Non c’è acqua che la disseti di Najat ̔ Abd al-Samad

  Estratto dal capitolo I

  Traduzione di Federica Pistono

  Detti della città

  La donna, nella sua vita, va incontro a sette funerali:

  Il primo è l’espressione buia sul volto dei suoi genitori, in giorno in cui nasce femmina.

  Il secondo è il giorno in cui la sua vagina piange il sangue del primo mestruo, e tutti gli altri giorni in cui scorre il suo sangue.

  Il terzo è la notte in cui lo sposo penetra in lei.

  Il quarto è il giorno in cui partorisce un figlio vivo, e tutti i quaranta giorni in cui, dopo il parto, resta aperta la tomba dell’anima.

  Il quinto è lo svezzamento di ogni figlio.

  Il sesto è il giorno della morte del marito, o il giorno del divorzio.

  Il settimo è il funerale ufficiale, dopo che ha reso l’anima a Dio…

                                                       *

  La chiamai Notte della Lampada rossa.

  Non sapevo se il mio stomaco brontolasse per la fame o per la paura. Khalil triturava un grosso boccone di kebbeh fritta, lo sentivo macinare il burghul tra i denti, masticava con una luce soddisfatta negli occhi. Riempiva di vino il bicchiere per vuotarlo subito dopo, mentre le sue dita scartavano nervosamente un pacchetto di sigarette, allo scopo di estrarne una. Gli occhi mi caddero sulla scritta inglese, Pall Mall.

  “Hai letto bene. Queste sono sigarette di contrabbando, merce costosa…”, disse.

  Khalil accese una sigaretta con un accendino straniero dorato, bevve un lungo sorso di vino:

  “Questo vino invece viene dalle viti di casa, è fatto con queste mani”.

  Alzai gli occhi al soffitto, mentre mi balenava in mente l’immagine delle viti, fonti di vino. Sulla nostra testa, vidi solo un’arcata di pietra. Spostai lo sguardo al pavimento della stanza, in cui c’era soltanto il letto che avevo visto in sogno. Mi sollevai a sedere sul materasso imbottito di lana, notando che il vassoio di alluminio non sembrava pulito. Il giorno seguente l’avrei strofinato con un panno ruvido e detersivo Fiore d’ulivo, per farlo brillare come una stella in una notte d’estate. 

  Khalil, ovviamente, non mi offrì neppure un boccone, piccolo o grande. Non allungai la mano verso la kebbeh, né tanto meno verso il bicchiere di vino, né l’avrei mai allungata. Le bevande alcoliche, da noi, sono riservate esclusivamente agli uomini, che le sorseggiano in segreto, protetti dalle mura domestiche, dandosi di nascosto al vizio del bere.

  Per un attimo, ero stata ottimista, illudendomi che Khalil mi offrisse un goccio del suo vino, ma mi resi subito conto del mio abbaglio, quando s’infilò un dito nel naso. Nella bocca spalancata, un dente d’oro luccicò al bagliore delle lancette del suo orologio. Khalil tirò fuori dalla narice il dito, cui era rimasto attaccato un viscido grumo di muco; prese quella pallina e l’appiccicò fra le pieghe del fazzoletto, senza neppure pulirsi le mani.

  Durante la notte della lampada rossa, mi sembrò di dormire o, forse, mi parve di essere una cavia da esperimenti, la cui fotografia avevo visto sulla parete del laboratorio della scuola, un ratto narcotizzato, inerte come un giovane soldato, portato sul campo di battaglia prima ancora di aver completato l’addestramento.

  Il giorno precedente, mia zia mi aveva spiegato alla lettera quello che avrei dovuto fare, per non macchiare il buon nome della nostra famiglia: avrei dovuto sdraiarmi, rilassarmi, aprire le gambe e aspettare. Una volta alzatosi il marito, avrei potuto farlo anch’io. Mia zia si era quindi augurata che il sangue colasse sulla camicia da notte e sul lenzuolo.

  “A quel punto, quando vedrà la macchia rossa, Khalil ti abbraccerà, dicendo: “Auguri!”

  Seguii alla lettera le istruzioni di mia zia, ciò che mi aveva preannunciato si verificò, punto per punto, al lume della lampada, vigile come un terzo occhio, eccetto l’abbraccio e gli auguri.

