Sarmada: la Siria tra trasgressione e repressione nel romanzo di FādīʽAzzām

  Recensione di Federica Pistono

Aleppo – courtesy of cleopatrarogers

  FādīʽAzzām, figlio del noto scrittore Mamdūḥ ʽAzzām, da al-Suwaydā’ si è trasferito, nel 2001, a Dubai, città in cui lavora come sceneggiatore e curatore di cartoni animati. 

  Il suo romanzo Sarmadah, edito nel 2011, si è classificato per l’IPAF nel 2012 ed è stato tradotto in italiano con il titolo Sarmada (Cicorivolta Edizioni, 2013, traduzione di F.Pistono).

 Sarmada è il nome di una cittadina arroccata sulle montagne nel sud della Siria, in cui la maggioranza della popolazione appartiene, come l’autore, alla comunità drusa.  La cittadina, poco più di un villaggio, dà il titolo all’opera e ne è l’assoluta protagonista. Il suo nome deriva da una radice araba che rimanda al concetto di eternità. L’autore ne ripercorre la storia, che prende l’avvio negli anni Sessanta con l’avvento del partito Baʽṯ al potere e si conclude nel 2010, alla vigilia dello scoppio della rivoluzione siriana.

  Attraverso le vicende di tre personaggi femminili, tre donne druse di Sarmada, l’autore ricostruisce cinquant’anni di storia della cittadina, descrivendo eventi e riti quotidiani della comunità drusa ma anche gli effetti che mezzo secolo di dittatura produce sul polveroso paese che sembra sonnecchiare attraverso i secoli. Il romanzo, pur non essendo rivolto a rappresentare un evento particolare della recente storia siriana, rappresenta tuttavia un grande affresco che riproduce tutte le fasi storiche attraversate negli ultimi decenni dalla Siria.

  La vicenda si apre nel 2010 con l’incontro casuale a Parigi di Rāfī ʽAzmī, un regista siriano, con ʽAzzah Tawfīq, una docente di fisica quantistica all’Università della Sorbona. La donna, libanese di confessione drusa, rivela a Rāfī di essere la reincarnazione di Hīlah Mansūr, una donna di Sarmada assassinata nel 1968 dai propri fratelli per aver sposato un uomo estraneo alla comunità drusa.ʽAzzah prega Rāfī di recarsi a Sarmada per raccogliere informazioni sull’antico delitto che la ossessiona. Il lettore viene così introdotto nell’universo dei riti e delle credenze dei drusi, con particolare riferimento a uno dei pilastri della loro dottrina, la trasmigrazione delle anime. 

  Rāfī torna a Sarmadah, indaga sull’omicidio di Hīlah Mansūr, trovando la conferma della storia di ʽAzzah nei racconti degli abitanti più anziani della cittadina, che ricordano ancora la vicenda di Hīlah, del suo amore senza speranza e del suo assassinio selvaggio. Sgozzando la giovane donna, fuggita con uno straniero poi sposato a Damasco e tornata volontariamente a Sarmada per affrontare il proprio destino, i fratelli hanno voluto lavare il proprio onore, macchiato dal matrimonio della sorella che, sposando un non druso, aveva infranto uno dei principali tabù della comunità di appartenenza.   

