Un estratto da L’oasi del tramonto di Bahaa Taher

  Traduzione di Federica Pistono

  (Un articolo sul romanzo L’oasi del tramonto, con cenni alla biografia dell’Autore, si trova all’interno della sezione Egitto di RiveArabe, dal titolo L’oasi del tramonto di Bahaa Taher).

  4. CATHERINE

   Mahmud si ripiega sempre più su se stesso, lo vedo sprofondare ogni giorno di più. Cavalca sul suo dromedario, a testa bassa, come immerso nel sonno, indifferente a quello che lo circonda. Pensavo che questo deserto lo avrebbe fatto uscire un poco dal suo guscio, che avrebbe visto fino a che punto questo luogo è diverso da tutti quelli che abbiamo visitato insieme in Egitto, ma lui mi ha domandato, stupito, che cosa vi trovassi. Come fa a non vedere? Ho letto tutto ciò che è possibile leggere su questo deserto e su Siwa prima di intraprendere questo viaggio, tutti i libri che ho portato con me dall’Irlanda, resoconti di viaggi, opere di storici, tutto ciò che ho potuto trovare nelle librerie del Cairo. Credevo che non avrei scoperto nulla, che nulla mi avrebbe meravigliata. Ho studiato tutti i testi sulla strada, sui pozzi, sulle dune e sulle tempeste, ma nessuno trattava della vera natura del deserto. Non sapevo nulla di come mutano i colori su questo mare di sabbia, man mano che avanzano le ore della giornata, né ho letto una sola parola sul movimento delle ombre, quando disegnano una delicata volta grigia sulla sommità di una collina gialla, o vi aprono una porta scura nel mezzo. Non ho letto nulla di piccole nuvole alte che si riflettono sulle dune come frettolosi stormi di uccelli grigi, e nessuno di quei libri parla dell’alba, quest’alba così particolare, che, da una sottile linea candida all’orizzonte, si trasforma in un’aurora rossa che scaccia lentamente le tenebre, finché, con i primi raggi del sole, la sabbia risplende come un mare d’oro. All’alba si spande una fragranza che mi era stata finora ignota, una fragranza in cui si mescolano l’aroma delle rose, del sole e della sabbia. Questo profumo voluttuoso non penetra solo nelle mie narici, ma in ogni poro della mia pelle, al punto che, se il pudore non mi trattenesse, se non sentissi le grida degli uomini della carovana levarsi intorno alla tenda, stringerei la mano di Mahmud e gli direi: «Vieni qui, presto! Su questa sabbia umida!»

  E mi domando, stupefatta: come può non provare ciò che io provo? Perché non mi abbraccia, o almeno non mi bacia?

  In ogni momento, questo deserto mi porta qualcosa di nuovo, ma è Mahmud a sorprendermi. Afferma che il deserto si espande dentro di lui. Magari fosse vero! Questo deserto è talmente ricco! Ma non ho mai notato in lui alcuna attrazione per la natura, neppure in precedenza, fuori dal deserto. Non si è mai fermato davanti ad alberi o fiori. Non l’ho mai sentito dire una volta che il mare o il fiume lo affascini. Quando visitiamo dei siti archeologici, la noia lo afferra nel giro di cinque minuti. Non ha mai contemplato un edificio o una pittura su un muro.

  Non pretendo di essere più intelligente di lui, o di vedere quello che lui è incapace di vedere. Forse sono io incapace di comprendere ciò che lo preoccupa. Ho tentato e continuo a tentare, perché è l’uomo che amo. L’ho incoraggiato ad accettare questa missione nella speranza che questo lungo viaggio lo cambi, che il pericolo lo aiuti a superare la depressione. Ma non sarei del tutto onesta se sostenessi che questa è l’unica ragione. Sto attraversando questo deserto perché ho anch’io una missione da compiere! Ma per questo

bisogna attendere, è ancora troppo presto per pensarci, perché per adesso sei tu la mia missione, Mahmud, è su di te che si concentrano i miei sforzi. Come ha potuto ammaliarti così la prospettiva della morte durante la tempesta di sabbia, invece di spingerti ad aggrapparti alla vita, come Ibrahim, come tutti gli altri? E poi, all’improvviso, hai cambiato idea per farmi piacere, o si è trattato ancora di uno dei tuoi incomprensibili sbalzi di umore? In mezzo a tanto divagare, dove si trova il vero Mahmud? Lo scoprirò, non importa quanto tempo debba impiegarvi. Chissà, forse scoprirò anche la vera Catherine, quella che non conosco?

