Articolo e traduzione di Barbara Benini e Federica Pistono
Il romanzo: “Berytus: madìnatun taht al ard” (Berytus: città sotterranea, pagg. 239, nel testo arabo) è uscito per la prima volta nell’ottobre del 2005 per la Casa Editrice libanese Dar al- Adab, ed è stato ristampato più volte. (info@daraladab.com). Nel 2009 è sttao pubblicato in Francia da Gallimard con il titolo: Berytus, une ville sous terre ( droits-etrangers@gallimard.fr.) L’edizione francese, come quella libanese, ha riscosso notevole successo.

L’autore: Rabee Jaber è un giornalista libanese redattore della pagina culturale del quotidiano londinese in lingua araba Al Hayàt, che ha una sede anche a Beirut. Scrittore assai prolifico, è nato nel villaggio Druso di Kafar Nabrakh nel 1972 –, si trova ad avere alle spalle la pubblicazione di più di venti romanzi. Di lui si sa assai poco, viene definito un personaggio schivo e riservato, anche se già lo si annovera tra i maggiori talenti nel panorama della letteratura araba contemporanea. Laureato in fisica presso l’università Americana di Beirut, figlio di una insegnante e di un agronomo militante del Partito Comunista Libanese, Jaber viene ufficialmente consacrato scrittore nel 1992, con l’uscita della sua prima opera letteraria: “Sàyyid al ‘Atma” (Il Signore delle tenebre – non ancora tradotto), insignito del Premio della Critica per il Romanzo. Da questo momento in poi continua a scrivere di getto ed a pubblicare opere il cui tema principale, filo rosso narrativo, rimane costantemente il Libano e la città di Beirut, i suoi abitanti e paesaggi, attraverso gli occhi delle manzoniane “genti meccaniche”.
Ciò che l’ha reso tanto amato da alcuni e talora criticato da altri, è il suo largo utilizzo dell’immaginazione, della fantasia, del fantastico, pur sempre facendo riferimento ad avvenimenti reali, come ha fatto per esempio nella sua trilogia di Beirut, in cui il protagonista muore di infarto esattamente nello stesso giorno, alla stessa ora e nello stesso posto in cui è avvenuto l’assassinio del Primo Ministro Libanese Rafìq Harìri.
C’è chi lo associa, per la sagace ironia, all’altro suo famoso conterraneo Rashìd Dàif – autore di “E chi se ne frega di Meryl Sreep!” (Ed. Jouvence) – e chi ancora, si è arrischiato a paragonarlo a Gabriel Garcia Marquez, per la profonda conoscenza ed abile capacità di presentare al lettore la storia e le intricate vicende del proprio paese, il Libano.
Fra i suoi romanzi più famosi: Berytus: città sotterranea, 2005, tradotto in francese e pubblicato da Gallimard; Confessioni, 2008, tradotto in inglese e pubblicato pù volte da New Directions; America, 2010, finalista IPAF (Arabic Booker Prize), tradotto in molte lingue fra cui il francese (Gallimard) e l’italiano con il titolo Come fili di seta, Feltrinelli, 2012; Il rapporto Mehlis, 2013, un thriller, tradotto in inglese e pubblicato da New Directions; I Drusi di Belgrado, 2012, vincitore dell’IPAF 2012, tradotto in francese da Gallimard.


Il titolo prende spunto dall’antica città di Berytus, fondata dai fenici nel primo millennio a.C. e diventata, in epoca romana, sotto Augusto, un importante insediamento strategico per la flotta imperiale e sede di una famosa Scuola di Diritto Romano. Distrutta da una serie di successivi terremoti, avvenuti durante il VI secolo d.C., la città è in un certo senso risorta solo dopo la fine dei 400 anni di dominazione Ottomana, per diventare la capitale dell’attuale Stato Libanese.
L’operazione che fa Jaber nella sua opera è molto semplice: partendo dall’idea dell’esistenza delle antiche rovine di Berytus, sotto l’attuale Beirut, immagina un mondo parallelo, “sotterraneo” appunto, che vive una vita completamente avulsa da tutto ciò che succede “fuori”, ma allo stesso tempo subendone le inevitabili conseguenze. I vari personaggi che Bùtrus – il protagonista – incontra sono una rappresentazione simbolica di tutte le vittime della guerra civile ed infatti i cunicoli, i passaggi labirintici e le grotte in cui si svolge la vicenda, ricordano un po’ – con le dovute proporzioni – i ben più noti gironi danteschi. L’atmosfera di Berytus è caratterizzata da una tranquilla e rilassante penombra, un semi-buio, sottoterra dove l’unica illuminazione proviene dalle candele e da qualche rarissima lampada al neon, dove i rumori troppo forti e le vibrazioni sono sostituiti da lievi bisbigli ed arie musicali suonate con il flauto.