  Stregato dall’atmosfera di Sarmada, come sospesa e immobile nel tempo, Rāfī ricostruisce la storia del secondo personaggio femminile del romanzo, Farīdah, una giovane bellissima che resta vedova nel giorno delle nozze a causa di una pallottola vagante che, sparata per errore da un invitato alla festa nuziale, uccide lo sposo. La sfortuna si accanisce su Farīdah con la perdita tragica, alla vigilia del secondo matrimonio, anche di un nuovo sposo. Circondata dalla fama di strega e iettatrice, la giovane viene isolata dalla comunità. Oppressa dalla solitudine e dalla tristezza, scivola in una sorta di ossessione erotica che la spinge a sedurre tutti gli adolescenti del paese. Rimasta incinta in seguito alle numerose avventure con i giovani e i giovanissimi della cittadina, Farīdah seduce un ingenuo maestro di scuola, convincendolo così di essere il padre del nascituro e inducendolo a sposarla.  Con il matrimonio e la maternità, la donna cambia vita, si dedica alla famiglia e al figlio Bulḫayr, ma la sfortuna continua a perseguitarla e il marito cade durante la guerra di Ottobre del 1973. Quando il bambino cresce, scopre i trascorsi burrascosi della madre e i rapporti tra madre e figlio diventano difficili ed estremamente tesi. Farīdah trascorre sola e ritirata in se stessa gli anni della maturità e della vecchiaia.  

  Buṯaynah, cognata di Farīdah, terzo personaggio femminile del romanzo, è, fin dalla giovinezza, segnata dalla malasorte: orfana di padre, perde tragicamente i fratelli, quindi la madre. Anche il fidanzato, emigrato in America in cerca di fortuna, la abbandona. Dopo anni di isolamento e di attesa spasmodica del ritorno del fidanzato, qualcosa si inceppa nella mente della donna che seduce Bulḫayr, il bambino di Farīdah, che ha soltanto sei anni. Questa vicenda segna il ragazzo per sempre. Dopo dieci anni di matrimonio sterile e infelice negli Emirati Arabi, Buṯaynah torna a Sarmada, dove riprende la relazione con Bulḫayr, ormai sedicenne. Per sfuggire alla donna, al passato vergognoso della madre e all’atmosfera stagnante di Sarmada, il giovane fugge a Damasco per non tornare più, mentre Buṯaynah conclude con il suicidio la propria vita.

  Il romanzo tratta diversi temi: la memoria, la convinzione della ciclicità della vita umana e della trasmigrazione delle anime, il sesso, vissuto anche come pedofilia e perversione, la ricostruzione della recente storia siriana dominata da un regime autoritario.

  La memoria è quella collettiva della cittadina di Sarmada, una comunità che non dimentica nulla, che anzi è sempre pronta a narrare le sue storie, sia pure filtrate attraverso i ricordi e arricchite dalla fantasia popolare. A raccontare sono soprattutto gli anziani, depositari dei segreti della comunità, ma i giovani sono avidi di ascoltare, di sapere, per poter tramandare i racconti alle generazioni successive. Si tratta di una narrazione corale, una voce circolare che lega il passato al presente, il presente al futuro, i morti ai vivi e a coloro che devono ancora nascere. 

  Anche in quest’opera, c’è un oggetto che funge da ponte tra le generazioni, da collegamento tra passato, presente e futuro: un campanellino d’argento che Hīlah, la giovane donna assassinata dai fratelli, seppellisce, prima di essere uccisa, ai piedi di un albero di gelso nel giardino della sua vecchia casa. Il campanello, che Hīlah era solita mettere al collo della sua mucca da bambina, viene ritrovato durante le indagini di Rāfī sul delitto e torna al collo di una mucca del paese, dopo essere stato sepolto nella terra per più di quarant’anni. 

  La convinzione che i destini umani siano votati a ripetersi ciclicamente è legata alla credenza drusa della trasmigrazione delle anime. L’anima di un druso è destinata a reincarnarsi in un altro druso. Questa convinzione spiega forse il fatalismo degli abitanti di Sarmada, che non attribuiscono particolare importanza alla vita del singolo individuo, giacché è destinata a ripetersi.

