Atmosphere Libri, 2020, trad. B. Benini[1]
Recensione di Barbara Benini
Abu Bakr Hamid Khaal è uno scrittore eritreo, classe 1961, attualmente residente nel nord della Danimarca. Dopo aver trascorso alcuni anni a combattere con il Fronte per la Liberazione dell’Eritrea, anni in cui ha imparato la lingua araba soprattutto grazie a testi di carattere marxista – irreperibili in tigrino – , parte del programma di educazione rivoluzionaria, Khaal, in seguito all’indipendenza dell’Eritrea (1991) non è rientrato nel suo paese, non fidandosi degli slogan del nuovo regime – tant’è che molti dei suoi compagni sono stati imprigionati – preferendo invece restare in Libia, dove ha risieduto per molti anni, lavorando presso la Lega dei Letterati e Scrittori Libici. Sono di quel periodo infatti la Biografia del poeta libico Gilani Tribshan (1944-2001), Ra’iha al Silaah (L’odore delle armi, Tripoli, Manshurat Al-Mu’tamar, 2005), il suo primo romanzo in lingua araba, e Barkantia, Ard al-Mar’a al-Hakima (Barkantia, La terra della donna saggia, Tripoli, Majlis al-Thaqafa al-Aam al-Libi, 2008), il secondo, entrambi incentrati sulla guerra tra Etiopia ed Eritrea e le sue tragiche conseguenze sulla popolazione.
Nel 2011, allo scoppio della guerra civile in Libia, Khaal è riuscito a fuggire in Tunisia, dove ha risieduto per otto mesi in condizioni precarie all’interno dei campi profughi di Ras Jedir, vicino Susa, per poi emigrare in Danimarca, dopo aver ottenuto lo status di rifugiato politico, anche grazie alla grande mobilitazione degli scrittori e della stampa tunisina, che hanno preso a cuore il suo caso[2].
Titanic Africani, pubblicato nel 2008 con la casa editrice libanese Dar Al Saqi, ha riscosso un grande successo e raccolto il plauso della critica araba, che considera Khaal a pieno titolo il più grande scrittore di letteratura araba-eritrea contemporanea.
Come afferma Khaal stesso in un’intervista rilasciata al quotidiano Al Araby in occasione dell’uscita della traduzione inglese di Titanic Africani, nel suo romanzo ha “voluto rispondere alla più tragica delle domande, cercando di ritrarre le paure dell’immigrato che si imbatte nelle ossa dei suoi predecessori e di capire cosa gli passi per la testa, quando la barca su cui si trova incomincia ad affondare in mare e l’acqua lo trascina verso il fondo.” A chi ha visto nel suo romanzo un certo gusto per l’esotico, per via delle leggende di origine africana in esso narrate, Khaal risponde affermando di essere egli stesso “figlio” di varie culture: quella araba – attualmente perseguitata dal regime eritreo – quella orale eritrea, ricca di racconti popolari, quella africana, con la sua magia e leggende e quella nordeuropea, grazie al suo esilio in Danimarca[3].

In Titanic Africani siracconta la storia del pericoloso viaggio intrapreso da migliaia di africani per arrivare in Europa, via Sudan, Libia, Tunisia e poi attraverso il Mediterraneo. Il protagonista, l’eritreo Abdar, e i suoi compagni di diverse nazionalità affrontano numerosi ostacoli e difficoltà lungo la via, sia di carattere climatico che, per così dire, “umano”: il deserto, la disidratazione; le pallottole dei predoni, la polizia libica e quella tunisina e infine le carrette del mare, che gli eritrei chiamano appunto i Titanic, da cui il titolo. Alcuni moriranno di sete e sfinimento lungo la via del Sahara, altri ce la faranno fino alla tappa successiva per poi restare bloccati a causa della febbre, altri ancora verranno catturati e rimpatriati. Ciò che accomuna tutti, è il desiderio di andarsene, dalla guerra civile, dalle difficoltà economiche, o semplicemente alla ricerca di una vita migliore.
Molte figure emblematiche dell’umanità che si muove in questi mezzi sgangherati, di fortuna, accompagneranno tappa per tappa Abdar e i suoi compagni e i rapporti umani che si instaureranno in quelle circostanze difficili, metteranno a dura prova le capacità di sopravvivenza di ognuno, oltre che suscitare sentimenti di solidarietà verso gli altri, che il più delle volte non parlano nemmeno la stessa lingua.