  Dopo una settimana di matrimonio, Khalil mi chiese di portargli un catino di acqua calda.

  “Portami anche l’asciugamano e inginocchiati”. 

  “No”, gli risposi. Mi schiaffeggiò, stampandomi sul viso l’impronta del palmo e delle cinque dita.  La mano che mi picchiava non rimase a lungo sulla mia bocca.

  Forse quella mano sentì dolore al momento di colpire, forse fu respinta dai fantasmi delle mie antenate. Di certo, non avrei mai pensato di rispondergli: “No”. La mia memoria traboccava di immagini di mia madre, inginocchiata quotidianamente per lavare i piedi di mio padre, anche nei giorni di festa. La mia mente si liberò di quel fardello come un vecchio si libera dall’ira, gettandosi alle spalle il bastone.

  “Ripeti con me, donna: lavare i piedi del marito significa ubbidire a Dio”.

  Ricordavo a memoria i rigidi rituali appresi in casa dei miei genitori.

  Mia madre guardava l’orologio ticchettare sulla parete dell’atrio. Quando le lancette segnavano le due, ciò significava che tutti gli impiegati se n’erano andati, e che mio padre, in quel momento, stava chiudendo il portone della direzione. Mia madre, allora, compiva la sua prima, sacra missione: assaggiava il cibo appena cucinato, per assicurarsi che fosse ben cotto, quindi si preparava per il suo secondo compito. Riscaldava l’acqua in un catino, appeso a un chiodo di ferro sulla parete del bagno, e aspettava l’arrivo dell’uomo di casa. Si metteva un enorme asciugamano scuro sulle cosce grasse, e si sedeva sul pavimento, assorta nei suoi pensieri, che non vagavano mai oltre il circondario di Marj al-Aqub. Vent’anni, anche di più, in città non le avevano strappato né il santuario, né il gelso, né l’antico amore, infelice come una pecora destinata al macello. Mio padre appariva sul portone di casa, e noi ragazze correvamo subito in cucina: mentre io spiegavo la tovaglia sulla tavola, Raja andava a prendere i piatti caldi, il maqdus e il pane. Afaf versava il burghul nel piatto grande, soltanto dopo che mia madre aveva lavato, asciugato, massaggiato delicatamente, accuratamente, i piedi di mio padre. Mio padre si alzava, rinfrescato, dalla sedia, mentre mia madre si gettava sulle spalle l’asciugamano e si sollevava con pesantezza, mentre la gonna lunga formava una sorta di coda, sotto di lei. Scendeva i sette gradini fino all’orto, gettava l’acqua alle rose odorose. I fiori lodavano Dio per quell’acqua, santificata dalla sporcizia dei piedi di un uomo. Qualsiasi acqua è preferibile alla sete. Mia madre ansimava, sulla via del ritorno, appendeva di nuovo il catino al chiodo, e raggiungeva la famiglia seduta a tavola. Prima di sedersi, si lavava le mani, quindi non pensava più alla sua missione fino al giorno seguente.               

  Passarono due settimane dal matrimonio: mio marito cercò di convincermi a lavargli i piedi almeno una volta, e affrontai la rappresaglia quando risposi che non l’avrei fatto.              

   Aspettò fino al calar della notte, poi cominciò a picchiarmi, a pestarmi; quando mi girò verso di lui con furia, capii che la sua rabbia era sfumata. Mi strappò i vestiti, denudandomi, e mi voltò le spalle. Da come si rigirava nel letto, capivo che non dormiva. D’un tratto, mi saltò addosso come un indemoniato, balzandomi sulla schiena e attaccandomi da dietro. Urlai. Mi tappò la bocca con una mano, in modo che le mie grida non raggiungessero la sua famiglia nelle stanze vicine, e con l’altra mano m’inchiodò saldamente al materasso, stuprandomi da dietro per mettere a tacere la mia testardaggine.

  Nelle notti successive, ogni volta che Khalil mi violentava come un pirata africano, mi si rivoltava lo stomaco, e sulla pelle della pancia mi spuntavano bolle fragili come vetro, simili all’uva cotta dalla calura d’agosto; il prurito somigliava a quello della congiuntivite, aumentava e si diffondeva; il fatto era osservato soltanto dalla lampada rossa, unica testimone compiacente.

                                                                           *

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