  Il sesso rappresenta una delle tematiche centrali del romanzo. Non viene mai presentato direttamente, ma è sempre proposto attraverso la memoria, il ricordo della trasgressione. Raramente si tratta di una sessualità felice, vissuta serenamente nell’ambito di un rapporto articolato su più dimensioni, oltre quella erotica, tanto meno di una sessualità inquadrata in una relazione amorosa. Il sesso, per i personaggi del romanzo, è quasi sempre trasgressione, dettata da desideri carnali tanto infuocati quanto incontenibili. Per questo, le scene di sesso raffigurate nell’opera sono spesso crude, brutali. In due casi il sesso assume i connotati della perversione, della pedofilia: nel caso di Farīdah che, in una fase della sua vita, predilige l’iniziazione erotica degli adolescenti, e nel caso più grave di

Buṯaynah. Quest’ultimo personaggio si spinge infatti a sfogare i propri appetiti malsani su un bambino di sei anni, con il quale inizia e porta avanti una relazione che si inquadra decisamente nell’ambito della pedofilia. Dei tre personaggi femminili del romanzo, Hīlah è l’unica a vivere la sessualità nell’ambito di una normale passione amorosa, anche se anche questo personaggio, per poter vivere il proprio amore e soddisfare le proprie pulsioni sessuali, deve infrangere una delle regole fondamentali che informano la comunità drusa, ossia il divieto del matrimonio con persone estranee alla comunità.   Il sesso dunque è sempre presentato come atto trasgressivo, per il quale la colpevole deve pagare il fio. Per Hīlah, il prezzo è rappresentato da una morte atroce, una sorta di esecuzione pubblica per mano dei suoi stessi fratelli, davanti all’intera popolazione della cittadina, che assiste attonita al sanguinoso crimine senza muovere un dito. Per Farīdah, la punizione consiste nella perdita dell’adorato figlio che l’abbandona per sempre e nella solitudine dolorosa della maturità e della vecchiaia. Per Buṯaynah, infine, la vita è sofferenza dal principio alla fine: abbandonata dal primo fidanzato, ingannata dal marito negli Emirati Arabi, abbandonata da Bulḫayr, conclude, ancora giovane, la sua esistenza in modo drammatico.

  Si potrebbe ricavare l’impressione, a una lettura superficiale, che, in questo testo, siano soltanto le donne a pagare per gli errori propri e altrui. Non è così: anche i personaggi maschili soffrono e pagano lo scotto che la vita presenta. I cinque fratelli di Hīlah Mansūr, dopo aver assassinato la sorella, perdono per sempre la pace, andando «incontro, uno dopo l’altro, ciascuno alla propria personale rovina»[1]. Uno dei fratelli muore combattendo durante la guerra del 1973, altri due si ritirano per il resto della vita in un monastero druso per espiare il delitto, il quarto emigra in Colombia senza ritrovare la pace, il maggiore, Nawwāf, responsabile di aver istigato i fratelli minori a compiere il crimine, impazzisce e, nelle notti di luna piena, finisce per piangere sotto l’albero di gelso, invocando il nome della sorella e il suo perdono. Anche Bulḫayr, figlio di Farīdah e amante di Buṯaynah, trascina a Damasco una vita solitaria e infelice, per tornare a Sarmadah, tardivamente pentito della propria crudeltà, soltanto in occasione del funerale della madre.  

  Il dolore, la sfortuna, la solitudine non sono, dunque, nella concezione dell’autore, appannaggio del genere femminile ma parte integrante della condizione umana.  

  Il tema dei rapporti tra individui appartenenti a comunità religiose diverse ha una sua importanza nel romanzo: la comunità principale di Sarmadah è, come già detto, quella drusa, con il suo retaggio di credenze sulla metempsicosi e di rigide regole di comportamento. Ma è interessante notare come nella cittadina convivano, felicemente e pacificamente, i fedeli di tre religioni. A Sarmada vivono, infatti, numerose famiglie cristiane e islamiche, senza che le differenze religiose incrinino minimamente il clima di serenità e di solidarietà che regna nella piccola città. Questa pacifica e tollerante convivenza di religioni diverse è stata, nel passato, una caratteristica peculiare della Siria. 

