Articolo Siria di Federica Pistono


Nata nel 1966 ad Aleppo da famiglia curda, dopo la laurea in Giurisprudenza, Mahā Ḥasan si dedica all’attività di scrittrice e giornalista.
Influenzata dalla lettura di Nietzsche, di Hegel e di Marx, scrive i suoi primi romanzi tra il 1995 e il 2000.
«I Curdi amano Nietzsche», dichiara la scrittrice in un’intervista, «considerano Zarathustra il loro padre spirituale»[1]. In seguito, la Ḥasan scopre Sartre e il pensiero esistenzialista, da cui è profondamente influenzata.
I suoi primi romanzi, fra i quali figura Lawhat al-ġilāf (Tela di copertura, 2002) incappano nei rigori della censura siriana, che pone il veto alle sue successive pubblicazioni per aver “oltraggiato la morale” nelle sue opere. Nel 2004, in seguito alla sanguinosa rivolta curda, l’autrice lascia la Siria e si stabilisce a Parigi, dove tuttora vive. Nel 2005, Human Rights Watch la sceglie per il Premio Hellmam-Hammett, destinato agli scrittori perseguitati. Tra il 2007 e il 2008 vive ad Amsterdam, nell’appartamento restaurato di Anna Frank, su invito dell’Amsterdam Vluchstad.
Nella produzione letteraria anteriore allo scoppio della rivoluzione siriana, vanno enucleandosi le tematiche fondamentali attorno alle quali prendono corpo i romanzi di questa fase, che si colloca nel periodo storico immediatamente precedente all’esordio rivoluzionario: la condizione femminile in
Siria, il confronto tra Oriente e Occidente, la problematica del delitto d’onore, l’appartenenza all’identità curda.
Nel romanzo Ḥabl surrī (Cordone ombelicale, 2010)[2], selezionato nella long list dell’IPAF del 2011, l’autrice mette a confronto la vita in Siria e quella in Francia attraverso le esperienze di una madre e di una figlia. Dopo aver stabilito di tornare in Siria per sposarsi, la protagonista più giovane decide di rientrare in Francia per poter godere di quei diritti civili fondamentali che in patria le sono negati. L’opera, caratterizzata da uno stile lineare e scorrevole e da un lessico ricco ma sobrio, ruota attorno alla problematica del confronto tra Oriente e Occidente, ricordando, per la tematica proposta, i romanzi Mawsim al-hiğrah ilā al-šamāl (La stagione della migrazione a nord) di Ṭaiyyb al-Ṣāliḥ e al-Ḥayy al-lātīnī (Il quartiere latino) di Suhayl Idrīs. Il viaggio iniziatico compiuto dalla protagonista
Sūfyā Birān in Occidente e quello compiuto in senso inverso da sua figlia fanno di quest’opera un romanzo di formazione al femminile.
L’opera successiva, il romanzo Banāt al barārī (Le ragazze delle terre selvatiche, 2011)[3], è incentrato sulla questione femminile in Siria e sull’appartenenza all’identità curda.
L’autrice dedica il romanzo a una giovane studentessa drusa, Ḥudā Abū Aṣlī, assassinata dalla propria famiglia per lavare la colpa, commessa dalla ragazza, di aver sposato un musulmano, infrangendo così il divieto imposto ai Drusi di sposare persone estranee alla propria comunità.
Argomento centrale dell’opera è il delitto d’onore nella società siriana.
Secondo Martina Censi, il corpo assume nell’opera un ruolo fondamentale come luogo metaforico della lotta dell’individuo per affermare la propria identità in una società segnata da costumi e tradizioni ancestrali[4]. Il corpo si presenta così come il luogo della mediazione tra le istanze individuali e quelle sociali.
L’autrice si serve della tematica del delitto d’onore per rappresentare l’oppressione sociale cui sono sottoposte non soltanto le donne, ma con cui vengono vessati anche gli uomini.
Uno degli aspetti più interessanti del romanzo consiste nel ricorso al registro fantastico per narrare un fenomeno crudo e drammatico come quello del delitto d’onore.
Il romanzo al-Rāwiyyāt (Le cantastorie, 2014) [5]si classifica nella long list dell’IPAF del 2015: si tratta di una storia raccontata da due voci femminili, il monologo interiore di un’autrice che scrive un romanzo, intrecciato alla voce del personaggio che sta creando. Nella narrazione, immaginazione e realtà si fondono, approfondendo il tema della scrittura come esperienza di scavo interiore e forza liberatrice al tempo stesso.
