Traduzione dall’arabo di Barbara Benini
Kullu-l-Ma‘ārik, Dar Al Kutub Khan Li-l Nashr, Il Cairo, 2016
Lesse il messaggio e appoggiò il telefono di lato: non sarebbe passata da lui quella sera. Perfetto. Aveva bisogno di risparmiare tutte le energie, l’incontro si sarebbe tenuto il giorno dopo. Erano passate sei settimane da quando aveva timidamente proposto al suo allenatore di iscriverlo al campionato, per poi scoprire che, a sua insaputa, il suo nome era stato già inviato agli organizzatori.
Riempì d’acqua un pentolino, lo pose sulla fiamma, scartò la confezione di un nuovo paragengive e lesse le istruzioni.
Fissando la superficie dell’acqua che iniziava a tremolare, pensò ancora una volta ai possibili scenari: avrebbe potuto incontrare una iena, che l’avrebbe stracciato; sarebbe potuto finire KO al primo round o, ancor peggio, avrebbero potuto cedergli i nervi, costringendolo al ritiro.
Sentì l’acqua bollire e tolse il pentolino dalla fiamma, ci immerse il paragengive e cominciò a cronometrare il tempo. Riempì un altro pentolino con dell’acqua fredda, prese un mestolo e tornò a guardare l’orologio. Passato un minuto, tirò fuori il paragengive dall’acqua bollente, lo immerse per un secondo nell’acqua fredda, se lo mise in bocca e strinse i denti. Era caldo e morbido, mentre gli rivestiva l’arcata superiore. Insapore e inodore, quando lo morse per fissarlo ai denti e alle gengive, premendo con le dita sul labbro superiore e spingendo la lingua in avanti, affinché aderisse bene anche all’interno. Dopo aver contato trenta secondi, se lo tolse di bocca e prese a esaminarlo: si era plasmato sulla sagoma dei molari e sull’impronta, più o meno profonda, della sua dentatura regolare. Lo immerse di nuovo nell’acqua fredda e poi lo appoggiò sul tavolo.
Tornato in camera da letto, dette un’occhiata alle cose che gli sarebbero servite: due paia di fasciature per le mani, pantaloncini, calzettoni, stivaletti alti da pugilato, il caschetto, una penna, un taccuino e il tubetto della vaselina. Mise tutto con cura nel borsone, che prima utilizzava per giocare a calcio e per andare in palestra, e si sedette nudo sul letto, a riflettere su quanto gli aveva detto l’allenatore: per la sua stazza e il suo peso, era veloce e agile sui piedi; la lunghezza del braccio gli dava un vantaggio significativo; imparava in fretta e sul ring usava il cervello; e, in fine, la cosa più importante, aveva il cuore di un guerriero. Said cercò di richiamare alla memoria ogni sua buona performance nelle ultime sei settimane, concentrandosi sulla forza, la velocità e l’abilità che mostrava sia sul ring, che al di fuori. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a contenere quella sensazione che lo teneva sveglio da settimane e che, mano a mano che la data si avvicinava, si faceva sempre più forte: era terrorizzato.
Guardò lo stereo, si allungò per accenderlo, ma poi cambiò idea. Aprì il borsone, ne estrasse i guantoni, li indossò e si mise in posa con i pugni davanti alla faccia, poi fece due passi verso sinistra, in direzione dello specchio. Eccolo lì il suo viso, seminascosto dai guantoni: non si vedevano altro che gli occhi e il punto in cui le sopracciglia si incontrano sulla fronte, al di sopra del naso. Ancora una volta pensò a quello che gli aveva detto l’allenatore sul fatto di tenere giù il mento e, abbassandolo sul collo, si rese conto di sembrare più aggressivo. Salito sul ring, doveva assolutamente ricordarselo. Osservò il proprio corpo così ben delineato, come fosse la prima volta e, lentamente, prese a tirare un diretto sinistro, poi un destro, poi un gancio sinistro, immaginandosi come avrebbero raggiunto l’avversario, solo che quest’ultimo, nella sua mente, schivava tutti i colpi e gli rispondeva con un montante, che lo colpiva in pieno.