  Fondamentale è l’opera di ricostruzione storica effettuata da ʽAzzām: sullo sfondo delle vicende dei protagonisti, scorrono le sequenze della storia siriana del cinquantennio compreso tra l’ascesa del partito Baʽṯ e la vigilia della rivoluzione siriana. Il matrimonio di Farīdah con il primo marito, come pure la storia di Hīlah, si collocano all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, la Naksah dei palestinesi, ma sconfitta bruciante anche per i siriani:

 «Due anni dopo la Guerra dei Sei Giorni, il paese soffriva ancora per la sconfitta. Un terribile senso di vuoto incombeva sulla cittadina, sui suoi abitanti, sugli alberi e sulle pietre, avvolgendoli in un silenzio pesante»[2].

  Due personaggi del romanzo trovano la morte combattendo nella Guerra di Ottobre del 1973: uno dei fratelli di Hīlah e il secondo marito di Farīdah, padre putativo di Bulḫayr. Un compagno di scuola del ragazzo trova la morte in Libano, durante l’attacco israeliano del 2006. Non mancano frequenti riferimenti al periodo della dominazione ottomana, a quello del Mandato Francese, alla guerra di indipendenza. 

  Uno degli aspetti più interessanti dell’opera consiste nella sua impostazione duramente critica nei confronti del regime siriano. Sarmada è descritta come una cittadina immobile e sonnolenta, ma gli effetti del sistema autoritario non tardano a farsi sentire. 

  Quando Hīlah Mansūr e suo marito, l’algerino Azāday, tentano di attraversare il confine siriano per andare a stabilirsi in Algeria, non riescono mai a varcare la frontiera. Ci provano cercando di arrivare in Libano, in Turchia, in Iraq, ma i notabili drusi, su richiesta dei fratelli della ragazza, hanno diramato la notizia secondo cui il giovane sarebbe un pericoloso criminale e la coppia non solo non viene lasciata passare, ma diventa facile bersaglio di ricatti e minacce di denuncia. Dopo anni di vagabondaggi e di inutili tentativi di lasciare la Sira, Hīlah matura la decisione di tornare a Sarmadah per consegnarsi alla vendetta dei fratelli.  La longa manus del regime impedisce di fatto ai due giovani di trovare salvezza e serenità in Algeria.

  L’autore fa intendere al lettore come la comunità drusa vanti importanti amicizie presso il governo baathista, e che l’inimicizia dei potenti abbia reso impossibile la fuga dei due sposi. La critica al regime, velatamente presente in tutto il romanzo, risulta più marcata in alcuni passi dell’opera, come accade nelle pagine venate di sarcasmo che descrivono il mondo della scuola. Il preside della scuola elementare e media di Sarmada, dirigente della sezione locale del partito Baʽṯ, è un personaggio ossessionato dalle proprie convinzioni politiche, uno psicopatico che odia i bambini e i ragazzi e che non perde occasione per picchiarli, torturarli e umiliarli come se fossero criminali di guerra:    «Il preside voleva piantare il seme della lealtà al partito e al Leader-Nostro-Padre in quelle piccole menti e infieriva sui bambini che non riuscivano a muoversi in modo marziale o non sapevano ripetere gli slogan che glorificavano il Possente Baath»[3]

  Sospettoso e diffidente, il preside trasforma la pacifica cittadina in un covo di spie. Alle riunioni settimanali nella sede del partito, è solito ripetere: 

  «Il Baath viene per primo, nessuno pensi che esista qualcosa di più importante del Baath. Il Baath è più importante di Dio stesso[4]

  Nella scuola di Sarmada, frequentata dal piccolo Bulḫayr e dal suo amico Fayyāḍ, è presente un altro insegnante, il professor Ḫalīl. Questi è in realtà un dissidente comunista, uno di quelli che il regime non è riuscito a piegare e a ricondurre all’obbedienza. Privato della cattedra a Damasco, è stato relegato, come punizione della sua dissidenza, a insegnare nella scuola elementare di Sarmadah.