Dopo l’inizio della rivoluzione siriana, si inaugura una nuova fase nella scrittura di Mahā Ḥasan, annunciata dal romanzo Ṭubbūl al-ḥubb (I tamburi dell’amore, 2013)[6], proseguita con il romanzo successivo, Mitrū Ḥalab (La metropolitana di Aleppo, 2016)[7]. La prima opera è tradotta in italiano come: Maha Hassan, I tamburi dell’amore, Alberobello, Poiesis Editrice, 2018, traduzione di F. Pistono, la seconda come: Maha Hassan, Metro per Aleppo, Alberobello, Poiesis Editrice, 2020, traduzione di F. Pistono.
La scrittrice abbandona i temi che le sono cari per focalizzare totalmente l’attenzione sugli avvenimenti che sconvolgono il paese, per affrontare le tematiche della rivoluzione siriana, al cui esordio dedica Ṭabbūl al-ḥubb, della guerra civile e dell’esilio, argomenti centrali di Mitrū Ḥalab. Come accade anche per Samar Yazbik, di fronte alla tragedia che si abbatte sulla Siria, la scrittrice si fa portavoce delle istanze e delle sofferenze di un popolo martoriato dalla dittatura prima, dalla guerra poi.
Il romanzo Ṭubbūl al-ḥubb è una delle prime opere letterarie siriane incentrate sulla rivoluzione e sulla prima fase della guerra civile che investe il paese. La narrazione si colloca negli anni 2010-
2012, ripercorrendo tanto gli avvenimenti storici riferiti al periodo trattato quanto l’itinerario personale, spirituale e materiale della protagonista, Rīmā Ḫūrī, un’intellettuale siriana trasferitasi da una ventina d’anni a Parigi.
All’inizio del romanzo, la protagonista, che insegna alla Sorbona ed è attiva anche come traduttrice di letteratura francese in arabo, ha quasi rimosso i suoi ricordi della Siria e della famiglia di origine, con cui ha interrotto i rapporti da vent’anni a causa di un dissidio con il padre.
Nel 2010, alla vigilia della rivoluzione, la protagonista, incuriosita dal fenomeno dei social network e della loro ricaduta sulla vita e sul modo di pensare dei singoli individui, si crea un profilo Facebook ed entra così in contatto con un avvocato siriano, Yūsuf Sulaymān. Questi vive nella cittadina di Kafr Nabil, luogo di origine dei primi innamorati di Rīmā, ai tempi dei suoi studi all’università di Damasco. Rīmā e Yūsuf cominciano a conoscersi e a frequentarsi su Facebook, Messenger e Yahoo, intessendo un’amicizia virtuale che ben presto si trasforma in un amore virtuale. La relazione, che si sviluppa con contatti quotidiani, colma i vuoti affettivi della protagonista, la cui esistenza è totalmente dedita al lavoro da quando ha divorziato dal marito, molti anni addietro.
Il romanzo comincia dunque come una qualsiasi storia d’amore dei nostri tempi, senza alcun rapporto con la politica. Anzi, nella prima parte dell’opera, l’autrice focalizza l’attenzione sull’importanza e sull’impatto delle nuove tecnologie sulla vita delle persone, sugli enormi mutamenti apportati al mondo della comunicazione da internet, da servizi come Facebook e Skype, sulla fruibilità di tali mezzi anche dai telefoni cellulari.
La frequentazione, sia pur virtuale, di Yūsuf, avvicina nuovamente alla Siria la protagonista, che riscopre la patria attraverso i romanzi, i film, le canzoni propostile dal nuovo amico. Yūsuf è anche un noto attivista per la tutela dei diritti umani, un avvocato specializzato nella difesa dei prigionieri politici siriani. Per questa sua attività e per la sua posizione di dissidente, il regime siriano lo ha privato del passaporto e gli impedisce di viaggiare all’estero. Per questo motivo l’uomo non può recarsi a Parigi per conoscere personalmente Rīmā: i due innamorati virtuali decidono così di incontrarsi in Siria nel 2011 ma, nel frattempo, il paese è investito dalla rivoluzione. Yūsuf è coinvolto fin dalla prima ora nelle attività rivoluzionarie, nell’organizzazione delle manifestazioni pacifiche, nella partecipazione ai cortei, avvicinando anche Rīmā alla causa della rivoluzione.
Così la protagonista vive, sia pure attraverso internet, il momento dello scoppio della rivoluzione:
Nella notte del quindici marzo, trascorro con Yussef lunghe ore sul Messenger. È appena tornato da Damasco, dopo un’assenza di tre giorni, in cui è rimasto lontano dal computer e da internet. Ha partecipato a molte riunioni con gli amici, per consultarsi sul modo in cui organizzare le manifestazioni, specialmente quello che è stato definito “il Giorno della rabbia”.
Il giorno seguente, sono all’università con il cuore in tumulto, quando Yussef mi telefona, sperando forse di tranquillizzarmi. La sua voce trema di gioia: «Siamo usciti, Rima, siamo usciti alla luce, i Siriani sono scesi a manifestare per le strade di Damasco».