Confuso, serrò i gomiti per proteggere il mento.
Tornò a sedersi sul letto e lanciò i guantoni nella borsa. Era irrequieto. Si alzò di nuovo e si avvicinò al frigorifero, da cui tirò fuori il paragengive che, avendo assunto la forma dei suoi denti, non entrava più nella confezione. Poi tornò in camera, prese dalla borsa il vecchio paragengive, lo gettò e provò quello nuovo. Ora se lo sentiva avvolgere i denti senza spazi vuoti, non come il primo, che aveva preparato in fretta e furia, subito dopo il primo allenamento. Specchiandosi di nuovo, vide il labbro superiore che sporgeva in fuori e, sotto, il bordo nero della protezione. Abbassò il mento, ruotò le pupille in alto e alzò i pugni ai lati della testa. Un guerriero, si disse.
Aveva una gran voglia di versarsi un bicchiere di whiskey per calmare i nervi, ma l’allenatore lo aveva avvisato: sul ring avrebbe pagato a caro prezzo ogni sorso di alcol, o tiro di sigaretta. Il ring è l’ultimo posto dove arrivare con debiti del genere tra capo e collo.
Erano solo le dieci. Non ce l’avrebbe fatta a dormire, lo sapeva, e star seduto lì, a pensare e a rimestare in testa la questione, gli avrebbe fatto montare l’ansia. Per distrarsi un po’, decise di guardare un film online. Appoggiò la schiena al muro e avvicinò il laptop. Sul motore di ricerca scrisse “film completi” e apparve una lista di titoli sugli attacchi dell’11 settembre: teorie complottiste senza fine e senza attrattiva. Mosse il cursore sullo schermo, cliccò su “avanti” e comparvero una serie di proposte che Said ignorò: documentari sui convertiti alla chiesa evangelica negli Stati Uniti, su gang razziste e coloni israeliani. Tutta roba che aveva già visto. Scorrendo verso il basso, trovò dei documentari su Muhammad Ali e sulla vita dei pugili dopo il ritiro; poi su Gandhi, Mandela e Madre Teresa di Calcutta; sui vari massacri, da quello perpetrato dai Khmer Rossi, a quello degli armeni, quello di Nanchino, quello di Re Leopoldo in Congo, quello dei Tutsi in Ruanda, quelli perpetrati dai Serbi in Bosnia, fino a quello di Tel Al Zaatar e sulla Guerra Civile libanese; documentari sui lavoratori domestici in Libano e Dubai, gli operai nel Golfo, i grandi progetti di costruzione al mondo, sul collasso dei mercati a livello globale, le banche, i bordelli in Iran, la purga del Palazzo Khuld, sulla guerra Iran-Iraq, l’invasione del Kuwait, la Prima Guerra del Golfo, la Guerra Fredda, sull’Unione Sovietica, la crisi degli ostaggi, su Osama Bin Laden, il Mullah Omar, la Banda Baader Meinhof, sull’Armata Rossa Giapponese, i combattenti ceceni, Hezbollah, Hamas e la Guerra del 1967, su Re Hussein di Giordania, sul Settembre Nero e le Olimpiadi di Monaco, sulla ginnastica artistica, Nadia Comaneci, i maratoneti africani e la squadra di pugilato cubana del 1982, sulla storia dell’hockey, sull’evoluzione della pallavolo e del beach-volley. Si fermò. Perfetto, si disse: un documentario che seguiva due splendide ragazze, mentre si preparavano per un torneo di beach-volley. Ci cliccò sopra.
Teneva gli occhi incollati su quelle bellezze della pallavolo, ma la mente era distratta da visioni che il più delle volte terminavano con il suo corpo disteso sul tappeto del ring. Andò in bagno, dimenticandosi di mettere in pausa il documentario e, quando tornò, se n’era già scordato, così riprese a giocare con i guantoni. Chi colpiranno domani? Si domandava. Dette un’occhiata all’orologio. Erano solo le dieci e venti.
Per combattere l’ansia, decise di prendere la macchina e andare a fare un giro veloce, dopodiché, sarebbe tornato a casa e poi subito a letto. Si vestì in fretta e uscì dall’appartamento. Arrivato all’auto, vide che il finestrino era rimasto aperto, allungò il braccio, aprì la portiera dall’interno e si sedette al volante. In cerca delle chiavi, prese a rovistarsi in tasca e una volta trovate, avviò il motore e partì. La strada davanti a lui si allungava verso la città, quella città che di notte brillava di luci e cartelloni pubblicitari, nascondendo i marciapiedi dissestati e le scritte sui muri. Guidava veloce Said, nonostante il traffico zigzagava tra le auto, cambiando corsia come un adolescente spericolato. Al primo sentore di un possibile rallentamento del traffico, sterzò bruscamente per infilarsi in una laterale e proseguì svoltando e svoltando di nuovo, finché non raggiunse un semaforo, che diventò rosso una frazione di secondo prima che lui potesse passare. Premette il piede sul freno, tirò quello a mano e si guardò in giro: ovunque, locali che traboccavano di giovani. Ne vide uno alto, ben piantato, avanzare in compagnia di due ragazze. E se fosse lui, il mio avversario di domani? Poi ci ripensò. Questa non è gente che tira di boxe. Ma se fosse proprio lui? Riuscirei a sconfiggerlo? Riuscirei a battere quello, quello seduto laggiù? O quello basso e muscoloso, in piedi, accanto alla sua macchina sportiva? Ce la farei a sconfiggerlo sul ring? E fuori? I clacson gli strombazzavano dietro e si accorse che era scattato il verde. Prese il viale a destra e proseguì lentamente fino a che non trovò un parcheggio. Scese e iniziò a scrutare ogni giovane che incrociava, misurandone altezza e larghezza, in cerca di tratti distintivi di intelligenza o stupidità, forza o debolezza, valutando se sarebbe stato in grado di batterlo sul ring, o in una scazzottata. Nella stragrande maggioranza dei casi la risposta era un rassicurante sì, ma le due o tre volte in cui non ne fu così sicuro, lo fecero agitare.
Di nuovo in macchina, mise in moto e notò che la lancetta della temperatura era quasi sul rosso. Spense il motore. Avrebbe potuto chiamare sua madre, pensò, ma cosa le avrebbe detto? Domani ho un incontro di boxe e sto tremando di paura? Scorse i nomi nella rubrica: Jad, Dina, Rami, Nart. Se avesse detto a tutti loro cosa lo teneva sveglio, avrebbero cercato di convincerlo a non andare ed era proprio quello che non aveva voglia di sentirsi dire.
Girò la chiave e tornò verso casa, passando per vie secondarie. Quando arrivò, parcheggiò, spense il motore e rimase immobile dietro il volante. Il buio era assoluto e il silenzio totale, a parte una sirena della polizia, in lontananza. Oltre il parabrezza, la strada vuota e gli alberi lungo il marciapiede. Perché? Si domandò. Perché il giorno dopo si sarebbe battuto? Perché si era legato alla Palestra Saqf el-Heyt? Non aveva nessun obbligo. Esatto! Si disse.
Rientrò nell’appartamento, cominciò a spogliarsi e quando raggiunse il letto era già nudo.
Spostò tutta la roba dentro il borsone e dette un’occhiata all’orologio: quasi mezzanotte. Si infilò sotto il lenzuolo e spense la luce. Spostò la coperta, si girò su un fianco e chiuse gli occhi.
