Torta al cioccolato di Mohamed Khalfouf

Traduzione dall’arabo di Antonino d’Esposito

Improvvisamente, oltre a dover prendermi cura di mia madre, mi trovai costretto a sbrigare le faccende domestiche: spazzare, pulire, lavare i vestiti, cucinare… mi ricordo che avevo dodici anni la prima volta che frissi un uovo: lo lasciai sul fuoco per dieci minuti finché, distrattomi con la televisione, si bruciò completamente. Adesso, invece, riesco a badare a me stesso con qualcosa di economico e reperibile: uova, tonno, maccheroni, riso, patate, lenticchie. Alle volte – sempre improvvisando, anche se in qualche modo funziona – uso delle verdure per prepararmi da mangiare.

Mi sveglio al mattino, mi faccio una tazza di caffè e subito me lo bevo. Riscaldo la zuppa di patate avanzata, sveglio la mamma, le lavo la faccia con un asciugamani bagnato e le do la zuppa di patate, o un’altra minestra; le pulisco la bocca e le do le medicine. Le rimbocco bene le coperte e me ne vado in facoltà.

Al ritorno dall’università, mi fermo al forno per comprare il pane che a quell’ora, intorno a mezzogiorno, è caldo e delizioso. Prendo pure una scatoletta di tonno e qualche uovo; ogni tanto compro un panino in uno dei ristoranti disseminati nel quartiere Atlas. Compro maccheroni, uova e scatolette di tonno sempre in grosse quantità per non essere costretto a fare la spesa ogni volta.

In serata, preparo la zuppa di patate per mamma: taglio i tuberi e le cipolle in una pentola grande, che può contenere molta zuppa, e schiaccio per bene. Può capitare che aggiunga diversi tipi di verdure: carote, zucchini, zucca, rape. Scrivo in cucina, tra padelle, spezie, frigo e fornelli, sul vecchio tavolo di legno. Scrivo una poesia o un racconto mentre continuo a rimestare la padella o la pentola. Ritorno a scrivere, poi aggiungo olio, spezie o sale, o la salsa ai maccheroni. All’inizio avevo pensato che sarebbe stato difficile combinare gli estenuanti lavori domestici con la scrittura, che richiede molta concentrazione; eppure, ce l’ho fatta a farli stare insieme. In seguito, ho scoperto che Sylvia Plath riusciva a conciliare gestione della casa, cura dei due figli e scrittura, persino durante la stesura de La campana di vetro. Scriveva diligentemente e si occupava della casa allo stesso tempo.

Di sabato, riesco a farmi una bella dormita. Mi sveglio fresco e di buon umore. Faccio colazione, metto mamma sulla sua sedia, le do da mangiare e le medicine. Per rompere il silenzio, chiacchiero un po’ ed esco verso le 10:30 per andare al mercato. Compro pesce, verdure, spezie, sale, aglio, caffè, concentrato di pomodoro, aceto e riso. Provo a trovare la quadra tra venditori e soldi alla ricerca dei prodotti migliori e più freschi. Poiché le panetterie sono chiuse la domenica, mi fermo a comprare molto pane che conservo in frigo dentro buste di plastica. A casa, mi preparo una tazza di caffè così mi concentro mentre cucino. Tolgo le verdure dai sacchetti e le metto in frigo, lavando quelle che mi servono per il pranzo. Riempio i barattoli di spezie, sale e caffè. Risciacquo il riso per tre volte e lo metto a bollire, le patate vanno in un’altra pentola.

Bevo un sorso di caffè. Lavo il pesce nel lavandino e lo eviscero per bene, l’operazione, però, mi lascia un odore viscido sulle mani. Sbuccio la cipolla; come al solito, piango, ma posso sopportare le lacrime da cipolla. Bevo un sorso di caffè che ha cominciato a raffreddarsi. Metto la cipolla in una padella con un po’ d’olio e mescolo; sgocciolo le patate e le aggiungo alla cipolla, poi continuo con sale e spezie e giro sempre per non far bruciare niente. Impano i pesci con la farina speziata e riscaldo l’olio. A debita distanza, metto un pesce nell’olio che frigge, un pesce dopo l’altro… il baccano della strada e il suono della televisione mi raggiungono in cucina. Metto il riso in un piatto, taglio cetrioli e pomodori, aggiungo sale e aceto. Dispongo i pesci speziati e fritti in un altro piatto e lascio le patate con la cipolla nella padella. La tazza di caffè ormai è finita. Porto tutto in sala da pranzo, così posso sedermi per mangiare e guardare la tv.