È la giornata lavorativa più lunga della mia vita, aspetto la fine delle lezioni per andare a casa a sentire le notizie. Apro le pagine del coordinamento e quelle della rivoluzione siriana e mi stupisco della velocità con cui i giovani siriani rispondono a ciò che accade nel mondo[8].
La reazione del regime non tarda a manifestarsi e, in breve, il sogno di libertà e di democrazia dei siriani si trasforma in un incubo. Traumatizzata dalle notizie che giungono dal suo paese, come il bombardamento del quartiere di Bābā ʽAmrū a Ḥumṣ, i fatti di Darʽā, il massacro di Kram al-Zaytūn, la donna comincia a essere perseguitata da incubi notturni:
L’ultimo sogno, o incubo, l’ho avuto dopo un litigio con Yussef, in cui abbiamo discusso di ricorso alle armi e di esercito libero.
Ho chiamato l’incubo con il nome di “La sindrome di Maryam”.
Non so chi sia Maryam, ma mi appare in sogno mentre piange e mi dice: «Zia, voglio la mamma». Con Maryam, una bimba che non dimostra più di cinque anni, esco da una casa diroccata per ritrovarmi davanti ai cadaveri di una famiglia, scannata sulla soglia di casa. Maryam ed io cerchiamo la mamma, la troviamo, maciullata. Maryam piange, l’abbraccio piangendo. Camminiamo un poco, non so dove ci troviamo, non sono mai stata in questo luogo, in seguito ci imbattiamo in altri cadaveri, appartenenti soprattutto a bambini. Camminiamo, Maryam ed io, fra teste mozze, facce stravolte, occhi ciechi, mentre penso alla necessità di seppellire quei poveretti. Maryam mi tira per la mano, piange, continua a ripetere «Voglio la mamma». Sono stupita, sembra che non abbia riconosciuto sua madre pochi minuti fa, o che non voglia credere a ciò che ha visto. Inciampo nella testa di un cadavere, la calpesto, la salma si rizza di fronte a me, grido inorridita: «Mi scusi, non volevo, non volevo». Mi sveglio.
Continuo a vedere in sogno la piccola Maryam. Sono andata da una psicoterapeuta, a Parigi. Ho capito da sola, durante un lungo fluire di pensieri ininterrotti, che Maryam, in qualche modo, è Hamza Bakur, [9]il cui video ho rifiutato di visionare. Le immagini mostrano il suo viso spezzato, mentre lui resta in piedi, prima di morire, sbalordito di non avere che metà della faccia. Ho abbellito i miei incubi, sostituendo Hamza con Maryam40.
Ansiosa di vedere con i propri occhi ciò che accade in Siria, spinta dal desiderio di incontrare Yūsuf, anche se questi nel frattempo ha deciso di impugnare le armi e di entrare nell’esercito libero, in contrasto con gli ideali pacifisti di Rīmā, la protagonista chiede e ottiene un periodo di congedo all’università e parte per la Siria, guidata da un impulso irrefrenabile. Giunta a Damasco, dopo un attimo di esitazione, decide di soggiornare in casa dei genitori, anche se è priva di loro notizie da vent’anni. L’incontro di Rīmā con i genitori, al suo arrivo a Damasco, informa il lettore sul passato della protagonista. Il rapporto con il padre è caratterizzato da un duro contrasto che risale ai tempi della giovinezza della figlia e della sua partenza dalla Siria. Lo scontro tra padre e figlia si ripropone nel presente con le opposte valutazioni sulla rivoluzione siriana.
Nonostante i vent’anni di lontananza, un profondo affetto e una tenerezza discreta legano Rīmā a sua madre, personaggio toccante anche se la sua apparizione è piuttosto breve.
Discutendo della rivoluzione con i genitori, poi con gli zii e i cugini, ma anche con persone incontrate per la prima volta, come per esempio l’autista di un taxi, la protagonista si rende conto poco a poco dell’estrema complessità della situazione, delle divergenze di opinioni che lacerano la società siriana a proposito degli eventi che sconvolgono il paese.
Rīmā vuole assolutamente capire quello che sta accadendo, è fermamente decisa ad ascoltare le opinioni di tutte le parti in causa. Così continua a parlare con la gente, a interrogare parenti e amici, desiderosa di confrontarsi con tutti. Il romanzo diventa a questo punto quasi un reportage, giacché
Rīmā diviene portavoce di posizioni e sentimenti molto diversi nei confronti della rivoluzione.
Grazie al lavoro di indagine che la donna conduce sul campo, motivata dal suo desiderio di conoscere e capire la realtà, il lettore può analizzare un ricco ventaglio di punti di vista: dall’impegno e dall’attivismo della giovane generazione, viva e creativa, affamata di libertà e di giustizia, alle testimonianze di coloro che nella rivoluzione hanno perduto familiari e beni, fino alla diffidenza di quelli che ritengono la rivoluzione priva di un’organizzazione adeguata e al disprezzo degli intellettuali che temono che la caduta del regime possa aprire la porta a un regime islamista, ancor più repressivo dell’attuale.