  La carovana prosegue il suo percorso verso ovest attraverso il deserto, e ci avviciniamo ogni giorno di più all’oasi. Davvero non vedo l’ora di arrivare. Ogni cosa, laggiù, è leggenda. Il sito, la gente, la storia, la geografia. Ho letto che, un tempo, Siwa era ricoperta dal mare, e che, ancora oggi, tra le sabbie e le rocce si trovano conchiglie e madreperla. I suoi abitanti vengono dall’ovest, non dall’est, appartengono alla tribù degli Zenata, una tribù berbera del Maghreb, e parlano un dialetto berbero. Ma Siwa ha fatto parte dell’Egitto faraonico, e vi adoravano il dio supremo, Amon. E c’è quella storia delle quaranta persone che hanno abbandonato il villaggio di Aghurmi, pieno di antiche rovine, per costruire più a ovest, in mezzo al deserto sconfinato, la loro attuale città, circondata da mura.

   Brucio dal desiderio di vedere e di capire tutto questo, e sono certa che l’oasi ricambierà il mio entusiasmo. Non credo che qualcuno come me abbia mai messo piede a Siwa. Tutti coloro che sono venuti prima di me si sono limitati a descrivere le rovine dall’esterno, alcuni ne hanno disegnato una mappa, ma chi, fra di loro, padroneggiava l’egiziano e il greco antico? Coloro che hanno riprodotto le decorazioni dei templi hanno commesso errori grossolani, dal momento che hanno scambiato i geroglifici per semplici disegni. Questo mi è subito balzato agli occhi. Soltanto io posso scoprire i tuoi segreti, oasi misteriosa.

  Un po’ di umiltà, Catherine!

  Perché? Non è forse la verità? Sì, senza dubbio, ma devo tacere, per proteggermi dall’orgoglio, che i Greci consideravano come la fonte di tutte le tragedie umane. Mi toccherà dunque dare prova di umiltà. Non ho davvero bisogno di nuove tragedie. Devo accontentarmi di spalancare tanto d’occhi su questo maestoso deserto.

   Le colline e le pianure sono sparite, procediamo ormai su una sabbia fine che si estende a perdita d’occhio. Nient’altro che sabbia, e scintillanti miraggi azzurri. Ma abbiamo avuto la sorpresa, attraversando queste immense distese di sabbia gialla, di imbatterci in grandi laghi di sabbia bianca e in dune arrotondate, simili a piccole cupole o seni sul petto del deserto. Sento che l’andatura dei dromedari accelera su questa sabbia soffice e che il suolo si inclina sotto il loro passo, perché avanzano leggeri, vivaci, come se scivolassero. I loro cuori fremono come il mio mentre affrontano la discesa? Mi rendo conto che stiamo finalmente penetrando nella vasta depressione che conduce a Siwa. Quest’oasi, secoli e secoli fa, era ricoperta dall’immenso mare azzurro. Ecco, da tre giorni non incontriamo piante lungo la strada, ad eccezione dei piccoli cactus che sconfiggono l’aridità assorbendo le gocce di rugiada. Non c’è la minima traccia di vita. L’ultima volta che ci siamo fermati presso un pozzo, la guida ci ha raccomandato di prendere tutta l’acqua possibile, dal momento che non ne avremmo trovata altra fino all’oasi.

   Il giorno stabilito, al mattino, ho sentito nella carovana le grida di gioia e le esclamazioni improvvise dei Beduini e dei mercanti. Lontano, molto lontano, le sabbie svelavano le cime delle palme, e tutti hanno manifestato con grandi gesti il loro entusiasmo, che ho ben presto imitato, per salutare la vita che risorgeva d’un tratto dalla morte, mentre i dromedari, pur esausti, partecipavano al clamore, consapevoli di essere finalmente giunti alla fine delle loro fatiche.

  Arrivati in un piccolo villaggio alle porte dell’oasi, siamo stati accolti dagli uomini, in uno spiazzo a cielo aperto circondato da mura. Ho notato che non indossavano le vesti ampie dei Beduini, né le lunghe galabeya dei contadini: le loro galabeya bianche erano corte, simili piuttosto a camicie larghe, sotto le quali portavano pantaloni lunghi. La maggior parte di loro era scalza. Ci hanno circondato, offrendoci prima cestini di fronde di palma colmi di datteri zuccherati e di mandorle, poi del latte in scodelle di ceramica.

  Mahmud era in piedi al mio fianco, circondato dai suoi soldati. Ho notato che quegli uomini, che chiacchieravano e ridevano con i Beduini e i mercanti, avvicinandosi a noi ci lanciavano sguardi ostili, che cercavano di dissimulare abbassando le palpebre e allungando il passo per finire rapidamente con noi, per allontanarsi infine borbottando con rabbia. Il Sergente Ibrahim ci ha detto, imbarazzato, che erano stupefatti, sbalorditi: era la prima volta che vedevano una donna a viso scoperto, vestita come un uomo, nell’oasi. Ho sorriso loro, alzando la mano in segno di saluto, ma si sono mantenuti a distanza, in un piccolo cerchio. Mi gettavano occhiate furtive, parlando a voce bassa con i Beduini della carovana, che mi avevano anch’essi evitato per tutta la durata del viaggio. Probabilmente facevano domande su di me. Ho notato che alcuni degli abitanti discutevano in arabo con i Beduini, ma, fra di loro, parlavano a voce alta in una lingua che non capivamo. Continuavano a borbottare scuotendo la testa e spostando lo sguardo da me a Mahmud. Lui se ne è accorto, ed è rimasto tutto il tempo al mio fianco, senza lasciare il mio braccio, circondato dai suoi soldati. Io non ho dato importanza al fatto.

  Ho cominciato a passeggiare qua e là sulla piazza scoperta, accompagnata da un’inevitabile scorta, interrogando Ibrahim su quanto stava accadendo tra i mercanti e gli uomini del villaggio, che si erano radunati intorno a loro.

  «Perché i mercanti non propongono loro che delle boccette di profumo e delle collane di perle, perché non vendono loro altri tipi di merci?», gli ho domandato.

  Mi ha sussurrato che i commercianti svolgono il loro lavoro vero e proprio quando arrivano al mercato di una grande città, con lo scambio di merci. Vendono qui anche qualche abito da uomo e da donna, questa è una consuetudine antica, anche se gli abitanti non indossano che i vestiti confezionati apposta per loro a Kerdasa, portati dalle carovane.

  È scesa la sera, si è deciso di passare la notte qui, in questo villaggio, perché i dromedari stanchi si riposino, dopo essersi dissetati alla fonte. Mahmud ha ordinato agli uomini di montare la tenda qui, su questa piazza.

 «Hai notato che non abbiamo visto donne tra gli abitanti di questo villaggio? Nemmeno dei bambini, sono tutti ragazzi!»

 «Non sto pensando alle donne, in questo momento», ha sorriso Mahmud. «Bisogna pensare al lavoro da fare», ha aggiunto, tornando a essere serio.

  Quindi ha chiamato Ibrahim e gli ha detto: «Vada a domandare se qualcuno degli Agwad è presente in questo villaggio e se è possibile parlarci».

  Ridendo, Ibrahim ha risposto: «Quale villaggio, Eccellenza? Non c’è nessun villaggio qui».

  «Ma questi uomini che ci hanno accolto, dove abitano?», ho domandato, perplessa.

  «Sono dei contadini, signora, degli Zaggala. Lavorano e dormono nei giardini del villaggio, che sono circondati da mura. Gli Agwad, proprietari dei giardini, vivono al villaggio, ci arriveremo domani mattina, e li incontreremo laggiù. Credo che uno zaggal sia stato inviato ad avvertirli dell’arrivo della carovana, e dell’arrivo di Sua Eccellenza il Governatore».

 «Il Generale Sa‘id Bey non si sbagliava, quando mi ha detto che lei sa molte cose sugli abitanti di quest’oasi», ha dichiarato Mahmud.

  «Nessuno sa davvero molte cose su di loro, Eccellenza. Sono venuto qui, come le ho detto, durante una campagna militare, venti anni fa, e non ho conosciuto altro che guerra e violenza».

  «Allora perché è tornato qui?», ha sorriso Mahmud.

