E se fossi morto? Di Muhammad Dibo

Recensione Siria di Zuleika Abd El Sattar

Damasco – courtesy of cleopatrarogers

Un’opera tra fiction, trattato politico e diario intimistico

 Muḥammad Dibo è nato a Banyās, sulla costa siriana, nel 1977. Laureato in Economia all’Università di Damasco, è giornalista, poeta e scrittore. Partecipa alla rivoluzione siriana fin dalla prima ora, viene arrestato nel 2011, torturato in carcere e successivamente rilasciato. Attualmente in esilio a Berlino, collabora con numerose testate giornalistiche di rilievo internazionale ed è caporedattore di SyriaUntold, testata che si occupa di attivismo civile. 

  Nel 2014 pubblica Kaman yušāhidu mawtahu[1], un’opera che si colloca alla convergenza tra fiction, trattato politico e diario intimistico, tradotta in italiano come E se fossi morto? (Il Sirente, Fagnano Alto, 2015, traduzione di F. Pistono). Il corpus narrativo è infatti costituito di lettere, indirizzate all’amatissima madre, di riflessioni sul ruolo del potere autocratico, sulla situazione di terrore costante in cui vivono i cittadini siriani che si oppongono al regime, sul controllo esercitato sulla Siria dagli Stati stranieri, e di ricordi della propria storia di dissidente e della propria esperienza di prigioniero politico. 

  Più che come un romanzo, il testo si potrebbe definire come un flusso di coscienza, costituito di pensieri, ricordi, sogni, delusioni, speranze. Al centro delle riflessioni dell’autore, la Siria, da troppo tempo martoriata dalla dittatura prima, dalla guerra civile poi. 

 Il testo si apre con un esordio che rimanda immediatamente alle strutture narrative del noir o del thriller: un giorno l’autore, voce narrante in prima persona, riceve all’alba una telefonata da un’amica che vuole accertarsi che, dall’altro capo del filo, l’interlocutore sia ancora vivo. Dapprima sorpreso dalla strana domanda, dopo aver rassicurato l’amica, il protagonista apprende da quest’ultima la notizia dell’uccisione nel corso di una manifestazione, nella città di Dūmā, di un giovane che porta il suo stesso nome, Muḥammad Dibo. Il caso di omonimia getta nello sgomento e nello sconcerto il protagonista, che riflette inizialmente sui paradossi della quotidianità e della vita, soprattutto in un paese in cui la morte sembra non fare più notizia, diventata ormai l’abituale compagna dei cittadini siriani.

    Dopo le riflessioni iniziali sul senso della vita e della morte, l’autore si sofferma sul tema del doppio, del sosia, non solo come espediente letterario per raccontare la molteplicità dello spirito umano, ma anche e soprattutto come pretesto narrativo per indagare la dualità bene-male insita in ogni individuo e l’arbitrio del destino nel forgiare due uomini dallo stesso nome che, per un mero caso, possono scambiarsi sorte e fortuna.  Osserva a questo proposito Donatella Della Ratta: 

«Mohammed Dibo, l’uomo che non fa più ritorno dalla manifestazione, e Mohammed Dibo lo scrittore, che oggi ci consegna queste parole, sono l’uno il doppio dell’altro. C’è chi muore per chiedere dignità, e chi rimane, interrogandosi sul perché questa legittima e genuina domanda sia stata ignorata dal potere locale e dai poteri mondiali, o, peggio, calpestata nel sangue»[2]

  Tutti gli individui, secondo l’analisi dell’autore, nascono uguali nella propria intima essenza, perfino negli affetti, nonostante le differenze o addirittura la disparità di condizioni delle singole esistenze. I giochi pericolosi della politica e del potere innestano elementi di diversità nei destini delle persone. 

  L’evento angoscioso induce l’autore-protagonista a una riflessione sulla situazione siriana e sulla propria storia di dissidente, spingendolo a ripercorrere i dolorosi anni della crisi e quelli che li hanno immediatamente preceduti. Rivolgendosi al proprio alter ego cui è toccato in sorte un destino tragico, il protagonista indaga la condizione umana e offre una lunga testimonianza sulla rivoluzione siriana, dal suo esordio sull’onda della Primavera araba fino al suo sgretolarsi sotto il duplice urto della macchina repressiva del potere e della fragilità del fronte interno.  

  L’opera prosegue sotto forma di una lettera aperta dell’autore alla madre. La madre, infatti, è stata spesso considerata da Dibo una catena, che lo ha stretto tra il desiderio di non farsi bloccare nel seguire la propria strada e la volontà di non arrecarle sofferenza con la propria attività politica di oppositore del regime, giacché la donna aveva già vissuto la stessa angoscia a causa del marito, anch’egli dissidente e morto precocemente.  Rievocando una convocazione presso una sede dei servizi di sicurezza per aver scritto un testo contestato, l’autore così esprime i propri sentimenti nei confronti della madre: 

  «La tua angoscia e il mio senso di colpa mi facevano salire le lacrime agli occhi: ho pianto tanto, mamma, senza che te ne accorgessi, quel giorno. Non piangevo per me, ma perché temevo per te, per il rimorso che mi divorava, per il dolore che ti causavo»[3].