Da Damasco, Rīmā si sposta ad Aleppo per rivedere alcuni parenti e per incontrare finalmente Yūsuf ma, durante una manifestazione, è colpita alla testa da un cecchino, proprio nell’istante in cui l’uomo le appare in carne e ossa per la prima volta. La protagonista perde conoscenza e muore mentre i titoli dei giornali sui massacri del regime le turbinano nella mente. Con l’ultimo soffio di vita intravede il titolo del romanzo che avrebbe potuto scrivere sull’argomento: Gli intellettuali e il kalashikov, di
Rīmā Bakdāš Ḫūrī.
Come osserva a questo proposito Xavier Luffin, l’incertezza dell’autrice sulle sorti del conflitto, al momento della conclusione del romanzo, è la stessa degli osservatori della crisi siriana: al principio del 2013, il regime di al-Asad non è ancora caduto, e i rapporti di forza all’interno dell’opposizione appaiono ancora fluidi[10].
Il romanzo della Ḥasan rappresenta un testo intermedio tra documentazione e fiction, un tentativo di documentare la rivoluzione espresso in forma letteraria, un’opera in cui l’esigenza di descrivere la realtà storica e politica si fonde con il desiderio di narrare gli eventi in chiave romanzata.
Il testo resta aderente alla realtà e alla cronologia degli avvenimenti, citando diversi episodi-chiave del conflitto: le prime manifestazioni a Damasco, il percorso seguito dal corteo dalla Moschea degli
Omayyadi al sūq al-Ḥamidiyyah, le sollevazioni di Darʽā, il bombardamento di Bābā ʽAmrū.
Questo realismo risulta ulteriormente rafforzato dalla menzione dei nomi di personaggi reali.
Contrariamente ai testi precedenti dell’autrice, il presidente siriano è regolarmente indicato con nome e cognome, così come sono citati i nomi di alcune vittime, note o meno note, di dissidenti, di intellettuali schierati con il regime o contro di esso, così come sono menzionate, mediante l’inserimento di note, le fonti giornalistiche, come il quotidiano francese Le Monde o il quotidiano arabo Al-Ḥayyāt. Se l’impianto dell’opera appare realistico nel mantenersi aderente alla realtà, largo spazio è lasciato dall’autrice all’immaginazione, evidente soprattutto nelle scene che descrivono i sogni e gli incubi della protagonista. Le immagini oniriche diventano sempre più spaventose e drammatiche con l’inasprirsi del conflitto, quando l’angoscia del personaggio per le sorti del proprio paese e delle persone amate si gonfia a dismisura:
Ogni notte, dopo aver contato gli uccisi al mattino, mi rifiuto di andare a dormire e mi occupo delle anime dei morti, accingendomi a partire con loro in un viaggio verso un mondo più bello. So che verranno a rimproverarmi, coperti di sangue, trascinando le membra straziate. Getteranno i loro sogni infranti sotto il mio cuscino, mi parleranno fino a svegliarmi. Gemendo per il dolore del trapasso, mi affideranno la custodia delle macerie delle loro case, dei vasi di fiori, delle piante e degli alberi, della biancheria, mi descriveranno particolari tremendi che mi impediranno, sia pure per un attimo, di ingannarli con un sonno profondo, giacché ripeterò le loro parole…So di aver sviluppato quasi una mania nei loro confronti, un’ossessione di conoscere i loro dati personali, i loro desideri, i loro ricordi… Come se fossi stata creata appositamente per raccontare i frammenti di quelle vite. Ho il diritto di seguirli durante il sonno, di osservarli attraverso gli schermi del mondo, come la televisione e internet?[11]
Con il passare del tempo e il deteriorarsi ulteriore della situazione, gli incubi diventano insopportabili:
Vedo una bottiglia enorme colma di esseri umani, piccoli come ceci o lenticchie. Qualcuno capovolge la bottiglia, gli esseri umani perdono l’equilibrio urtandosi a vicenda, come accade durante gli incidenti, quando la gente è coinvolta in un incendio o in un naufragio. Tutti si accalcano verso il collo della bottiglia, vedo quelle persone, sono consapevole in sogno che si tratta di siriani. Tutti spingono, strillano, urlano, li sento gridare “Vogliamo scacciarti, Bashar, lo vogliamo con tutte le nostre forze”. Svegliandomi, ricordo questa canzone ripetuta all’infinito, le grida che si sovrappongono, da “La Siria vuole la libertà” a “Dio protegga l’esercito libero…” Inaspettatamente, la bottiglia trasparente si riempie di sangue, i dimostranti affogano nel sangue, dibattendosi per uscire. All’improvviso, il tappo salta, espellendo i manifestanti. Alcuni guadagnano il collo della bottiglia, riescono a uscire all’esterno, ma qualcuno gli spara addosso.