  «Le ho detto anche questo, Eccellenza. Per i bambini».

 Ibrahim era anziano. Il suo viso mostrava che aveva superato la sessantina, anche se il fatto che fosse snello e agile faceva supporre che fosse più giovane. Che cosa intendeva, dunque, quando parlava dei ‘bambini’? Mi sono inserita nella conversazione: «Ma, Ibrahim, i suoi figli non dovrebbero essere grandi, ormai?»

  Non mi ha risposto immediatamente, ma solo dopo un attimo di silenzio: «Parlo dei miei nipotini, signora», ha finalmente spiegato. Ho capito che si trattava di un argomento delicato, e non ho fatto commenti.

  «Dove sono i loro genitori?», ha domandato Mahmud con franchezza.

  Lui ha alzato la testa e, con il suo accento di campagna, ha detto: «La vita a volte è crudele», quindi si è chiuso nel silenzio.

  Anche Mahmud ha taciuto, ma Ibrahim ha proseguito con semplicità: «Come lei sa, Eccellenza, Dio è il solo giudice. I miei figli se ne sono andati nel fiore degli anni. Mi sarebbe tanto piaciuto sacrificarmi per salvarne almeno uno, quando il colera ha colpito il nostro villaggio, ma Dio ha deciso diversamente. Mi hanno lasciato una tribù di nipotini, che il colera ha risparmiato, così come ha risparmiato me. Forse è per loro che Dio mi dato una vita così lunga. È per loro che il Generale Sa‘id Bey – che Dio lo protegga – mi ha aiutato a ottenere questo lavoro presso di lei, Eccellenza, perché possa mettere dei soldi da parte per loro».

  Quindi ha continuato, cercando di sorridere: «Come vede, sono sopravvissuto al colera, alla guerra dell’oasi, alla guerra contro gli Inglesi, quella che chiamano al-Hoga, ed eccomi qui, davanti a lei, forte come un cavallo».

  «Che Dio possa darle lunga vita, Ibrahim», ha detto Mahmud.

  Ibrahim ha riso: «Ancora più lunga?! Tutto quello che chiedo a Dio, è che mi riporti sano e salvo al mio villaggio».

  Quindi, sempre ridendo, ha improvvisamente cambiato argomento: «Lo sa, Eccellenza? I Beduini hanno chiesto agli Zaggala di organizzare per noi una festa con i tamburi, stanotte. Assisterete a qualcosa che non avete mai visto! Con permesso, vado a montare la tenda».

  Non appena Ibrahim si è allontanato, Mahmud, con un pizzico di stupore, ha osservato: «Prende la vita per quella che è!»

  «Si può fare altro, Mahmud?», gli ho domandato.

   «Non ho tempo di pensare a questo, adesso. Gli Agwad sono pronti a ricevermi, devo anch’io prepararmi a incontrarli».

  Poi mi ha lasciato, gridando a Ibrahim di aspettarlo.

  Nessuno dunque impara niente da nessun altro!

  Ma a me, la notte dei tamburi, come l’ha chiamata Ibrahim, ha insegnato qualcosa.

  Tutta la carovana si è riunita sulla piazza coperta di sabbia per ascoltare i canti sotto il cielo nero. Al chiaro di luna, le persone avevano l’aspetto di ombre animate. I canti degli Zaggala, seduti per terra in cerchio, circondati da alcune grandi torce, sono cominciati, accompagnati dalla grande eccitazione e dalle grida di incoraggiamento dei Beduini, che ignoravano, credo, il significato delle parole, ma erano semplicemente affascinati da quei canti, come lo ero io. Tutto inizia molto dolcemente, quasi con un sussurro di donna, un lungo gemito, prima di trasformarsi all’improvviso in un grido selvaggio al ritmo rapido dei tamburi, che evocano lo strepito delle pallottole, con l’accompagnamento di flauti rudimentali, il cui suono evoca pianti e grida. Poi i cantori si alzano, altri uomini si uniscono a loro, tutti battono le mani velocemente, quindi si levano di nuovo gemiti melodiosi, che sembrano provenire da ogni parte, nello spazio che ci circonda. I cantori formano un cerchio tenendosi per la cintola ed eseguono un girotondo in cui i loro corpi danzano, oscillando e vacillando al ritmo di canti lascivi che si innalzano in un fragore assordante. Avevo l’impressione che il mio cuore, che batteva rapido, fosse sul punto di scoppiare riproducendo quel ritmo massacrante, e ho gettato uno sguardo furtivo intorno a me. Ho constatato che Mahmud era anche lui rapito da quel vortice, come pure i Beduini silenziosi, a bocca aperta.