Il romanzo è stato scritto prima del precipitare degli avvenimenti libanesi dell’estate del 2006, ma è assai interessante come tramite i ricordi del protagonista – sicuramente di natura autobiografica – relativi alla sua vita “fuori”, si riesca ad avere un quadro assai lucido della difficile condizione di chi ha vissuto 15 anni di guerra civile e di come ha potuto conviverci con una parvenza, umanamente inconcepibile, di normalità. Numerose sono le immagini, equiparabili a sequenze cinematografiche, in cui il protagonista paragona la sua vita felice in montagna, prima della guerra, a quella terribile, drammatica, assurda, della città di Beirut, spaccata in due parti, dilaniata come i corpi delle vittime sparpagliati per le vie, durante gli anni della guerra civile. Alcune descrizioni cruente rendono il tutto assai realistico e molto toccante, pur tuttavia non prendendo posizione contro nessuno, non stando da nessuna parte, ma denunciando soltanto la crudeltà e l’atrocità di una guerra, vissuta dai cittadini di un paese e di una splendida città, divorata dal cemento delle speculazioni edilizie della ricostruzione, dopo essere stata dilaniata dalle bombe dei lunghi anni di guerra.
Il romanzo è profondamente originale. Qual è la natura di Berytus, questa città fantasma che il lettore scopre poco a poco? Si tratta dell’immagine speculare di Beirut o di un omaggio ai mondi perduti di Jules Verne o di Lewis Carroll? Senza tregua, al protagonista si pone il dilemma: come tornare nel mondo reale? Il romanzo di Jaber incanta il lettore come una fiaba di una bellezza inafferrabile.
Il romanzo, però, non è soltanto una storia fantastic, ma presenta uno stretto legame con la storia contemporanea del Libano e del Medio Oriente con i suoi costanti riferimenti alla guerra civile libanese (1975-1990) e alla situazione dell’area mediorientale dalla fine della guerra civile agli albori del nuovo millennio. Il romanzo può essere letto soltanto per la trama insolita e affascinante, ma può costituire per un lettore appassionato di storia e politica contemporanea uno spunto interessantissimo per approfondire le proprie conoscenze sulle recenti vicende del Libano e del Medio Oriente, indispensabili per comprendere la situazione geopolitica attuale dell’area.
Ecco la traduzione del primo capitolo
(Barbara Benini e Federica Pistono)
Capitolo 1
La notte calava sulla città di Beirut sfolgorante di luci. Al ristorante sulla terrazza dell’alto edificio della Virgin, Josef Samàha, tagliando una fetta di pizza con coltello e forchetta, domandò a Walìd Nuwaihed come andassero le cose in Bahrein. Walìd accennò qualcosa a proposito della temperatura elevata e dell’umidità. Un’altra persona al nostro tavolo – non ricordo come si chiamasse – disse che pareva che in quei giorni tutti gli arabi del Golfo si trovassero a Beirut:
«Visto che folla? Quando mai Beirut è stata così piena zeppa di turisti? Solo negli ultimi due mesi ne sono arrivati un milione e mezzo. Dovete ringraziare Bin Laden, se non fossero cadute le due Torri di New York, quest’estate Beirut non sarebbe rifiorita: anche qui caldo, sudore e umidità non scherzano affatto!»
Bevevamo vino bianco freddo, guardando il tendone rosso sopra le nostre teste che svolazzava nella brezza estiva come le ali di un piccione, come le vele di una nave. Dal mio posto osservavo il mare nero come una tavola e all’orizzonte le luci gialle di un aereo solcavano la superficie dell’acqua.
Sotto di noi, i fari delle auto che attraversavano Piazza dei Martiri si riflettevano sulle tazzine sopra i tavolini dei bar, sulle lenti degli occhiali e nelle iridi.
Innumerevoli voci si mescolavano nello spazio di quel ristorante all’aperto. Le lingue si confondevano, arabo, francese, giapponese, inglese, italiano, e i dialetti rendevano ancora più arduo distinguerle. Come nella Torre di Babele.
Era tardi, quasi mezzanotte. La città di Beirut non dorme mai.
Ogni sera i turisti affollano ristoranti, caffè, strade e marciapiedi, gli abitanti della città escono a divertirsi: ragazzi e ragazze, uomini e donne. Effluvi di cibo, profumi, corpi e salsedine. La città affoga negli odori. In ogni strada scintilla una festa, la musica è assordante. Artisti e artiste, ballerini e ballerine. La confusione e la baraonda durano fino all’alba. La mattina dopo a Hàmra o in via Monò si incontrano solo volti assonnati.
