Traduzione di Federica Pistono
Capitolo I
Se l’angoscia fosse un essere umano, non solo non la ucciderei, ma le augurerei lunga vita.
Come ha potuto questa sensazione ingannevole impadronirsi di me fino ad avere la meglio sulla mia natura vivace? Come è potuto accadere che il mondo abbia assunto ai miei occhi questa tinta inedita? Un colore strano, di cui non saprei descrivere la tonalità precisa; per quanto mi sforzi di definirla, le parole si inceppano nella mia mente. Perfino i miei occhi faticano a identificarla. Ho forse passato la vita affetta da daltonismo? A meno che non sia capitato proprio il contrario: in passato vedevo con perfetta chiarezza, ma oggi la mia vista si prende gioco di me, falsando i colori…
Anche il mio modo di ridere è cambiato. Ho smesso di ridere di cuore come una volta, di sghignazzare senza pudore, mettendo in mostra la mia dentatura irregolare che, secondo Calvin, somiglia a un caffè popolare in cui gli avventori si azzuffano lanciandosi le sedie. A quel tempo, Calvin cercava ancora di sedurmi. Ma la seduzione, oggi, è un gioco che non mi si addice più. D’altronde, chi può aver voglia di corteggiare una donna che si trascina nel petto una tomba? Mio Dio, che disastro! Mi sento ormai come un tavolo da trucco rovesciato, come uno specchio incrinato. Non rido più se non in qualche rara occasione, una risata superficiale, priva di piacere. Una risata senza profondità, light, come una bibita gassata senza sapore. D’altra parte, rido davvero o non è piuttosto il mio un timido tentativo di riuscire a sorridere? Come se di proposito tenessi da parte questi piaceri forzati e queste gioie fuggevoli.
Metto una mano davanti alla bocca per impedire che ne sfugga un urlo, che tradisca il trauma di cui ancora risento da quando sono tornata da Baghdad, come uno straccio strizzato dopo l’uso. Uno straccio a brandelli. Ecco come sono tornata. Ho abbandonato tante abitudini della mia infanzia. Ho smesso di considerare la vita come una serie di semplici sequenze cinematografiche. Ogni scena costituiva un film per il quale si doveva cercare un titolo ma, quando il più violento dei film scorreva davanti ai miei occhi, non sono riuscita a trovargli un titolo adeguato. Mi sono vista sullo schermo come una santa tradita, che trasportava i suoi effetti personali in uno zaino kaki, un casco rigido in testa, ai piedi scarponi infangati, marciare dietro ai soldati sconfitti che sventolavano la bandiera della vittoria.
Dove avevo già visto prima una scena simile? Non era stato proprio in Iraq, in un’altra epoca, in un’altra vita? Forse gli eserciti battuti si ricreano inesorabilmente a contatto con questa fertile terra di Mesopotamia, questa “Terra fra i due fiumi”?
Lo ribadisco: sono tornata spezzata, ho portato con me soltanto quest’angoscia opprimente e due noumi, quei limoni dolci d’Iraq che tenevo tanto a regalare a mia madre. Lei sembrava aver scoperto ben prima di me i vantaggi del tradimento, il giorno in cui si era lasciata condurre a Detroit per ricevere in pompa magna la cittadinanza americana. I suoi occhi si sono colmati di lacrime quando le ho teso i due frutti gialli, colti nel giardino della grande casa di Mossul dove lei aveva trascorso tutta la sua giovinezza. Ha afferrato i limoni con le due mani, annusandoli intensamente, come se ritrovasse, in un solo respiro, il rosario di suo padre, il latte di sua madre e tutti i profumi del suo passato. Una vita intera rinnegata, tutta concentrata in due limoni. In fondo la amo, quest’angoscia che mi tormenta, apprezzo la dolcezza dei suoi ciottoli quando immergo la mia anima nuda nel suo torrente, per nulla al mondo vorrei sbarazzarmi di questo fardello.
La mia angoscia magnifica, che mi persuade che non sono più un’americana normale, ma una donna dalle radici diverse, dalle origini che affondano profondamente nella Storia. Come qualcuno che tiene nella mano serrata i carboni ardenti di una vita che non somiglia a nessun’altra.
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