Cadaveri all’esterno della bottiglia, cadaveri che galleggiano nel sangue all’interno. Mi sveglio con un urlo di orrore43.
Il racconto degli incubi di Rīmā, dopo l’inizio della rivoluzione, attribuisce un aspetto particolare alla narrazione: la protagonista vive nella sua carne le torture e le atrocità commesse dal regime contro il popolo. I suoi incubi, densi e profondi, sono descritti con grande forza narrativa. Sono immagini che parlano intensamente, attraverso le quali il lettore avverte come il cuore del personaggio sia abitato dalla morte e dalle sofferenze dei suoi compatrioti.
Il romanzo conduce il lettore al cuore della rivoluzione siriana con grande sensibilità, unita alla semplicità con cui l’autrice descrive scene di amicizia e di complicità tra i personaggi. La scrittrice dipinge molti quadri di vita quotidiana siriana, presentando al lettore soprattutto i momenti di convivialità e di empatia tra i personaggi: attraverso le pagine del libro il lettore ha l’impressione di percepire i profumi dei piatti e l’aroma del caffè.
La complessità del mosaico etnico e confessionale della Siria, quella stessa complessità utilizzata dal regime di Damasco per consolidare il proprio potere, quella stessa che fa presagire ad alcuni personaggi le possibili insidie islamiste di un eventuale dopo-Asad, è ampiamente rappresentata nel romanzo. La stessa protagonista è nata da un matrimonio interconfessionale, figlia di un padre musulmano e di una madre cristiana. Rīmā, pur non sentendosi fino in fondo né cristiana né musulmana, prega a volte in chiesa secondo il rito cristiano, a volte in moschea secondo il rito islamico, possiede una copia del Corano e una del Vangelo, anche se non dedica molto tempo alle letture di carattere religioso. Tuttavia, la sua situazione familiare non le ha impedito, in passato, molto prima dello scoppio della rivoluzione del 2011, di confrontarsi con il fenomeno dell’intolleranza religiosa. Intollerante è infatti suo marito, Antoine, un fanatico cristiano che non perde mai occasione di rinfacciarle l’appartenenza e la cultura islamica del padre, come pure intollerante è lo Stato siriano che rifiuta di registrare il matrimonio tra un cristiano e una musulmana, costringendo i due sposi a trasferirsi all’estero.
Ma, con la rivoluzione, la tensione interconfessionale si inasprisce: il padre informa Rīmā del fatto che alla madre, in quanto cristiana, è stata negata dai ribelli l’autorizzazione a oltrepassare un posto di blocco per recarsi a Ṭarṭūs, così come le racconta che le donne cristiane che partecipano alle manifestazioni vengono obbligate a indossare il velo. Informazioni contrastanti le giungono invece tanto da Yūsuf quanto da Ḥusayn, uno scrittore dissidente, e dalla sua amica Yūsrā. Quest’ultima le racconta che, durante una manifestazione, sono stati proprio gli islamisti barbuti a proteggere le dimostranti non velate dagli attacchi degli Šabbīḥ, i famigerati miliziani del regime.
Alle divisioni religiose vengono ad aggiungersi quelle etniche, in particolare nel caso dei curdi, alla cui comunità appartiene l’autrice. Rīmā scambia opinioni con diversi curdi, un autista di taxi a
Damasco, due conoscenti ad Aleppo. Perfino il primo amore di Rīmā, mai dimenticato, è un curdo.
Tutti le rammentano le ingiustizie e le vessazioni subite dai curdi di Siria.
Altra tematica portante del romanzo è quella del conflitto generazionale, ulteriormente esacerbato dalla diversità di vedute riguardo alla rivoluzione. Un profondo fossato sembra infatti separare la narratrice dal padre, che alla rivoluzione dichiara di preferire il regime che, pur criminale, gli appare migliore di un possibile governo islamista:
Rima, tesoro, non pensare che sia schierato con il regime…Per tutta la vita la repressione mi ha fatto soffrire.
Guardami, ho settant’anni passati, ancora rabbrividisco di paura per te e per noi, per tua madre e per me…Lo so che il regime è criminale, lo sai quello che ha fatto ai genitori del musicista Malek al-Jandali. Purtroppo però l’alternativa non sarebbe migliore, figliola. Questa gente, giovani, donne, bambini, non può morire perché arrivi un attacco ancora più pericoloso…Sei cresciuta, Rima, ma sei ancora emotiva e sentimentale. Se il regime cadesse, la cosa non finirebbe qui…Il Paese precipiterebbe in una guerra civile che durerebbe anni, perché l’alternativa al regime sarebbero l’odio e sua figlia, la vendetta privata, non l’alternativa della coscienza civile, della cultura, della civiltà…Parlo per la mia esperienza scientifica e anche per quella che mi viene dall’età, non parlo sull’onda dell’emozione e del coinvolgimento emotivo, come fai tu. Accusi la mia generazione, incolpi Adonis, per esempio. Rima, noi vediamo le cose con l’occhio al futuro, voi vedete soltanto il presente[12].
Tutte le divergenze che lacerano la famiglia di Rīmā si ripropongono, su più larga scala, all’interno della società siriana, composta di donne e di uomini di confessioni, età e opinioni differenti: suo padre, musulmano laico, disprezza il regime ma teme ancor più la rivoluzione; sua madre, cristiana, è felice di fronte alla rivolta dei giovani ma è oppressa dall’angoscia e dal rimpianto assistendo alla morte di tanti compatrioti; suo zio, pur anziano, sostiene la rivoluzione con il massimo entusiasmo.
Un aspetto interessante del romanzo è costituito dall’analisi del ruolo degli intellettuali nei confronti della rivoluzione, in particolare degli scrittori.
Si osserva, innanzitutto, come il testo sia ricco di riferimenti e richiami alla letteratura mondiale, con citazioni, per esempio, delle opere di Kafka e di Dostoievski, o, ancora, de La fattoria degli animali e di 1984 di Orwell. La narratrice aggiunge che è stata la guerra civile a trasformare il ruolo cui era destinata, quello di insegnante e di traduttrice, in quello di scrittrice. Non è l’unica intellettuale, in Siria, in cui la rivoluzione ha suscitato il bisogno di scrivere. Un giovane cugino le affida, infatti, una chiavetta USB in cui si trova un’opera teatrale, intitolata Processo al presidente, il cui primo capitolo è stato composto dal giovanissimo autore, studente universitario, mentre si trovava in carcere, imprigionato per aver partecipato a una manifestazione.
L’aspetto più originale di questi costanti riferimenti letterari consiste nella descrizione del ruolo giocato dagli intellettuali e dagli scrittori siriani nel dibattito sulla rivoluzione e sulla guerra civile. In modo particolare l’autrice si sofferma sulla posizione assunta dal poeta Adūnīs nella prima fase della crisi. Il terzo capitolo del romanzo si intitola infatti Gli intellettuali retrogradi[13] e comincia con un paragrafo dal titolo: Papà somiglia ad Adonis[14]. Si tratta di un esplicito riferimento agli attacchi condotti sulla stampa araba dalla stessa Mahā Ḥasan alle posizioni espresse dal poeta[15].
In effetti, la posizione del padre della protagonista appare molto simile a quella del poeta: come Adūnīs, il personaggio del padre si considera vittima e oppositore del regime, ma teme che gli eventi che rifiuta di definire “rivoluzione” possano favorire l’ascesa di un regime islamista, ancor più oppressivo e repressivo del governo baathista di al-Asad. Delusa, Rīmā si sente tradita dalla generazione più anziana e accusa il poeta così come il padre, nell’ambito di un conflitto generazionale:
«Non credo alle mie orecchie…Che cosa vi è successo? Scommetto che si tratta di una crisi generazionale…Tu, Adonis e gli altri, ci avete insegnato a ribellarci a tutto ciò che è stabile, ci avete educato alla rivolta e al rinnovamento, e oggi venite a difendere il dittatore?»
Interessante il fatto che il padre le risponda con un altro riferimento alla letteratura araba, ricordandole la messa al bando da parte degli islamisti delle opere del celebre scrittore Nağīb Maḥfūẕ. Parallelamente, Mahā Ḥasan sottolinea, in diversi passi del romanzo, il comportamento di altri scrittori, siriani e stranieri, che si sono esposti al pericolo pur di denunciare la brutalità del regime, citando per esempio l’arresto dei poeti Muḥammad Dībū e ʽUmar Idlibī, o ancora il reportage sulla Siria redatto del celebre scrittore Jonathan Littell per il quotidiano francese Le Monde all’inizio del 2012.
Il romanzo si pone dunque sia come una condanna per la repressione della Primavera siriana sia come una riflessione sul futuro del paese, indebolito dalla sua stessa ricchezza culturale e confessionale, e sul ruolo degli intellettuali nelle società arabe contemporanee.
Nel 2016 è pubblicato il romanzo Mitrū Ḥalab, in cui alla tematica portante della guerra e, in particolare, dell’assedio di Aleppo, si interseca la problematica dell’esilio forzato, della struggente nostalgia della patria, della vita dei profughi siriani nelle città europee.
L’opera si sviluppa, infatti, lungo due diverse linee direttrici: da un lato, la scrittrice tratta dell’ultima fase della guerra in Siria, con una focalizzazione precisa sull’assedio e il bombardamento di Aleppo, dall’altro, illustra la condizione dei profughi siriani che hanno perduto tutto e cercano rifugio all’estero. In particolare la protagonista, rifugiata a Parigi, non riesce ad ambientarsi, tormentata dalla nostalgia di Aleppo e da un senso di smarrimento.
