La danza dell’uccello sognante di Al mondher Al marzouki

Traduzione di Antonino d’Esposito

All’interno del palazzo al-Huseyni si trovava un antico giardino alla francese che aveva conservato la bellezza della geometria che un tempo rifulgeva nello splendore delle aiuole, la simmetria dei vialetti e la distribuzione delle vasche circolari intorno alla grande fontana in marmo, che fronteggiava l’ingresso principale e la porta del palazzo, in legno blu, borchiata di chiodi di ferro con la testina convessa e nera. Tuttavia, riverso nell’indifferenza generale per lunghi anni, il giardino aveva perso il suo smalto, i fiori e un numero considerevole di alberi e aveva preso a somigliare a qualcosa di sbiadito, come il palazzo e i volti di chi lo visitava, chi vi risiedeva e di chi lo sorvegliava.

Il palazzo era circondato da un muro di pietra, sormontato da una recinzione in metallo con un decoro all’italiana, in cui si insinuavano i rami delle alte piante che la costeggiavano. Sotto gli alberi, si ergevano panchine, fatte di legno e di ferro. Su una di esse si sedé un giovane abitante del palazzo che, pensieroso, se ne stava all’ombra di uno splendido limone, finché fu sorpreso dal saluto di un anziano che si sistemò sulla medesima panchina. Siccome il ragazzo si era chiuso in un mutismo assoluto, l’altro parlò:

“Sì, lo so. Qui non c’è niente che ti piaccia. Ma non lasciare che questa insoddisfazione, intrisa di nostalgia e rancore, ti impedisca di guardarti attorno.”

Come a voler rispondere, il giovane levò il capo e scrutò in direzione di quello che era stato un palazzo reale, una costruzione di tre piani, col portale di legno, le scale di marmo e i due leoni sulla soglia, posti a guardia del luogo. Poi, abbassò la testa e i suoi lineamenti scomparvero sotto le ciocche dei capelli.

L’anziano capì che quel ragazzo, dai lunghi ricci, lo stava ascoltando e che non aveva voglia di parlare. Iniziò a giocherellare con la punta della sua bianca barba sorridendo, mentre osservava i tondi raggi del sole trapelare tra le foglie della pianta di limone e muoversi lentamente sulle piastrelle dell’ombreggiato sentiero di pietra. All’improvviso, il ragazzo si voltò, guardò attraverso i ciuffi ricci e fece:

“Sembri sereno in questo inferno umano. A me, invece, non importa se è stato un palazzo degli al-Huseyni all’italiana, non mi interessa che fine abbia fatto il giardino alla francese o la sua antica storia di dominio e conquiste. Che senso ha tutto questo se io stesso non ho un presente, una storia o una memoria?”

Senza volgere lo sguardo dai cerchi di luce che danzavano davanti a lui, l’uomo rispose:

“Sì, sì. sembro sereno. O, più precisamente, non sono più seccato come lo ero un tempo. Forse, dopo tanti anni qua e là, sono stato costretto a immergermi nei piccoli dettagli e nell’hic et nunc. Il mio animo non sopporta più un’umanità che si fa sempre più crudele, ogni volta più superficiale e ignorante.”

“Io, al contrario, vorrei correre per le vaste distese della terra, galoppare sotto la volta celeste, tra boschi e pianure, scalare colline e montagne, dormire in caverne e fare il bagno nei fiumi e nelle fonti. Non sarebbe un diritto di natura per un uccello danzante come me?”

Detto questo, tornò a celare il volto adirato dietro la cortina dei capelli.

“Non ti intristire, figliolo. La gente si fa più cattiva nei nostri confronti, non ci conosce, perché ignora sempre di più se stessa e ci teme.” Il vecchio sorrise ai cerchi di luce che ballavano come se lo stesse facendo a dei fantasmi di sottecchi. Continuò: “Alla tua età, quando, da ardente poeta, scrivevo versi d’amore, la gente comprendeva maggiormente gli innamorati sognatori, aveva più indulgenza per la follia e i sogni di questi amanti. Vivevo tra la mia gente, in un villaggio suggestivo, delimitato da piante di melograno, viti e palme. Lasciavo quel borgo, col suo mercato, le botteghe, la moschea e i suoi vicoli per andare a vivere con gli stupendi animali, gli uccelli e gli insetti dell’oasi. Dormivo e mi destavo, comparivo e scomparivo, scorazzavo nel deserto come un cavallo selvaggio, quando volevo. Parlavo, stavo zitto, urlavo, correvo, mi nascondevo tra i pampini e i melograni tutto il giorno, per giocare segretamente con le creature della foresta. Poi, la gente cambiò molto; si era stufata di me e dei miei simili. Così, ci radunarono in gabbie analoghe a questa, con colonnati simmetrici, stanze strette e mura rigide, perché fossimo conformi al progetto e stessimo ordinati in classe, affinché non invertissimo l’ordine delle loro vite regolate e vacue. Ho fatto davvero di tutto per provare a scandagliare il senso della loro paura verso di noi. Ma dopo aver rinunciato alla possibilità che essi comprendessero il linguaggio della mia amina appassionata, ho creato la mia lingua universale, l’ho usata per conversate con le creature simili a me e ho fondato il mio regno nel mio universo.”