  Con la lettera alla madre, si apre il diario intimistico di Dibo, che, da un lato, narra l’esperienza di prigioniero politico dell’autore, incarcerato e torturato per reati di opinione, dall’altro si trasforma, per certi aspetti, in un lungo servizio giornalistico sulla Siria contemporanea, per altri, in un saggio sotto forma di confessione sul tema della dittatura e del carcere come fabbrica di paura, della società siriana che vive immersa nel sospetto e nella diffidenza del cittadino nei confronti dei propri simili, della condizione degli intellettuali, bersaglio del potere perché capaci di denunciare quella fabbrica del consenso sulla quale si regge la fragilità di un potere cieco, privo di energia e di progettualità. 

Non manca una riflessione, di carattere esistenziale e filosofico, sulla capacità dell’uomo di resistere alla paura, alla tortura, al dolore fisico e all’umiliazione. Un posto a parte occupano le considerazioni sul significato del tempo in carcere e sul valore della coscienza, che viene a volte appannata, o addirittura annullata, dalla condizione di prigioniero in balia di eventi che l’uomo non può dominare.    Con ironia l’autore sottolinea come, da troppo tempo, in Siria non sia nato un filosofo in grado di comprendere e interpretare il corso della storia e di presentare orizzonti nuovi. Da questo fatto, dall’assenza di intellettuali capaci di farsi interpreti degli eventi storici e politici, nasce la crisi di un paese il cui popolo risulta diviso in dissidenti e servitori del potere, un popolo comunque incapace di sottrarsi al giogo del dittatore.

  Gli intellettuali si trovano troppo spesso in uno stato di confusione che impedisce loro una visione nitida della realtà: a volte provano un sentimento di vergogna per la morte degli altri, altre sono vittime di un senso di impotenza, altre volte ancora sono oppressi dalla responsabilità civile nei confronti della società e dalla responsabilità affettiva verso i propri cari. Le due sponde della società siriana, contrapposte e incapaci di dialogare, sono state troppo spesso ingannate e illuse da intellettuali incapaci di fornire una lettura lucida della realtà. 

  La confusione è penetrata fino alle radici del linguaggio. L’autore si domanda infatti, per esempio, chi debba essere considerato un martire, giacché tutte le parti in causa si sono appropriate della parola “martire”. Chi muore nella lotta contro la tirannia è definito “martire”, come pure chi cade combattendo per il regime. Quando poi il termine è adoperato perfino per indicare quelli che causano morte in attentati suicidi e terroristici, ciò significa che l’intera società è in preda alla confusione più profonda. «Provo vergogna per la morte di tante persone», osserva amaramente l’autore[4].

  Della confusione si serve il regime per costruire e alimentare la finzione di uno scontro su basi settarie, agitando lo spettro del settarismo in un paese in cui la maggioranza sunnita viene indotta a vendicarsi con il sangue delle minoranze, mentre l’opposizione sottovaluta la gravità del problema affermando che “il popolo siriano è uno solo”.

  Al tema della confusione si accompagna quello del dolore dello scrittore di fronte al suo popolo lacerato, dilaniato da divisioni insanabili, un popolo i cui membri sono tutti ostaggi del potere, dei poteri in campo. A questo proposito, osserva Donatella Della Ratta:

  Lo scrittore non perde la lucidità dell’analisipolitica, che è presente in questo libro sempre, insieme al lirismo poetico, insieme al dolore per un popolo e una storia che si perdono. In un momento in cui il mondo intero rischia di cadere nell’errore del revisionismo storico, nella scelta che pare obbligata fra l’autoritarismo politico e la teocrazia estremista, lo scrittore ricorda che la radice malata al principio di quest’ultima sta nella perversione della dittatura. Una dittatura che ha trasformato un popolo di cittadini in informatori e spie, che ha soffocato il significato di amicizia e di lealtà innescando terrore e inducendo a tradire il proprio simile, a condannarlo a morte per poter continuare a vivere[5].

  Un simile regime non poteva essere riformato, osserva l’autore, non era possibile «tentare di ricoprire quel marciume, bisognava sforzarsi di eliminarlo»[6].