Alle tre di mattina stava ancora fissando il soffitto. Era tardi, stava perdendo del sonno prezioso e questo avrebbe avuto delle ripercussioni sulla sua performance sul ring e più ci pensava e più si agitava e non riusciva a prendere sonno. Pensava agli sforzi fatti nelle ultime settimane, a tutte le volte che aveva lasciato l’ufficio in anticipo, agli appuntamenti importanti che si era inventato per poter andare in palestra; alle volte che aveva cancellato i programmi fatti con Dina; a tutti i venerdì e le domeniche passate ad allenarsi, mattina e sera, dal giorno in cui l’allenatore gli aveva detto di averlo iscritto al torneo. A come si fosse sentito orgoglioso e come, allo stesso tempo, avesse imprecato a bassa voce.
Alle sei e quarantatré si alzò dal letto, guardò l’orologio e si rilassò subito: la sveglia non era ancora suonata. Accese lo stereo e andò in cucina a fare colazione secondo le istruzioni dell’allenatore: due uova, pane tostato, avena con miele, due banane a fettine e una spremuta di arance fresche. Una volta terminato, si fece una doccia, si vestì e uscì di casa.
L’allenatore e i due gemelli lo aspettavano sul retro di un pulmino, quando arrivò davanti alla palestra. Salì e si sedette in silenzio di fronte ai gemelli, accanto al coach, il quale fece un cenno all’autista che, prima di partire, bisbigliò una preghiera. Fermi a un semaforo, Said percepì lo sguardo dell’allenatore su di sé.
«Hai paura?»
Non rispose.
«Bene – continuò il coach – se mi avessi detto di no, ti avrei fatto scendere qui.»
Concentrato a guardare fuori dal finestrino, Said non vedeva altro che strade a lui poco familiari, nella zona est della città. Aveva una strana sensazione allo stomaco, come se fosse completamente vuoto, a parte una gran quantità di acqua gelata. Dopo venti minuti durante i quali l’autista non aveva fatto altro che cantare sulla voce di George Wassuf, quasi facendogli da maestro, sbucarono sulla via principale, presero un altro viale e costeggiarono un quartiere affollato. Il pulmino salì, tossendo, su per un paio di colline e, solo dai nomi delle botteghe di alimentari, Said capì in che zona della città si trovassero. Era nervoso, sperava che il viaggio non finisse mai, che il suo allenatore ricevesse una telefonata in cui gli comunicavano che il torneo era stato cancellato, che si perdessero e fossero costretti a tornare a casa: una scusa convincente, qualcosa che non dipendesse da lui. Svoltarono a un incrocio e presero a discendere da una collina, per poi fermarsi a un semaforo, a metà costa. L’allenatore cominciò a raccogliere le sue cose. Il polso di Said accelerò e quella nausea liquida e gelata si fece più forte. Svoltarono a sinistra e si infilarono in un altro dedalo di viuzze, che li scaraventò in una via trafficata. Il pulmino si fermò davanti a un edificio sulla cui entrata campeggiava l’insegna: Associazione dei Laureati delle Università Sovietiche. Gli spettatori erano già in fila all’ingresso, mentre i pugili, con aria severa, sfilavano loro accanto.
«Vuoi aprire, o no, questa porta?»
Gli chiese l’allenatore, che da quando erano scesi dal pulmino, non aveva fatto altro che salutare amici e conoscenti, molti dei quali con il naso schiacciato. Tutti insieme, il coach davanti, scortato da loro tre, avevano proseguito dentro una hall, da cui erano sbucati su una balconata affacciata sul cortile, dove un enorme tendone copriva tre ring.
Gli incontri erano già iniziati. Sentiva gli allenatori urlare consigli ai loro pugili e vedeva gli arbitri saltellare tra i combattenti, impegnati a darsele di santa ragione; schizzi di sudore e sangue di tanto in tanto raggiungevano il tavolo dei giudici.
Seguì il suo coach, che si faceva largo fino a un gruppetto di sedie disposte in circolo, su ognuna delle quali era posato un foglietto, con scritto Palestra Olimpica Saqf el-Heyt
«Aspettatemi qui.» Disse l’allenatore e scomparve tra la folla.