Con strani movimenti del corpo, si avvicinò al nostro tavolo un uomo estremamente magro e pallido. Walìd fu il primo ad alzarsi, tenendo ancora in mano la forchetta che alla fine posò, ancora infilzata nel suo pezzo di carne alla griglia, sul bordo del piatto colmo di verdure bollite, carote, broccoli, fagiolini e piselli. Gli strinse la mano e vidi anche Josef alzarsi in piedi, nella sinistra teneva ancora il tovagliolo: era molto alto e fu costretto a piegarsi un po’ per spingere indietro la sedia.
L’uomo misterioso strinse la mano anche a lui, salutandolo per nome. Quindi si girò verso di me, pronunciando il mio, di nome: come faceva a conoscermi?
Ma, mentre gli stringevo la mano, guardando in basso, ciò che mi incuriosì fin da quel primo incontro, fu la sua voce, il bisbigliare tipico di chi ha un difetto alle corde vocali: non che avesse la voce rauca, piuttosto sembrava strozzata, come se fosse appena sbucato fuori da una montagna di polvere.
Quando Walìd cominciò a parlargli, mi venne in mente che lo conoscevo anch’io e che tempo prima lo incontravo di frequente; per un anno circa l’avevo visto e avevo risposto ai suoi saluti educati, due volte al giorno, mattina e sera. Era la guardia giurata all’ingresso della sede del quotidiano Al-Hayàt, qui vicino, a un tiro di schioppo dalla Virgin. Ma era terribilmente cambiato. Prima di tutto, aveva perso peso. Secondo, aveva una voce diversa. Terzo… terzo cosa? Non lo so. Non so come dire… ma devo comunque provarci: sembrava provenire da un altro mondo. Appariva irreale. Non intendo affermare che fosse fuori posto in quel locale. No, non è questo. Con quel suo mormorare, con quei movimenti lenti e pesanti nonostante l’estrema magrezza, sembrava incredulo di trovarsi lì. È mai possibile che uno dubiti di essere in un posto?
Mi ricordai (e questo mi salvò dall’imbarazzo), mi ricordai allora (o forse è stato dopo un po’), mi ricordai, dicevo, di quando passavo le notti a studiare nell’ospedale dell’Università Americana. Vedevo i volti degli ammalati quando uscivano di notte e, spingendo davanti a loro l’asta della flebo, avanzavano per un po’ nel lungo corridoio illuminato dal neon bianco.
Un malato affetto da insonnia, che cammina da solo, di notte, attraverso il lungo corridoio bianco, fuori dalla sua stanza, senza sapere dov’è, incredulo di essere ancora vivo, di avercela fatta! Era quella l’impressione che dava. Quell’uomo sembrava convalescente. Come appena uscito da un mondo che non ha alcuna relazione con quello di chi è sano, di coloro che affollavano quei tavoli, ridendo, bevendo, mangiando e ordinando ancora pizza, spaghetti, carne, scaloppine e patate fritte.
L’uomo dall’aspetto emaciato rimase lì in piedi, mentre io mi sedetti ad ascoltare Walìd – in piedi anche lui – che gli domandava in quale nuova società di servizi di sicurezza stesse lavorando ora o se fosse rimasto con quella di un tempo. L’uomo misterioso gli rispose che in un primo momento l’aveva lasciata, ma in seguito vi aveva fatto ritorno; ora faceva due turni:
– Uno qui, di notte, e un altro laggiù, alla torre commerciale Ghazàl, di giorno!
Con l’indice stava indicando la zona di Tabarìs alle mie spalle e io mi voltai verso il luogo in cui sorge la torre Ghazàl. Vidi le macchine che attraversavano il ponte Fuàd Shehàb e la luce dei lampioni che cadeva sui mattoni della chiesa armena, colando come oro fuso sulle case-vacanze appena ristrutturate: alcune finestre erano illuminate, altre buie. Possibile che tutto questo chiasso non riuscisse ad arrivare fin laggiù? Sicuramente avevano chiuso le finestre e acceso i condizionatori. In quelle case non vivono certo dei poveracci!
L’uomo rimase un attimo in silenzio – non indossava la divisa: aveva appena terminato il turno di notte o stava per iniziarlo?
Raccontò di aver lavorato un anno ad Al-Hayàt come guardia giurata, per passare poi alla zona di Azarìa e in seguito presso le macerie del City Palace.