  L’indagine di Dibo si estende quindi dalla situazione politica alla realtà sociale, in un’analisi in cui l’autore esprime considerazioni di carattere sociologico. Interessanti, per esempio, le osservazioni sugli Šabbīḥ, i miliziani del regime, che, pur essendo assassini, sono anche padri di famiglia che amano i propri figli. L’autore si interroga su come questi figli, specialmente quelli piccoli e innocenti, possano essere protetti affinché su di loro non si abbatta un domani la ruota tragica delle colpe dei padri che ricadono sui figli. A proposito di uno squadrista e dei suoi figli, nota l’autore: «Come poteva accarezzare i suoi bambini con quelle stesse mani che avevano premuto il grilletto per uccidere un altro uomo, che aveva una famiglia proprio come lui?  Non aveva paura che i parenti di coloro che uccideva si vendicassero sui suoi figli e sulla sua famiglia, se li avessero scoperti?  (…) Chi protegge i bambini dai padri assassini?»[7]

  Analogamente, esistono nella società siriana personaggi ambigui, che sono spesso al tempo stesso vittime e carnefici: in primo luogo i carcerieri e i poliziotti, prototipi di un’umanità disumanizzata dal sistema istituzionale. 

  A proposito di un carceriere, osserva l’autore: 

  «Hai perduto la tua umanità: questa è la tua prigionia peggiore, non sei un carceriere, né un prigioniero, né un uomo libero». 

  Ciononostante, l’autore incontra, nel corso della sua esperienza detentiva, anche carcerieri dal volto umano, con cui è possibile intessere un filo sottile di solidarietà umana e, talvolta, perfino di amicizia. 

  Ricorrendo a una scrittura esile, lieve eppure molto densa, l’opera offre una miriade di spunti che sembrano emergere senza retorica, quasi per caso, dal flusso della coscienza, soprattutto per quanto riguarda le memorie della prigionia: il ritorno alla preghiera da parte di chi non la pratica più da decenni, il senso di fastidio provato da carcerieri che forse interpretano questo momento di interiorità dei detenuti come una forma di rivolta silenziosa e, per questo, ancora più inquietante; il tema della memoria e della speranza, della prospettiva del futuro; la dimensione del tempo in carcere, vissuto concentrandosi sulle piccole cose e sul riempimento delle ore e dei giorni forzatamente vuoti anche con delle inezie, pur di evitare il fenomeno della disumanizzazione. E ancora certamente il senso del terrore, dell’umiliazione e dell’annullamento, cifra di ogni sistema carcerario.

  Infine, la riflessione sui temi della libertà e della solidarietà. La prima tematica è affrontata dall’autore con una consapevolezza esistenziale lontana dalle grandi dichiarazioni di principio. La libertà è tale soltanto quando l’uomo non si accorge di viverla, un po’ come accade per la salute e per la vita stessa:

    L’esistenza della libertà, descritta come qualcosa di sacro che ti porta alla perdizione, è una falsificazione della sua essenza, l’esistenza della libertà descritta come un sogno, che svanisce in un attimo per paura della morte o dell’arresto (come nella nostra situazione) è anch’essa una falsificazione. Siamo veramente liberi quando viviamo senza accorgerci della libertà e senza essere costretti a nominarla. La libertà ce l’hai quando non ti rendi conto di essere libero, quando la vivi così come respiri.   

  Il testo si chiude aprendo uno spiraglio alla speranza. La speranza è costituita da quel filo di umanità di cui ci racconta l’autore, che unisce prigionieri e secondini anche nel buio delle carceri. 

  Per parlare di speranza, l’autore ricorre alla metafora delle colombe. Le colombe, che prima volteggiavano indisturbate nel cielo di Damasco, sono ora fuggite, si sono rifugiate nei tubi del gas e lì vivono, cercando riparo dalle bombe e dagli aerei militari che hanno preso possesso di quello che una volta era il loro spazio. Si sono adattate, ma non rassegnate, alla guerra e alla morte. Il popolo siriano è là, nascosto insieme a quelle colombe, in attesa di riprendere il suo cielo e di ricominciare a volare:

 «Come l’aereo sparisce dal cielo, patria delle colombe, così la tirannia sparirà dalla mia patria, perché le colombe ci sono alleate nel viaggio verso la libertà… (…) Perché volino le colombe e piova su di noi: libertà, libertà, libertà nel cielo di Damasco! Saranno sconfitte le colombe? Assolutamente no»[8].


[1] M. Dībū, Kaman yušāhidu mawtahu, Dimašq, Bayt al-Mūāṭin, 2014.

[2] D. Della Ratta, Introduzione a M. Dibo, E se fossi morto? op. cit., p. VII.

[3] M. Dibo, E se fossi morto? op. cit., p. 29.

[4] Ivi, p. 100.

[5] D. Della Ratta, Introduzione aM. Dibo, E se fossi morto? op. cit., p. IX. 6 M. Dibo, E se fossi morto? op. cit., p. 92.

7 Ivi, p. 114.

[6]

[7]

[8] Ivi, p.117.

Rispondi

%d