Il romanzo si svolge tra Aleppo e Parigi, nel periodo dell’assedio di Aleppo, e racconta la storia di tre donne, Sārah, Amīnah e Hudhud.
Sārah, che ad Aleppo svolgeva la professione di architetto, ha lasciato da due anni la sua città, la sua famiglia e il suo lavoro per trasferirsi a Parigi, su richiesta di Amīnah, una zia ammalata di tumore. Amīnah le aveva infatti scritto, pregandola di raggiungerla, perché sola e malata a Parigi. Trent’anni prima, aveva abbandonato la famiglia per emigrare in Francia e dedicarsi alla carriera di attrice di teatro. Sārah non si trova bene a Parigi, si sente persa e spaesata e vive l’esilio come un trauma: ogni mattina, si sveglia dopo una notte di incubi e descrive le sue esperienze in un quaderno, che chiama “diario di guerra”, quasi per rassicurare se stessa di essere al sicuro, lontana dai bombardamenti che sconvolgono la sua città.
La protagonista vorrebbe tornare a casa ma, dopo la sua partenza per la Francia, lo Stato islamico è arrivato ad Aleppo e la sua famiglia la supplica di restare a Parigi, al sicuro. Ad Aleppo, Sārah ha lasciato il padre Walīd, la madre Hudhud, un fratello, una sorella e tutti gli amici.
Sconvolta da quanto accade nella sua città, Sārah comincia a confondere Parigi con Aleppo. Prende spesso la metro e, osservando la città dai finestrini, le sembra di veder sfilare i quartieri non di Parigi, ma di Aleppo. Il romanzo è pieno di accostamenti tra scorci di Parigi e scorci di Aleppo: nel Sacré Coeur alla giovane sembra di ritrovare la Cittadella di Aleppo, gli Champs Élysées somigliano al quartiere di al-Talāl. Sārah disegna una pianta di una metro che viaggia tra Parigi e Aleppo: la Linea 1, gialla, comincia a Châteaux de Vincennes e termina alla Cittadella di Aleppo; la linea 2, azzurra, parte da Nation per dirigersi a Bab Junīn e al Sūq al-Ḥal; la linea 3, beige, comincia a Gallieni e continua fino a Sayf al-Dawla.
Sempre più spaesata, la protagonista esce spesso di casa, prende la metro, cerca l’uscita seguendo le frecce ma si ritrova su un’altra banchina, identica alla prima, dove sale su un altro treno…
Nel frattempo, Walīd, il padre di Sarah, muore; il fratello Samīr e la sorella Sawsan, con le rispettive famiglie, fuggono dalla Siria, da una città in cui le case crollano e la gente muore ogni giorno, sperando di raggiungere l’Europa, affidandosi a trafficanti di esseri umani che vendono loro passaporti contraffatti. Hudhud, la madre, rimane sola sotto i bombardamenti.
A Parigi, intanto, muore anche la zia Amīnah. Fra le sue cose, Sārah scopre alcune registrazioni vocali che contengono rivelazioni sconvolgenti per lei, svelandole un doloroso segreto familiare.
Nel frattempo, ad Aleppo, la madre della protagonista muore, vittima di un bombardamento.
Rimasta praticamente sola al mondo, Sārah, sconvolta e smarrita, prende la metro. Quando la gente lascia la banchina dopo l’ultima corsa, Sārah siede accanto a un clochard, beve e discute con lui.
Quando l’uomo le domanda quale linea aspetti, la ragazza risponde: “Aspetto la metro per Aleppo…” Questa, in estrema sintesi, la trama del romanzo, che risulta interessante poiché tratta varie tematiche: innanzitutto la sorte della città di Aleppo e l’ultimo periodo della guerra in Siria. In secondo luogo, l’opera tocca il problema dei profughi, costretti a fuggire dalla morte e a consegnare i propri risparmi a trafficanti privi di scrupoli, che spacciano loro documenti falsi con la promessa di condurli in Europa.
Il tema centrale è indubbiamente quello dell’esilio, vissuto in prima persona dalla scrittrice. L’esilio può assumere due forme: l’esilio forzato e straziante di Sārah, colmo di sofferenza e di nostalgia, di un dolore così acuto da farle quasi perdere la ragione e l’esilio voluto, desiderato di Amīnah che, pur di vivere a Parigi e di dedicarsi al teatro, ha abbandonato la famiglia, gli amici, sacrificato la vita della sorella. Importanti i temi dell’amore, dell’amore impossibile di alcuni personaggi, della nostalgia per un tempo passato e un mondo perduto. Centrale il tema della rovina dei cittadini siriani, che, rimasti in patria o emigrati in Europa, si sono ritrovati poveri all’improvviso, senza una casa, senza un lavoro, senza denaro, ridotti alla situazione del clochard in tante città europee.