Said si mise a seguire l’incontro sul ring lì vicino. Erano due pesi mosca, uomini veloci, leggeri e molto esperti, allenati per durare non più di quattro round: arrivare al knockout, con loro, era molto improbabile.
Suonò la campana, il round era terminato e i pugili tornarono ai propri angoli, dove giunsero gli allenatori e i cutmen con i loro sgabelli. Nel ring accanto, l’arbitro teneva i pugili per i polsi, in attesa di alzare quello del vincitore. Nel ring più lontano, un pugile aveva messo all’angolo il suo avversario e lo stava riempiendo di pugni.
Notò che i gemelli avevano il completo da boxe sotto i vestiti. Aveva dato per scontato che ci sarebbe stato uno spogliatoio e così si dovette cambiare in fretta, seduto su quelle sedie. Di nuovo osservò i gemelli e vide che Ammar stava fasciando le mani di Yasser.
«Non ti preoccupare, ora faccio anche le tue.» Lo rassicurò il giovane, non appena si accorse che Said lo stava guardando.
Quando l’allenatore fece ritorno, gli disse di seguirlo fino a un tavolo, al quale sedevano degli uomini sulla cinquantina, con camicia a righe e cravatta.
«Dov’è?» Domandò l’ufficiale e l’allenatore gli fece segno di avvicinarsi.
«Nome?»
«Said Habjuqa.»
«Il nome per intero.» Lo interruppe l’uomo.
«Said Ahmed Saad Eddin Habjuqa.»
«Saad Eddin cosa?»
«Habjuqa.» Ripeté. Poi lo disse di nuovo.
«Ha… bju… qa.» Gli fece eco lentamente l’ufficiale, mentre scriveva il nome di Said su un cartoncino, che gettò in un vaso di vetro.
«È un nome di origine circassa.» Disse l’allenatore. […]
Maan Abu Taleb (Amman, Giordania) è il fondatore della più famosa rivista musicale, on-line, dedicata interamente alla musica araba contemporanea, “Ma3azef”[1]. In un’intervista rilasciata a fine 2017 alla rubrica “Noisey”, della rivista on-line “Vice”, Abu Taleb esprime molto chiaramente la mission di “Ma3azef”: “Ciò che più di ogni altra cosa cerchiamo di evitare – e che secondo me costituisce un problema ogni volta che si scrive di cultura araba, sia che a farlo sia il Guardian, o Akhbar – è che sia sempre, costantemente, il messaggio politico ad essere recensito. Mai il valore artistico dell’opera. È come se, dato che sei un arabo, non hai diritto di fare arte. Solo di esprimere dichiarazioni di carattere politico. Puoi solo essere una vittima. Tipo che esce l’album di un tizio, o di una ragazza, ed è sempre ‘Oh questo è un rifugiato, oppure, questa ragazza è vittima di un certo tipo di oppressione invece di un’altra’. Senza porre alcuna reale attenzione all’opera d’arte in sé. Secondo me, questo è deleterio. Il messaggio lanciato ai giovani musicisti, o ai giovani artisti, è che non serve preoccuparsi della qualità dell’opera, basta dire le cose giuste.”[2].
Abu Taleb ha conseguito un master in Filosofia e Teoria della Critica Contemporanea, attualmente risiede a Londra. Kullu-l-Ma‘ārik è il suo primo romanzo, pubblicato dopo un workshop condotto dalla famosa scrittrice libanese Najwa Barakat e finanziato dall’Arab Fund for Arts and Culture [3].
[1] http://ma3azef.com/author/ma3n/
[2] https://noisey.vice.com/en_us/article/434x8n/ma3azef-brings-the-arab-worlds-new-music-to-the-whole-planet
[3] https://www.thenational.ae/arts-culture/books/book-review-ma-n-abu-taleb-s-all-the-battles-is-a-hard-hitting-metaphor-for-life-1.660884
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