Kafka, un ragno e la Siria

Articolo Siria di Antonino d’Esposito

Damasco – courtesy of cleopatrarogers

George Salem[1] è, ahimè, un nome che resta ancora oggi sconosciuto sia nel mondo occidentale sia in quello arabo, uno scrittore che nel breve arco della sua esistenza (1933-1970) ha dato vita a un’esperienza di scrittura innovativa nel panorama delle letterature arabe. Sebbene abbia esordito col romanzo Fī al-manfà (In esilio) nel 1962, la sua produzione ha preso poi la via del racconto breve con ben cinque raccolte: Fuqarā’ al-nās (I poveri, 1965), al-Raīl (La partenza, 1970), iwār al-ṣumm (Conversazione tra sordi, 1973), ikāyyat al-ẓama’ al-qadīm (La storia della sete antica, 1976) e ‘Azf munfarid ‘alà al-kamān (Concerto per violino solo, 1976). La particolarità che lo ha reso unico non sta nella scelta della forma narrativa, ma piuttosto nei contenuti confluiti nelle novelle che hanno rappresentato il primo afflusso dell’esistenzialismo europeo sull’altra sponda del Mediterraneo.

Francofono, Salem è stato anche critico letterario e traduttore dal francese, tra gli altri di Camus, un particolare, questo, che da solo svela quanto l’autore siriano si fosse avvicinato a questa corrente filosofica. I racconti di Salem, inseriti in un quadro inspiegabile e fantastico, sono scritti con uno stile piano, privo di tutti gli orpelli che caratterizzano la prosa araba classica, ma che grazie alla sua semplicità riesce a sostenere il senso di tensione che li pervade. Un’evoluzione linguistica e stilistica, tuttavia, è estremamente palese se si leggono i racconti seguendo un arco cronologico. Le prime raccolte sono meno articolate e presentano intrighi più lineari, seppur spesso al limite dell’irreale; è verso gli ultimi racconti della terza raccolta, una pubblicazione in cui svetta il tema dell’incomunicabilità sin dall’enigmatico titolo Conversazione tra sordi, che la complessità strutturale inizia a farsi preponderante e Salem sfiora Kafka da molto vicino, in particolare nella novella Il Grand Hotel. Leggendola non pensare alle Metamorfosi del praghese è praticamente impossibile.

Ma cosa succede nelle pagine di Salem tanto da ricordare Kafka? Il protagonista, un uomo sempre anonimo, è in viaggio per lavoro – possiamo immaginarlo un commesso viaggiatore come il Gregor delle Metamorfosi – e, per una serie di vicissitudini, si trova costretto a passare la notte in una camera del Grand Hotel, l’unico alloggio che ha trovato disponibile. La situazione, come da caratteristica di Salem, parte dunque da un’apparente normalità per poi capovolgersi nell’inaspettato. Infatti, preso possesso della stanza, spogliatosi a metà per indossare il pigiama, alla porta del nostro uomo bussa un cameriere per chiedergli di spostarsi al piano superiore perché quello sarà interamente destinato alla messinscena di uno spettacolo teatrale: è questo il punto che dà la svolta fantastica al racconto. Da qui, il protagonista si troverà a vagare tra i piani e le stanze dell’albergo, tornerà sui suoi passi, girerà a vuoto, salirà e scenderà scale quasi come in un’opera di Escher, incontrerà gli spettatori dello spettacolo e gli impiegati della struttura senza riuscire a capire cosa venga rappresentato né quanto durerà. Ad un certo punto entrerà addirittura in scena, ma poi, ritornato al secondo piano, inspiegabilmente, egli si troverà circondato da una serie di porte bianche che si rivelano finte. È ora, in questo corridoio che d’improvviso prende le sembianze di un ospedale, che avviene l’epilogo del racconto in modo del tutto inaspettato e al contempo ineluttabile. Nel racconto di Salem non avviene nessuna metamorfosi entomologica del soggetto, la metamorfosi riguarda piuttosto il mondo che lo circonda. Infatti, disorientato da queste porte che non conducono da nessuna parte, l’uomo alza gli occhi al soffitto e lì scorge un ragno che, dalla descrizione, risulta essere “nero e voluminoso, grande quanto due pugni; in tutta la tua vita non avevi visto nulla di simile”. Tra lo stupore e il disgusto, l’aracnide dall’angolino del soffitto si sposta verso il protagonista fino a fermarsi proprio in corrispondenza del suo capo; tutto è pronto, la tragedia può avvenire. Nell’attimo di massimo smarrimento, l’insetto allunga le sue zampette nere, “decine di zampe”, circonda l’uomo ingabbiandolo; preso in trappola, mentre cerca di divincolarsi, egli viene punto a morte dal ragno e agonizza tra gli applausi del pubblico che assisteva allo spettacolo teatrale allestito al Grand Hotel.

