’alto delle terrazze e dal retro dei palazzi? Assassini vigliacchi? Sì, ogni assassino è un codardo. Come potrebbe essere coraggioso, quando è soltanto uno sbirro senza valori morali?[9]
La narrazione trabocca di immagini crude. Una, per esempio, descrive le forze di sicurezza che assalgono un corteo funebre, sparando nel mucchio, ferendo i portatori del feretro, costringendo gli astanti alla fuga. La bara viene abbandonata in mezzo alla strada deserta e macchiata di sangue. La morte, la violenza diventa banale e scontata come una cassetta di frutta marcia abbandonata su un marciapiede. La stessa violenza che ha sconvolto la Siria negli anni Ottanta si ripete questa volta su scala più larga, con lo stesso settarismo manipolato dal regime, come se il paese fosse vittima di una maledizione ricorrente.
In un’altra scena, un uomo ferito giace in un letto di ospedale. Un ufficiale dell’esercito gli ordina di dichiarare davanti alle telecamere della televisione siriana che gli autori del ferimento sono da individuarsi nelle bande di ribelli armati. L’uomo risponde che sono stati i servizi di sicurezza a sparargli. L’ufficiale reitera la richiesta e, di fronte al rifiuto dell’uomo di rilasciare dichiarazioni false, gli spara alla testa, uccidendolo a sangue freddo.
L’autrice è una convinta sostenitrice della lotta al regime, della necessità di combattere per recuperare libertà e dignità. Se il lettore è colpito dall’amore e dalla tenerezza che la scrittrice esprime per il suo paese, per le sue città, i suoi oliveti e agrumeti, per l’azzurro del suo cielo e del suo mare, non può fare a meno di condividerne l’ammirazione per il coraggio e la dignità delle persone comuni che, stanche di errare da decenni nel deserto della dittatura, si risvegliano assetate di libertà.
Accanto al viaggio dell’autrice nella rivoluzione e nella repressione, c’è il percorso della donna, attraverso l’angoscia e la paura, verso la morte:
«Non ho più paura della morte, l’aspetto serenamente con la mia sigaretta e la mia tazza di caffè. Penso che potrei fissare un cecchino negli occhi, di sotto, sulla terrazza vicina. Spiarlo senza che se ne accorga»[10].
L’autrice è consapevole che la morte, per lei, è solo questione di tempo. Solo per salvare la figlia sceglie la strada dell’esilio, con l’unica speranza della caduta del regime, giacché aspira a ritrovare il suo ruolo di intellettuale e soprattutto di romanziera.
«Voglio tornare alla danza e alla musica, le mie sole passioni in questa desolazione. Voglio ritrovare il mio amore per le parole, la mia indifferenza verso la dimensione concreta dell’esistenza»[11].
Il diario si conclude nel luglio del 2011, quando l’autrice è costretta a lasciare la Siria verso l’esilio parigino:
«È finita. Mi lascio alle spalle una serie di resoconti e di esperienze come pure l’esasperazione nei confronti di quegli intellettuali che, pavidi e tremanti, restano in silenzio di fronte ai crimini. Lascio aperta la porta alla morte nel mio cuore, ma apro a mia figlia la porta della vita. Avanzo verso la morte con passo sicuro, perché lasciare la Siria non significa altro che morire»[12].
L’autrice tornerà in patria clandestinamente, più volte, negli anni immediatamente successivi, mossa dalla volontà di documentare la guerra.
[1] S. Yazbik, Taqāṭuʻ nīrān. Min yawmiyyāt al-intifāḍah al-sūriyyah, Bayrūt, Dār al-Ādāb, 2012.
[2] R. Yassin-Kassab, Literature of the Syrian Uprising, in Syra speaks. Arts and Culture from the Frontline, London, Saqi Books, 2014.
[3] S. Yazbik, Taqāṭuʻ nīrān. Min yawmiyyāt al-intifāḍah al-sūriyyah, op. cit., p. 10.
[4] Ivi, pp. 106-107.
[5] M. Cooke, Dancing in Damascus, p. 54.
[6] Ivi, p. 9.
[7] Il termine indica un miliziano appartenente a formazioni paramilitari schierate con il regime, il cui compito consiste spesso nell’affiancare polizia e servizi segreti nella repressione delle manifestazioni di piazza.
[8] S. Yazbik, Taqāṭuʻ nīrān. Min yawmiyyāt al-intifāḍah al-sūriyyah, pp. 16-17.
[9] Ivi, p. 12.
[10] Ivi, p. 13.
[11] Ivi, p.192.
[12] Ivi, p.299.
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