“Siamo malati per davvero, noi? Gli uccelli danzanti sono posseduti e gli innamorati sognatori sono fuori di senno?” Chiese il giovane, facendo un movimento all’indietro che ne mostrò il volto al contempo triste e trasognato. Aggiunse: “Ah, quante volte mi ha preso la voglia di vivere con altri esseri. Delle creature luminose e diafane, di cui non capissi la lingua e che non comprendessero la mia follia. Ci accontentiamo di guardare, di fare segni e brontolare. Ci rifugiamo nel silenzio e in seguito dimentichiamo tutto. Siamo malati per davvero, noi?”

L’anziano capì il malessere dell’uccello danzante e disse:

“Il folle, figlio mio, è il primo dei meravigliati e l’ultimo dei vincitori. Dà significato nel caos della desolazione, presta ascolto al silenzio che dice molto e urla contro l’oscenità. Vince le battaglie perse, ringrazia le nuvole che non danno pioggia, abbiamo piantato il nostro seme nel campo desolato. La speranza, figlio mio, è un’invenzione dei forti. E anche per essere forte devi imparare a librarti in aria. Noi siamo vittime di altri malati. Non aver paura di questa prigione, piccolo mio. Qui, nella tomba dei sogni umani, dobbiamo sognare. Sì, proprio qui, dove hanno voluto che morissimo, dobbiamo vivere.”

L’uccello sorrise e, fissando il vecchio, se stesso e quel posto, disse:

“È qui, dove hanno voluto strapparmi le piume e fracassarmi le ali, che devo danzare?”

“Sì, figliolo. Esattamente qui!” disse l’anziano afferrando le ali dell’uccello. “Voliamo alto, piccolo mio, sopra queste mura, lontano da questi villaggi, volteggiamo laddove l’animo desidera. Voliamo e lasciamo loro i nostri corpi, come scatole vuote, come bambole su cui testare tutte le iniezioni e le medicine o marionette da scuotere con la corrente quando è troppo complicato per loro addomesticarle. Fa’ un respiro profondo, guarda il sole e sii ciò che vuoi!”

Il ragazzo chiuse gli occhi, le rughe del volto scomparvero e il suo sorriso si proiettò al sole; poi, si distese e si mise in piedi. Spiegò le ali, inclinò un po’ il capo all’indietro e iniziò a girare su se stesso lentamente, atterrando sul piede destro ogni volta che finiva il movimento circolare. Batteva un colpo leggero e levava di nuovo le mani, stendendo i palmi al cielo quanto più possibile; li stringeva e poi li rilasciava come se agguantasse la luce per spargerla sull’umanità e sulla terra.

Il vecchio seguiva le sue movenze inebriato; gli parlava con lo sguardo, battendo il ritmo sul petto e con le mani. Osservava il movimento del suo corpo e sbatteva i piedi, incollato all’aura abbagliante che circondava quell’essere flessibile e lieve. Si ricordò delle migliaia di creature libere, dei poeti come lui che avevano commesso il crimine di sognare. Sul palazzo, sul giardino e sugli alberi, sulle ali tese dell’uccello, sulla barba dell’antico innamorato sognatore calò una pioggerella leggera e lui batté i piedi sul selciato e quel luogo fu illuminato da raggi e da colori dirompenti.

I visitatori, sulle panchine e nei vialetti del giardino, accompagnavano il movimento dei corpi e la danza dei colori, le anime si abbracciarono in una quiete totale. Il sincronismo dei gesti, la delicatezza dei battiti e dei sospiri li condusse ad attimi di estasi e turbamento, interrotti dall’impeto degli infermieri che, armati di corde, si avventarono sull’uccello danzante per governarne le ali e imprigionarne lo spirito. I visitatori se ne andarono sconcertati e i residenti furono riaccompagnati nelle loro stanze. Gli infermieri somministrarono i tranquillanti, i sonniferi e iniettarono gli anestetici. Nel frattempo, l’anziano si era arreso alle scariche elettriche, sorridendo ai suoi compagni sognatori liberi poiché, oramai, il danzatore sognante aveva spiccato per sempre il volo. Nella cuccetta 22 del corridoio numero 10, medici e infermieri trovarono soltanto la sagoma di un corpo, che indossava i suoi vestiti, e sulla cui cartella c’erano segnati i numeri 19-67.

Dopo parecchi anni, i visitatori, e chi si trovò a passare per caso da quelli parti, si resero conto che gli ospiti del palazzo si affacciavano dalle finestre delle camere che davano sul giardino tutte le volte che piovigginava. Sentivano il battere delle mani e dei piedi propagarsi dai vialetti del giardino, poi i rumori prodotti dal palpitare di ali d’aquila che sbattevano con forza e, infine, volavano alto. Quando giungevano allo zenit, si bagnavano nelle nuvole e dopo, sulla terra, costantemente assetata d’amore e misericordia, scendeva una delicata rugiada.

Tunisi, 18 ottobre 2021.

Questo racconto è dedicato allo spirito di Salim al-Marzuqi, detto anche il generale Salim, uomo di colore, che ha trascorso 38 anni in un ospedale psichiatrico per essersi ribellato alla discriminazione razziale nella Tunisia degli anni ’60 del XX secolo. Un luogo che, dopo la rivoluzione, si è rifiutato di lasciare.

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