Sicuramente quella di Salem non risulta essere una riscrittura del racconto di Kafka, né una sua pallida imitazione, ma un capovolgimento del punto di vista poiché la simbologia della metamorfosi è attribuita all’esterno del soggetto e non al suo interno. Come ricorda Pietro Citati nel suo saggio dedicato all’autore ceco, Kafka avvertiva dentro di sé l’animale nascosto e temeva che questi potesse palesarsi all’improvviso e materializzare l’angoscia di essere cacciato dal mondo; mettere per iscritto dunque una tale eventualità sembra quasi un esercizio apotropaico. Le Metamorfosi iniziano con la transizione da uomo ad animale già compiuta e si assiste al graduale svanire della componente ‘umana’ di Gregor fino alla sua morte che avviene per consunzione: l’insetto-uomo si lascia morire, s’immola, accetta la propria fine perché il mondo possa perpetrarsi e continuare il suo corso. Gregor si rende conto che non ha più un posto nell’universo ed accoglie la morte.

In un certo senso, anche il protagonista di Salem si rende conto di essere estraneo alla realtà che lo circonda e non solo in questo racconto, è quasi sempre un pesce fuor d’acqua, ma non per colpa sua; non è lui ad essersi trasformato, è il mondo delle cose, è la Siria degli anni ’60-’70 che ha subìto la metamorfosi. Per questo l’insetto non è dentro l’io, ma esterno; per questo l’insetto che si accorge di un soggetto che non è spettatore, bensì attore, deve entrare in azione ed eliminarlo. Ecco che appare evidente la grande differenza tra Kafka e Salem: in Kafka il protagonista capisce di essere fuori luogo e accetta di soccombere; in Salem il protagonista inizialmente è spaesato, ma quando poi capisce di essere fuori dal coro, non lo accetta passivamente, ma prova a combattere, a resistere al ragno che lo sta avvelenando, pur non riuscendoci.

In tutta la sua produzione, Salem ha dato un peso fondamentale alla simbologia, sia essa letteraria, religiosa (cristiana, musulmana o zoroastriana) o storica. Il Grand Hotel non fa eccezione e nel 1973, anno di pubblicazione della raccolta in cui è compreso, lancia un grido e un monito alla società siriana che non è stato colto. In quegli anni Hafez al-Asad è ormai al potere e l’allarme Salem lo lancia attraverso un ragno grande due pugni che in un albergo così elegante non avrebbe dovuto esserci.

Ammantati di un’aura fantastica, a tratti quasi distopica, gli scritti di Salem appaiono oggi quanto mai attuali e potenti e, forse, è questa la ragione per la quale, dopo la sua prematura scomparsa, egli sia stato volutamente messo in un baule in soffitta e dimenticato lì. Quel ragno faceva troppa paura, avrebbe potuto ingabbiare il dittatore e, allora, meglio lasciarlo dove non poteva arrecare danno.


[1] In italiano di George Salem è disponibile: La storia della sete antica, MReditori, Trentola Ducenta, 2019. Il singolo racconto La storia della vecchia sete è invece incluso in I. Camera d’Afflitto (a cura di), Scrittori arabi del Novecento, 2 voll., Bompiani, Milano, 1994, pp. 211-219.

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: