La marca della vergogna di Fadhela Alfarouk

Traduzione dall’arabo (Algeria) di Jolanda Guardi

Titolo originale: تاء الخجل 2003

©Jolanda Guardi per la traduzione.

Capitolo 1

Io e te

Fin dalla famiglia, fin dalla scuola, fin dalle tradizioni, fin dal terrorismo, ogni cosa per me è stata marchio di vergogna.

Ogni cosa per loro un marchio di vergogna.

Fin dai nostri nomi storpiati sull’ultima lettera,

fin dallo sguardo di stizza che ci accoglie alla nascita,

e da prima ancora,

fin da mia madre che è rimasta legata a un matrimonio che non è un vero matrimonio,

fin da tutto ciò che ho visto morire in silenzio dentro di lei,

da mia nonna, che per mezzo secolo è rimasta paralizzata a causa dei violenti colpi infertile dal cognato, applaudito dalla tribù e sulle cui azioni la legge ha chiuso gli occhi.

Fin dal passato,

dal tempo delle schiave e del harem,

dalle guerre combattue per più bottino,

da tutte loro…fino a me, niente è cambiato eccetto il dispiegarsi dei mezzi di dominazione e repressione della dignità delle donne.

Per questo, molte volte sono fuggita dalla mia femminilità e da te che ne sei un sinonimo.

Alla soglia dei quattordici anni, quando hai solleticato i miei sentimenti con la tua purezza, ho vissuto l’imbarazzo per la prima volta… Ero una donna o un uomo? Perché eri diverso da tutti gli uomini? Forse perché sei orfano di padre, come dice la gente del quartiere? O eri diverso a causa mia?

Ho vissuto la più bella storia d’amore in quel tempo ancora acerbo e con te, la maggior parte delle volte, dimenticavo la crudeltà degli uomini, ma quello che ti circondava era un giardino di spine! Ti ricordi quella tempesta che ci invadeva? Ricordi il luccichio dei nostri occhi?

Ricordi gli anni più belli trascorsi insieme? E come voltammo le spalle al giardino di spine dopo il diploma? Tu partisti per la capitale, io per Costantina. Quel giorno non sapevo che mi abbandonavo a un destino che separava la sua strada dalla tua. Trovai Costantina una poesia tra le più belle, una città a misura di cuore.

Tu mi scrivevi della capitale, della sua pazzia e del suo caos, degli amici, dell’ambiente della città residenziale universitaria di Ben Aknùn, poi mi parlavi del mare e mi raccontavi che la capitale aveva un gusto salato e il suo odore assomigliava a quello di una cassetta di legno umido, odiavi le mescite di vino perché ti ricordavano di Arìs, i suoi giardini, la sua aria pulita di montagna e io ti raccontavo di Costantina, dei pini, del teatro, della sede della radio e della televisione, delle feste d’estate, delle serate di Ramadan, del pianto dell’inverno della danza della nebbia sui ponti e del rapimento delle strade al suono del ma‘lùf.[1]

Ero già innamorata di lei e non sapevo che “è una città che né ti accoglie né ti respinge”.[2]

È una città che assomiglia ai racconti, alle donne avvolte nella sofferenza, alle schiave, al harìm, al violino che continua a gemere.

Era un violino e davanti a un violino sognatore non possiamo far altro che sognare, scrivere, per questo ti ho scritto molte lettere, scrivevo molto , forse perché anch’io sono una donna e, come afferma Guy des Cars, “la donna ama raccontare perché ciò le permette di resistere al silenzio della solitudine”. I flussi di scrittura rompevano le barriere interiori e mi facevano camminare in una manifestazione che chiamava alla vita.

A Costantina tutto è bello, tranne l’amore che è sofferenza.

Stava arrivando l’estate quando ci siamo separati.

In estate le persone si incontrano e si separano sempre.

Ti preparavi a partire per Hàsi Mas’ùd per un incarico di lavoro. Volevi regalarmi qualcosa di prezioso, proprio per il giorno del mio compleanno, ma sono stata io a sorprenderti con qualcosa che non ti aspettavi: ti ho regalato la separazione!

All’università la nostra vita si era trasformata in una piazza dove gli amici andavano e venivano. Eri di buon cuore in modo insopportabile ed ero stanca di quella situazione. Fino a quel giorno io, una donna, conducevo la mia vita come fosse un lavoro clandestino e la coprivo d’inganno con una spessa coltre, tale che di rado la luce riusciva a penetrarvi. Non sapevo che mi stavo condannando al fallimento e a una cocente delusione.

Dopo di te il mondo ha deviato un poco dalla sua rotta,

è diventato più spigoloso.

Dopo di te anche gli uomini sono diventati più violenti,

la femminilità si è armata fino ai denti di disgrazie.

Dopo di te, dopo i trenta, le strade che orientano la vita sono diventate melmose.

I giorni dolorosi.

Forse ti chiedi cosa mi riporta a te oggi, ti rispondo: forse la fiducia, visto che mi vergogno di aprirmi parlando dell’amore mentre la patria seppellisce i suoi figli ogni giorno. L’amore è molto doloroso laddove lo attraversano i funerali, lo infangano gli stupri e lo intossica il fumo delle donne bruciate.

Mi capirai dopo che ti avrò raccontato tutto il mio dolore,

e se non mi capirai, io avrò comunque trovato una giustificazione per essermene andata.

Tutto è diventato blu e grande, rende impossibile il restare a galla, oltre al mio dovere, il mio rapporto con le persone, il mio legame con la scrittura.

Ero un progetto di donna e non sono diventata quella donna a causa delle circostanze.

Ero un progetto di scrittrice e non lo sono diventata se non quando ho perso tutta la mia umanità. Ero un progetto di vita e di quel progetto ho realizzato solo un decimo.

Ero bambina quando sentii zia Kulthùm sussurrare a zia Tùnis che ero “leggera” e che per questo avrei avuto difficoltà con gli uomini della famiglia, ma zia Tùnis non se ne curò, si affrettò verso la kuskusiera e rovesciò il kuskus che, nell’essere mescolato, rilasciava il suo vapore dal vassoio, e iniziò a sfregarlo, ancora caldo con le mani, come se avesse dimenticato l’argomento, ma disse scandendo le parole:

– È una bambina.

Zia Kulthùm insistette:

– È diversa dalle nostre figlie.

A dire il vero io non ero diversa in nulla dalle figlie della famiglia, era mia madre quella diversa.

Ti racconterò allora di lei, alta, bella, non ha avuto altri figli eccetto, non aveva nulla in comune con i Banu Muqràn, non proveniva dalla loro cerchia, mio padre la conobbe in una scuola di religiose, si innamorarono, egli divorziò dalla cugina Ǧawhara per sposarla.

Da quel fatto tutte le donne della famiglia cominciarono ad avercela con mia madre e a volere ad ogni costo vendicarsi di lei in qualunque modo perché aveva fatto del male a una di loro .

Tranne la zia Tunis, che la amava; le donne della famiglia non osavano dire nulla su mia madre davanti a lei.

Ma io le sentivo, molte volte mi nascondevo nell’angolo buio e sgattaiolavo nelle loro camere da letto strettamente interdette ai bambini. Mi nascondevo sotto ai letti e mi mettevo a origliare.

Tu non capirai queste cose se non ti descrivo la casa della mia infanzia, come vivevamo lì, la sua struttura e le sue regole di vita spiegano la mia personalità e la mia ribellione.

Era una casa di due piani, sedici camere e un ampio cortile circondato da un alto muro, detto “ la corte”.

Somigliavo alla casa in maniera strana,

poiché continuo a chiudermi come era chiusa la casa all’interno,

e ho eretto intorno a me un alto muro e tanti alberi. La mia camera era come le altre della casa, piena di segreti, di tanti nascondigli, tanti dolori e in ogni stanza una donna diversa dalle altre…

in me c’è qualcosa della zia Tunis,

Qualcosa di lalla ‘Aisha,

Molte cose della bellezza di mia madre

e cose delle altre.

Sidi Brahim era l’uomo di potere in questa casa, l’imam della moschea , un uomo di religione e marito di zia Tunis. Non riuscirono ad avere figli e le donne della famiglia dicono che era in lei il difetto, ma egli non ne sposò un’altra, e io ero fermamente convinta che loro non avessero avuto figli perché trascorsero insieme una vita monacale. Me lo immaginavo che fosse nato così con la sua vecchiaia e il suo portamento, perché è difficile immaginarsi un uomo con tutto questo potere che una volta fosse stato bambino, o che facesse sesso. Lo amavo e amo quel passato nonostante le sue zone oscure.

La casa, gli alberi di melograno o di noce, il pergolato, le cicogne, e le rondini, i colombi…facevano struggere il cuore.

Ed ecco là il teatro dell’infanzia e dell’adolescenza,

e il recinto posteriore, la finestra con la grata, che dava verso una sponda diversa di Aris…attraverso quella grata,

Là in fondo al cuore casa tua…

Chiudo gli occhi e la casa naviga fin dentro di me come una barca spinta dal destino. La casa si ferma alla sorgente del battito del cuore, la porta si apre subito per far uscire il ragazzo bruno che porta la sua borsa e dice: Sei in ritardo oggi.

Gli risposi: Dobbiamo correre per non rimanere ancora più indietro.

E ci mettiamo a correre, mentre i fogli degli anni si spaginano per poi fermarsi verso i trenta.

Quanto retrocede il tempo nel pensarti oggi, riavvolgo le fila di una storia che ho fabbricato e ho terminato per manomia.

Avremmo dovuto confrontarci quando ho deciso di lasciarti improvvisamente, avresti dovuto chiedermi di seguirmi, un chiarimento da parte mia, dovevi scusarti per un errore che non sentivi di aver commesso, ma sei del segno del toro, generoso in amore, avaro nelle scuse.

Cala di colpo la nostalgia sulla mia stanza, poi mi ritrovo ingabbiata dal passato; eravamo all’università, c’era la pioggerella, era febbraio, Costantina indossava un abito da sposa.

Eravamo vicini su una panchina di pietra, spalla a spalla per scacciare il freddo, le nostre dita intrecciate come per ripetere un’altra volta quella storia.

Ricordo ancora quanto amavo le tue mani, la rotondità delle tue unghie, e il campo fiorito nel palmo della tua mano.

Hai estratto un’agenda dalla tasca e hai annotato la data.

– È il quattordici febbraio.

Stesi la mano e presi d’agenda, era molto bello, ti chiesi:

– Da dove viene questa bellissima agenda?

Si chiamava “agenda della bellezza”, una cosa originale e innovativa, decorata con fiori e ornamenti tradizionali, e suddivisa in segni zodiacali, mesi, e giorni, e feste, e simboli.

Sfogliai le pagine velocemente, e mi fermai al quattordici febbraio.

Quindi lessi con occhi innocenti di bambina,

– Festa degli innamorati.

I nostri sguardi si incrociarono felici, quella è stata la prima volta che abbiamo sentito parlare di questa festa. Mi alzai e abbracciai la pioggia.

Tu restasti a contemplarmi, le pupille dei tuoi occhi erano in adorazione e le ciglia sprofondate in una grande prosternazione, mi avvicinai e ti chiesi sussurrando:

– Che c’è?

Tu continuasti la tua preghiera e mi toccasti il viso, poi rispondesti:

– Sei qui, e questo è tutto quello che desidero nella vita.

Perché la pioggia mi tradì dopo tutto ciò?

Forse perché sono di una Ben Muqràn, di quella casa piena di delusioni cocenti e di falso lustro? O forse perché sono una donna piena di complessi?

Mi ricordo un certo giorno che, tornando da scuola, non trovai mia madre a casa, scesi da zia Tunis per chiederle di lei, mentre zia Kalthum mi chiamava dal piano sopra, che condividevamo:

– Tua madre se ne è andata e non tornerà (poi sorrise maligna). Zia Tunis la sgridò e fiutai la sua rabbia. La notte dormii accanto a lei e a lalla ‘Aisha e per tutta la notte l’odore dei suoi capelli tinti con l’henné mi riempì il naso.

Mia madre tornò la mattina successiva, accompagnata da mio zio Assebti, che bevve il caffè assieme a sidi Brahim nella camera degli ospiti, poi se ne andò. Mia madre invece rimase in silenzio, sentivo che il pianto le saliva fino alla gola ma che si tratteneva per me.

Da quel giorno vedemmo mio padre solo una o due volte alla settimana, poi seppi che aveva sposato una donna in grado di dargli una progenie maschile, visto che mia madre non era in grado di farlo.

Ebbi la notizia da zia Kalthum, che odiava mia madre più di tutte le altre donne della famiglia e mi chiamava “la cicogna” perché sono magra e ho le gambe lunghe come mia madre.

Mentre parlavano tra loro, disse a zia Tunis:

– Non fosse stato per Assebti, Abd al-Hafìz avrebbe divorziato da lei e ce ne saremmo liberate.

Riferii quello che avevo sentito a mia madre che, poiché aveva il cuore gonfio, si rivolse a loro urlando:

-Vi taglierò la lingua, Abd al-Hafìz non divorzierà da me, e io non lascerò questa casa.

Quella sera, zio Bubakr picchiò violentemente zia Nuna, e sidi Brahim si arrabbiò molto,  mia madre invece sorrise.

Il giorno successivo, sidi Brahim mi prese per le orecchie facendomi molto male, dopodiché mi fece entrare nella camera degli ospiti e chiuse la porta, e la camera iniziò a restringersi e si trasformò in una ghigliottina. Si avvicinò a me, il suo naso sottile era quasi attaccato al mio, mi allontanai un poco i tremando, alzò l’indice verso i miei occhi dicendo:

– Non voglio che si ripeta più quello che è successo ieri per colpa tua, non voglio che assomigli alle altre donne della famiglia, voglio che tu sia come Tunis, va bene (E si toccò il naso)[3]

Dal quel giorno non riferii più a mia madre quello che sentivo, ma non smisi di ascoltare tutti per passare il tempo.

***

Amavo giocare con Khalìl e Yùnis, avevamo più o meno la stessa età, ma quando sono cresciuti hanno iniziato ad allontanarsi da me, mio zio Bubakr odiava vedermi con loro, secondo lui la mia depravazione era dovuta all’assenza di mio padre, tante volte lo sentivo parlare di me come fossi la causa di tutti i problemi del mondo. Invece sidi Brahim mi amava tanto, perché avevo una straordinaria capacità di farlo ridere, oltre al fatto che ero intelligente e brava a scuola come i maschi della famiglia. Per quanto riguarda zia Kaltum e zia Nuna avevano un’altra spiegazione per questo successo, dicevano che sidi Brahim avesse scritto un talismano per il successo dei maschi e un altro per far diventare le donne casalinghe.

Ma io ero abitata da un ifrit, per questo ero diversa dalle altre, anzi arrivarono a dire che Zahiya (mia madre) voleva fare di me un ragazzo gobbo ma lalla ‘Aisha lefece tacere con un solo sguardo.

“Lalla ‘Aisha” aveva un’autorità di un altro tipo. Oltre al salario mensile che percepiva, perché moglie di un martire, aveva ereditato da suo marito un palmeto a Mshunesh[4] e terreni alla periferia di Arìs[5] che ogni anno le garantivano rendite rispettabili di denaro, cosa che faceva sì che la famiglia Ben Muqràn la rispettasse e chiedesse il suo parere su molte questioni.

Mi ricordo quando Hira, la figlia di mio zio Al Husayn, si fidanzò e lalla ‘Aisha disse che il fidanzato non era di suo gradimento e tutti lo rifiutarono .

Per quanto mi riguarda “ lalla ‘Aisha” era una donna forte, sedeva con gli uomini, si scambiavano le loro considerazioni politiche. Mi fu detto un giorno che era stata la prima donna a prendere parte al partito durante la rivoluzione e che, a suo tempo, aveva pagato quattro duro[6] come quota di pertecipazione.

Speravo tanto di essere un ragazzo o di essere come “lalla ‘Aisha”. Allora non conoscevo quel detto giapponese che dice “Attento a ciò che desideri”, ed ecco, mi trovasti davanti a te, ero giovane e affrontai il tuo amore devastante come le mie contraddizioni e i miei sentimenti contrastanti.

Ancora oggi non sono cambiata, ancora ti amo come un mare.

Ti domandavo sempre:

– Cosa faresti se dovessimo separarci?

– Non ci separeremo.

– Dico se…

– Tu sei pazza.

– Perché non studiamo tutte le possibilità?

– Ma perché dobbiamo studiarle?

– Perché mi spaventa.

– Allora non pensare a ciò che ti spaventa.

– Ma se accadesse? Ameresti qualcun’altro?

La vulnerabilità tornava nei tuoi occhi e il tuo tono lasciava trapelare qualcosa di minaccioso:

– Non amerò mai nessun altro, persino quando morirai chiederò a Dio che ti faccia stare con me al posto delle uri.

Scoppiai a ridere presa dalla vanità.

– Sciocco, mi preferiresti alle uri? In realtà sono brutta, secondo zia Kalthum somiglio a una cicogna.

– Tu non somigli alle altre donne, per questo la gente non può sapere se sei bella oppure no.

– Davvero?

Allora pronunciasti dei versi:

– Sei un essere impossibile da descrivere, abiti tutte le canzoni che amo, sei del colore della natura, ti trovo nelle rose, nelle ali delle farfalle, nel timido crepuscolo sul far dell’alba, e in tutte le cose che trascendono l’esistenza.

Quello che dissi mi meravigliò:

– Perché non scrivi queste cose, sei un potenziale poeta.

– No, appartengono solo a te.

Ero tornata a casa rivestita dalle tue parole, avevto terminato in fretta i miei compiti e finto di avere sonno per sognarti un’altra volta a occhi chiusi.

Il pianto silenzioso di mia madre e i conflitti con le ragazze della famiglia a volte mi infastidivano, ma ciò che più mi faceva innervosire era il momento del pranzo del venerdì, quando noi donne dovevamo aspettare il ritorno degli uomini dalla moschea e solo dopo che loro avevano terminato il pasto arrivava il nostro turno di mangiare; ci riunivamo da zia Tunis odiavo quella tradizione che faceva di noi un drappello di grado inferiore.

Mi infastidiva vedere sidi Ibrahīm come un sultano e che i miei zii e i miei cugini fossero il suo entourage preferito, tutti seduti nella stanza degli ospiti intorno al grande tavolo, ad aspettare che li servissimo. La donne rimanevano in cucina, riempivano i piatti e noi ragazze li servivamo, per questo ogni venerdì avevo mal di testa o mi fingevo malata e preferivo andare in giardino o sulle scale che portavano al terrazzo per sfuggire agli sguardi. Questi furono i primi sintomi della mia ribellione e della mia resistenza alla famiglia.


[1] Al-ma’lùf: modo di cantare tipico della città di Costantina [N.d.A.]

[2] Muràd Bu Karàra, scrittore algerino [N.d.A.]

[3] Il naso è il simbolo dell’onore nella società algerina. [N.d.A.]

[4] Città del sud dell’Algeria. [N.d.A.]

[5] Città del nord dell’Algeria. [N.d.A.]

[6] Il duro era una moneta che corrispondeva a 5 centesimi di dinaro attualmente non più in uso.

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