Josef gli chiese qualcosa che io non afferrai (uno dei miei amici mi stava parlando dall’altro lato e le numerose voci che si alzavano dai tavoli alla nostra sinistra, coprivano le nostre) e quando lui gli rispose – con quella voce a mo’ di fievole bisbiglio, come sul punto di morire in piedi, in mezzo a noi – con la coda dell’occhio lo guardai in faccia: il tendone rosso sulle nostre teste gliene adombrava una parte, tuttavia gli intravidi quel lampo, tra le ciglia. Non mi sembrò uno dei soliti imbecilli.
Stava raccontando qualcosa a proposito dei regolamenti in vigore nella ditta dove lavorava e nelle altre concorrenti (le società di servizi di sicurezza stanno spuntando come funghi grazie all’apertura di tutti questi ristoranti, night club, alberghi, nuove imprese commerciali, etc. …), io invece riordinavo mentalmente ciò che avevo appena sentito, per capire dove avesse prestato servizio sia di giorno che di notte: Al-Hayàt, poi Azarìa e per ultimo il City Palace. Aveva pronunciato il nome indicandone la posizione alle mie spalle, prima del ponte Fuàd Shehàb: in quella notte scintillante di luci, automobili e gente, la mole del vecchio cinema, con la sua cupola bianca, scheggiata, sopravvissuta ai giorni della guerra, sembrava la testa di uno dei giganti delle fiabe. Quindi – se avevo capito bene – aveva smesso di lavorare per un po’ (si era ammalato? Era stato allora che si era trasformato in quest’uomo dall’aspetto emaciato, dai modi indolenti e dal tono di voce simile a un bisbiglio?). Dopo il Cinema City Palace, dopo aver sorvegliato quelle macerie circondate da reti e barriere in cemento armato, a lato di quella bianca piazza vuota, aveva smesso di lavorare per un po’, poi era tornato. E ora eccolo qui a sorvegliare la Virgin di notte e la torre Ghazàl di giorno (aveva accennato qualcosa a proposito di una banca francese con una sede lì: la B. N. P.).
Ma che ho scritto poco fa? “Modi indolenti”? Meglio cancellare: aveva un corpo pesante, nonostante la magrezza, anzi l’estrema magrezza, ma non modi indolenti. Intendo dire che i suoi movimenti non erano quelli tipici di una persona pigra, esattamente il contrario: sembrava facesse uno sforzo – come mettendoci un’energia eccezionale, una forza sovrumana – per riuscire a muoversi e a dire ciò che voleva. (Cerco di ricordare i fatti in ordine cronologico, ma non so se ci riuscirò, anche perché in seguito, il lungo tempo trascorso in sua compagnia avrebbe senz’altro lasciato una traccia indelebile nei primi ricordi che ho di lui. Se dopo quell’incontro non l’avessi più visto, forse avrei potuto narrare in modo più preciso, ciò che è successo, ciò che ho visto e sentito).
Walìd gli strinse la mano un’altra volta, mentre Josef fece per alzarsi dalla sedia (non mi ero accorto che si fosse seduto anche lui, forse l’avevamo fatto contemporaneamente) e salutò quella guardia giurata, che ancora una volta stava bisbigliando i nomi di tutti. Mi ritrovai inconsciamente ad alzare lo sguardo dal piatto che avevo davanti a me (un’insalata greca: lattuga, pomodori, cetrioli, cipolla, feta, olive nere, salsa di limone, maionese, sale, olio d’oliva e una goccia di aceto balsamico), e a guardare verso quell’uomo, che a sua volta mi stava scrutando, fissandomi intensamente. Aveva uno sguardo inquietante, come se mi conoscesse, come se tra noi ci fosse un vecchio legame e io me ne fossi dimenticato. Come se fossimo stati amici, poi fosse accaduto qualcosa e io avessi respinto la sua amicizia. Io lo conoscevo solo di vista, non sapevo chi fosse questa guardia giurata di nome Bùtrus, con quel suo aspetto malato, i capelli neri e quel viso pallido, bianco come la cera. Non lo conoscevo proprio. E allora perché mi stava fissando con quell’aria di rimprovero?
Cercai di distogliere lo sguardo mettendomi a chiacchierare con Josef, ma la guardia si rivolse direttamente a me. Dando le spalle a Walìd – che in quel momento si stava sedendo – si piegò un po’ e fece in modo che nessun altro, tranne me, sentisse quel che aveva da dire.
«Io ti conosco. So chi sei e seguo quello che scrivi. Ho tutti i tuoi libri. Ti leggo e voglio raccontarti una storia, però non adesso, non qui: questo non è il posto né il momento adatto. Come posso rivederti?».
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