E così Terhas, eritrea anche lei, nel deserto del Sahara urinerà nella bocca di uno dei compagni di viaggio, nello strenuo tentativo di salvarlo dalla disidratazione; Abdar consolerà la donna curda irachena colpita dalla febbre, comunicando a gesti con le donne senegalesi, sedute lì accanto, perché ignora sia il francese che il wolof e Maluk, il liberiano, intratterrà tutti quanti, tra alti e bassi, tra momenti di depressione ed altri di loquacità, con le sue storie, miti e leggende, con il suo canto e la sua chitarra, ma anche con la sua ironia e saggezza.
Un elemento portante di questo romanzo è infatti l’ancestrale saggezza africana che, tramite le storie raccontate da Maluk e la storia dei Maluk, dal Primo al Terzo, l’autore ci presenta sotto forma di leggende. Si tratta di una saggezza che, di padre in figlio, si tramanda solo oralmente e attraverso le avventure, e disavventure, dei suoi leggendari protagonisti dissemina di perle di insegnamenti la storia delle origini africane dell’uomo, dove il cantastorie, o meglio i cantastorie, svolgono un ruolo fondamentale e per questo tenuto in alta considerazione da tutti: nordafricani e africani subsahariani. E sarà il frutto di tale saggezza a far dire sempre a Maluk, rivolto all’immigrato etiope che maledice il giorno in cui ha lasciato la propria terra, che l’immigrazione è un processo naturale, c’è sempre stato e sempre ci sarà e forse, un giorno, le anime perse faranno ritorno alla madre Africa, la terra in cui ha avuto origine l’uomo.
E poi c’è l’egiziano Atiyya, l’ex pescatore, che redarguisce tutti di continuo, devono smetterla con la loro mania di chiamare le barche Titanic, portando sfortuna a tutti loro, per poi subito dopo pentirsi della propria sfuriata ed ammettere anche lui, con un gioco di parole, che le barche per la trasbordata sono proprio “del cazzo”, niik in arabo, “Tita… niik”.
La lettura di questo romanzo ci fa aprire gli occhi su un’umanità di cui sentiamo quotidianamente parlare come si trattasse di bestiame, solo attraverso numeri e statistiche relativi agli sbarchi o ai respingimenti, Khaal, invece, pagina dopo pagina dà voce agli africani protagonisti della storia, al loro modo di pensare, di affrontare i pericoli, di reagire alle difficoltà: ci sarà chi si trasformerà in vera bestia, ma anche chi, al contrario, fino all’ultimo non perderà la propria umanità. Naji, l’autista sudanese che da Omdurman, attraverso il deserto del Sahara, solo guardando le stelle, li condurrà fino a Kufra, in Libia, non riesce proprio a capirli, perché non sa far altro che la guida nel deserto, per lui il mare di sabbia è preferibile di gran lunga al mare d’acqua.
Altra figura emblematica è Si Najih, il proprietario dell’albergo tunisino che ospita i migranti, chiudendo un occhio sui loro documenti, o la loro mancanza, e a suo modo proteggendoli, cosciente delle loro tragedie e consapevole di ciò che i loro occhi possono aver visto nelle loro giovani vite.
E anche ai cosiddetti scafisti Khaal restituisce umanità, attraverso la figura del povero Ali Khayrat, il contrabbandiere yemenita che non avendo i mille dollari necessari alla trasbordata, si offre di condurre lui stesso la barca, invece di pagare il costo del viaggio.
Diverse e multistrato le umanità che popolano questo romanzo, che non è un vero e proprio racconto di viaggio e nemmeno un romanzo sulla sofferenza, come nota giustamente “Socialist review”[4], Titanic Africani, con la sua prosa sobria e per certi versi piena di lirismo, ha il pregio direstituire umanità e dare voce a chi, sui media occidentali, viene costantemente demonizzato.
[1] https://www.atmospherelibri.it/prodotto/titanic-africani/
[2] http://elaph.com/Web/opinion/2011/5/655612.html
[3] https://www.alaraby.co.uk/culture/2015/1/31/%D8%A3%D8%A8%D9%88-%D8%A8%D9%83%D8%B1-%D9%83%D9%87%D8%A7%D9%84-%D8%BA%D8%B1%D9%81%D8%A9-%D8%AA%D8%AE%D8%B5-%D8%A5%D8%B1%D9%8A%D8%AA%D8%B1%D9%8A%D8%A7
Rispondi