L’intera struttura narrativa è pervasa dal tema del doppio: due sono le ambientazioni, quella parigina e quella aleppina, due sono i tempi narrativi, il presente e il passato, due sono le madri, due le sorelle che si sono scambiate vita e destino, due sono le coppie, legate alla protagonista, il cui fato si compie nel romanzo.
La protagonista resta sola al mondo, perduta nella solitudine e nel dolore dell’esilio parigino, stretta tra la struggente nostalgia di Aleppo e l’impossibilità di tornare in patria. Di fronte a una pena così acerba e profonda, in grado di estendersi a tanti aspetti dell’emotività, comprendendo il lutto per la perdita dei familiari, il dolore per la devastazione di Aleppo, il senso di vuoto e di straniamento che l’esilio forzato comporta, la mente della protagonista vacilla e si confonde, spingendosi, forse in un patetico tentativo di auto-inganno, a ritrovare nei panorami parigini le immagini perdute di Aleppo. Sotto questo aspetto, questo testo di Mahā Ḥasan si rivela più autobiografico degli altri: come l’autrice stessa ha dichiarato in un’intervista, il personaggio di Sārah le assomiglia, come lei è diventata orfana due volte, dei genitori e della città natale, come lei soffre atrocemente di nostalgia per la sua patria e per la sua vita precedente, come lei è annichilita dalla consapevolezza dell’impossibilità, almeno per i prossimi anni, ma più probabilmente per sempre, di un ritorno in Siria.
La scrittrice non ha più bisogno, in questo romanzo, di imitare la crudezza delle immagini trasmesse da You Tube o di sforzarsi nel superarne con le parole la portata violenta e drammatica. Avendo pienamente recuperato tutta la sua abilità narrativa, l’autrice preferisce ora concentrarsi sui sentimenti più che sul racconto della distruzione e della morte. L’eco dei bombardamenti di Aleppo costituisce indubbiamente il sottofondo dell’opera, ma la Ḥasan preferisce dedicarsi alla descrizione del dramma di Sārah, della sua condizione di esule, di persona giovane e fragile che ha perduto tutto, dagli affetti familiari alla patria, dalla casa al lavoro, dalla sicurezza economica alla stabilità emotiva.
Ciò significa che, ormai, gli scrittori siriani non hanno più bisogno di ricorrere alla descrizione di fiumi di sangue, di corpi umani smembrati, di città ridotte ad ammassi di rovine fumanti per raccontare la tragedia del popolo siriano. La morte, l’esilio, la solitudine, il dolore possono essere nuovamente narrati attraverso la lente della letteratura anziché quella del reportage giornalistico.
[1] Mahā Ḥasan in Katia Ghosn, Maha Hassan, la liberté faite la femme, in L’Orient Littéraire, 2011-08.
[2] M. Ḥasan, Ḥabl surrī, Bayrūt, Ryyiād al Riyyas, 2010.
[3] M. Ḥasan, Banāt al barārī, Bayrūt, Dār al-Kawkab, 2011.
[4] M. Censi, Banāt al-barārī de Mahā Ḥasan, in Le corps dans le roman des écrivaines syriennes contemporaines: Dire, écrire, inscrire la différence, Leida, Brill, 2016.
[5] M. Ḥasan, al-Rāwiyyāt, Bayrūt, Dār al-Tanwīr, 2014.
[6] M. Ḥasan, Ṭabūl al-ḥubb, Bayrūt, Riyāḍ al-Rayyis, 2013.
7 M. Ḥasan, Mitrū Ḥalab,Bayrūt, Riyāḍ al-Rayyis, 2016.
[8] M. Hassan, I tamburi dell’amore, op. cit., p. 27.
[9] Bambino di Baba Amr, a Homs, colpito da una bomba il 6 febbraio: privato della parte inferiore del viso, ha continuato a sanguinare per cinque ore, fino alla morte. (Nota all’interno del romanzo). M. Hassan, I tamburi dell’amore, op. cit., pp. 35-36.
[10] Cfr. X. Luffin, Un an, deux ans plus tard. Le Printemps arabe rattapé par la fiction, in X. Luffin, Printemps arabe et Littérature, Liège, L’Aurore, 2011.
[11] M. Hassan, I tamburi dell’amore, op. cit., p.33. 43 Ivi, p. 35.
[12] Ivi, p. 51.
[13] Ivi, p. 43.
[14] Ibid.
[15] Cfr. X. Luffin, Printemps arabe et littérature: de la réalité à la fiction, de a fiction à la realité, op. cit. 48 M. Hassan, I tamburi dell’amore, op. cit., p. 48.
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