Amareggiato e incattivito, il professore divide il suo tempo tra l’insegnamento agli odiati scolari, che lo trasformano nell’oggetto dei loro sberleffi, e la composizione di poesie scritte nello stile del realismo socialista, copiato dagli autori di Mosca e dell’area sovietica. 

  Con la persecuzione dei militanti comunisti, gli esponenti del regime di al-Asad «avevano ridotto la cultura a un unico colore e a un’unica forma, soprattutto dopo la morte, l’imprigionamento o l’esilio dei comunisti che avevano rifiutato di svendersi a un prezzo tanto basso. Di questi non ne erano rimasti che un pugno, tutti amici del professor Khalil»[5]. Ma anche Ḫalīl alla fine ha il suo prezzo. La gretta cultura di regime ha bisogno di qualche esponente della regione delle montagne del sud, per poter dimostrare di essere anti-settaria e pluralista. E così, il professor Ḫalīl viene riabilitato, addirittura trasformato nel “Neruda di Siria”.  

  La descrizione minuziosa dello stato della cultura siriana all’epoca del regime di Ḥāfiẕ al-Asad, del subdolo infiltrarsi del potere in ogni scuola o istituzione culturale per assumere il controllo degli intellettuali e ridurli all’asservimento, fanno di questo romanzo una delle opere siriane più critiche nei confronti della cancellazione della libertà di parola e di pensiero operata dal governo della famiglia al-Asad.  A tale proposito, osserva l’attivista e giornalista siriano Robin Yassin-Kassab: 

  Azzam’s criticism of dictatorship is scathingly precise. There’s a devastating portrait of a Baathist faux intellectual: a child-hating headmaster who arranges to have a boy tortured. Sarmada is, indirectly, am early novel of the contemporary Arab revolutions.  Liberty, Azzam hints, must break out as surely as smothered sexuality[6].

  Per quanto riguarda l’impianto narrativo, un’osservazione si impone: mentre la vicenda di Hīlah Mansūr è raccontata in una prospettiva assolutamente realista, in uno stile sobrio e contenuto, nella seconda parte del romanzo la trama si scioglie, diviene surreale e bizzarra, con un intrecciarsi continuo di storie diverse che intersecano la vicenda principale, in uno stile fiorito e fantasioso che riflette l’originalità della trama. Nella prima parte, appare evidente l’influsso di Cronaca di una morte annunciata di Gabriel Garcia Marquez. Come i fratelli di Angela nel romanzo di Marquez dichiarano apertamente di voler compiere il delitto nella speranza che si verifichino circostanze che impediscano l’omicidio, così i fratelli Mansūr si sentono costretti a “giustiziare” la sorella, pur non desiderando affatto macchiarsi del crimine. Tanto i personaggi dell’opera colombiana quanto quelli di quella siriana provano ripugnanza nei confronti di un atto di barbara violenza che non appartiene alla loro natura. In ambedue i romanzi, nonostante il fatto che la popolazione sia al corrente delle intenzioni omicide dei fratelli, nessuno fa nulla per impedire il crimine e si innesca una serie di coincidenze che rendono ineluttabile il tragico epilogo della vicenda. Nelle due opere, i fratelli assassini hanno un carattere mansueto ma, al momento di commettere l’atto efferato, rivelano una natura nascosta, sanguinaria e violenta.


[1] F. ʻAzzam, Sarmada, Cicorivolta Edizioni, 2013, p. 67.

[2] Ivi, p. 65.

[3] Ivi, p. 187.

[4] Ivi, p. 189.

[5] Ivi, p. 190.

[6] R. Yassin Kassab, Sarmada, by Fadi Azzam, trans. Adam Talib, in “Indipendent”, Friday 9 December 2011. 

Una risposta a “Sarmada: la Siria tra trasgressione e repressione nel romanzo di FādīʽAzzām”

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