In una borsa di lino, mia madre aveva messo otto libri di cucina illustrati e quattro quaderni di media grandezza. I quaderni erano pieni di ricette; persino lungo i bordi se ne poteva trovare una o due, dipendeva dallo spazio che il margine rettangolare lasciava a disposizione. Le ricette erano tante e di diversi tipi di piatti: dolci, salati, di carne, di pollo, di pesce, salse, creme, pasticcini. Negli otto libri c’erano foto di piatti e di mani che preparavano i piatti, con ricette molto elaborate e descrizioni dettagliate. Mi ricordo che mia madre passava molto tempo a leggere questi libri e a scriverci su, specialmente il pomeriggio, seduta allo stesso posto in cui ora giace immobile. Dalla finestra, la luce del sole le arrivava addosso e lei voltava le pagine. Dopodiché, entrava in cucina e iniziava a preparare dolci. Incuriosito e con un pizzico di interesse, la osservavo mentre mescolava gli ingredienti, faceva le creme, e li metteva in forno per tirarli fuori dopo un po’ caldi o freddi dal frigo, ricoperti di crema o cioccolata: delizioso.

Non capii mai come mia madre si fosse trasformata, al suo ritorno da Damasco, da studentessa di filosofia a pasticciera su richiesta; preparava dolci per matrimoni, eventi, funerali, dolci sia tradizionali che moderni, antipasti, torte di compleanno con su scritto i nomi dei festeggiati o “Buon compleanno”.

Le macchine si fermavano davanti al portone del palazzo per ritirare gli ordini, dopo chiamavano per lodare le torte e le mani che le avevano preparate; le stesse mani che ogni giorno lavo, irrigidite a causa del poco movimento e con le dita trasformate in tronchi d’albero. Provavo a capire quale fosse la relazione tra Platone, Aristotele, Ibn Hayan, Averroè, Spinoza, Heidegger, Sartre e uova, farina, lievito, cacao, crema Chantilly e fogli di gelatina. Forse anche la cucina era filosofia.

In mezzo a tutte queste ricette, che mi sembravano difficili, piene di ingredienti e note, che richiedevano manualità e precisione, mi capitò la ricetta di una torta al cioccolato. Una ricetta semplice, senza troppi ingredienti o lunghi procedimenti. Decisi di prepararla, per la prima volta in vita mia.

Ricopiai gli ingredienti su un foglio e rimisi il quaderno a posto nella busta. Misi insieme l’occorrente: farina, uova, lievito, olio, zucchero, cacao, noci, uva sultanina e mezza tavoletta di cioccolata fondente. Mescolai gli ingredienti uno alla volta aggiungendo noci, uvetta e cioccolata, fino ad ottenere un impasto omogeneo, così come diceva la ricetta. Imburrai la teglia e la infarinai, prima, però, avevo preriscaldato il forno; ci volle un po’ di tempo. Misi la teglia in forno facendo attenzione, come una madre che lascia il figlio all’asilo nido per la prima volta, e rimasi ad osservare la torta attraverso il vetro del forno mentre si gonfiava, cresceva e assumeva un bel colorito scuro.

Mentre toglievo la torta dallo stampo per metterla su un piatto, si spezzò in due: metà mi rimase in mano e l’altra metà attaccata allo stampo. Briciole sul marmo della cucina, il calore che mi scottava la mano e il residuo informe nella teglia. Mi lamentai, ma quell’episodio mi spinse ad assaporare per la prima volta in assoluto una torta al cioccolato. Diedi un morso alla metà che avevo in mano: era spettacolare, dolce e calda, un chicco d’uvetta sciolto nel cioccolato. Per un istante ne fui inebriato. Ci ero riuscito; vidi persino gli occhi di mamma riempirsi chiaramente di felicità. Quella sera, divertendomi, avevo fatto la mia prima torta.

All’inizio, odiavo cucinare, lo consideravo soltanto un modo per riempirsi lo stomaco e pensavo pure che solo poche persone potessero farlo: le madri e gli chef. Col tempo, però, ho costruito una relazione più intima con gli attrezzi della cucina: cucchiai, coltelli, forchette, piatti, bicchieri, padelle per friggere, pentole, sale, spezie, olio, zucchero, fornelli e altre cose che mi aiutavano a concentrarmi. Allora, ho cominciato a considerare la cucina una filosofia, esattamente come la scrittura. Preparare dei piatti assomiglia a scrivere un testo. Ci sono decine di modi per fare gli spaghetti e altrettanti ce ne sono per scrivere un romanzo o un racconto. Cucina e scrittura: due modi per cercare qualità, precisione e gusto.

Quella non fu la migliore torta al cioccolato del mondo, ma era buona, almeno dal mio punto di vista, perché aveva un sapore particolare. Io sono uno scrittore che vorrebbe cucinare testi buoni, appetitosi, che abbiano un gusto tutto loro. 

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