  Quella notte, sotto la tenda, Mahmud e io abbiamo fatto l’amore con desiderio e passione, abbiamo saziato i nostri corpi dopo una lunga fame, attenti tuttavia a non produrre il minimo rumore, anche se le grida trattenute esaltavano ancor più la tensione dei corpi, ci siamo immersi l’uno nell’altra con foga, trovando pace e sollievo, sprofondando insieme in quel letto di sabbia soffice.

 Un inizio niente male, in quest’oasi!

  Al sorgere del sole, la carovana si è messa in marcia verso il villaggio. I dromedari, rassegnati all’acqua salata del deserto, avevano bevuto acqua dolce e sembravano rinvigoriti. Mi sentivo anch’io rinvigorita, e spalancavo gli occhi per non perdere nulla. Abbiamo attraversato grandi distese di sabbia cosparse di dune, di piccole montagne ocra che si alzavano in lontananza, sulla destra. Qua e là, siamo passati accanto a pozzi e a laghi che dei canali collegavano alle terre coltivate, ai giardini circondati da mura tanto alte che ne emergevano soltanto le grandi palme da datteri, alcuni dei quali erano ancora verdi. Ho avvertito l’odore penetrante dei fichi, come quelli di altri tipi di frutta. Sentivo i canti alzarsi continuamente dietro quelle mura.

  Ho realizzato che, quelli che udivo, erano i canti del lavoro degli Zaggala, di cui avevo sentito parlare, canti che celebrano colture e raccolti di ogni genere. Ogni volta che uno di loro smette di cantare, un altro zaggal, nello stesso giardino o dietro un altro muro, intona il canto. Questa cascata di canti, che ci ha accompagnato per tutto il tragitto, prolungava la magia della notte precedente. Ma ho ricordato anche che la rivalità tra le tribù dell’oasi, riguardo questi canti, ha dato luogo a combattimenti. Avevano trovato una soluzione per far sì che i canti appartenessero a tutti?

  Lungo la strada, siamo passati accanto a un grande lago che scintillava fra le sabbie, l’azzurro del cielo si rifletteva sulla superficie dell’acqua, dove fremevano piccole onde. Si trattava certamente di un lago salato.     Abbiamo impiegato più di due ore per raggiungere il cuore dell’oasi. Lungo il cammino, non abbiamo visto costruzioni, ad eccezione delle mura che circondano i giardini e impediscono a chiunque di guardare all’interno. Dal nostro arrivo nell’oasi, la mia attenzione era stata assorbita dall’enorme quantità di palme presso le fonti. Ne avevo individuate alcune, in mezzo ai laghi, di cui non emergeva che la cima. Ma ora, all’improvviso, dopo aver superato una collina, immensi orizzonti verdi si sono dispiegati sotto i miei occhi, una fitta foresta di palme si estendeva a perdita d’occhio. Un mare di un verde cupo, opaco, oleoso, al di sopra del quale il villaggio si innalzava come un’isola, come una piramide, con le sue mura grigie e le sue case gialle.

  Mahmud mi ha raggiunta, si è fermato alla mia altezza, contemplando insieme a me il villaggio in silenzio.   «Non ho mai visto niente di simile, un vulcano grigio che emerge da un vortice di onde verdi», ha osservato affascinato, incapace di distogliere lo sguardo.

 «O una piramide a gradini, quella che nessuno dei nostri antenati ha mai pensato di costruire. Una piramide a base circolare».

  Aveva ragione. Le case gialle e grigie, attaccate le une alle altre, si arrampicavano, sempre meno numerose, fino alla sommità della collina, spiccando contro il blu del cielo. Non sono riuscita a staccare gli occhi dal villaggio nemmeno quando la carovana è ripartita, mentre sentivo, stupita, Mahmud che ripeteva: «Sì, Catherine, una grande piramide. E a che cosa servivano le piramidi ai tempi dei nostri antenati?»

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