Muhsin Al- Ramli e la tragedia del popolo iracheno

Articolo Iraq di Zuleika Abd El Sattar

Muhsin Al- Ramli, scrittore, poeta e traduttore iracheno, appartiene a quella generazione di intellettuali che, nati e cresciuti in Iraq ma in esilio in Europa, si affacciano alla ribalta del nuovo millennio con opere letterarie in cui si riflettono, come in uno specchio, i drammi vissuti dalla società civile, le problematiche della condizione umana nel contesto di un regime autocratico, le tematiche della guerra, della distruzione e del caos. Nato nel 1967 in un piccolo villaggio dell’Iraq settentrionale, Muhsin Al- Ramli ha avuto modo di sperimentare ben presto la brutalità del regime di Saddam Hussein: nel 1990, suo fratello, Hassan Mutlak, famoso poeta, è stato giustiziato per aver partecipato a un tentativo di colpo di Stato. Rifugiatosi In Spagna nel 1995, laureato in Filologia spagnola all’università di Baghdad, Al-Ramli ha conseguito un Dottorato di ricerca in Filosofia, Lettere e Filologia spagnola. Oggi vive stabilmente a Madrid, è docente universitario, scrittore e traduttore. Due suoi romanzi, Dita di datteri (2008) e I giardini del presidente (2012), sono stati selezionati per l’Arabic Booker Prize di Abu Dhabi, uno dei premi più prestigiosi per la letteratura araba. Ha tradotto in arabo alcune opere di Miguel de Cervantes, Lope de Vega e José de Espronceda. È fondatore, editore e co-direttore della rivista culturale ALWAH, l’unica rivista culturale in lingua araba in Spagna. I suoi romanzi sono stati tradotti in inglese, in spagnolo e in italiano.

I romanzi di Al-Ramli si caratterizzano tutti per una notevole componente autobiografica, a partire dall’ambientazione: in I giardini del presidente, come già in Dita di datteri e in Cugini, addio!, le due precedenti opere di narrativa dell’autore, la vicenda si apre e si svolge, in tutto o in parte,  in un remoto villaggio contadino nel nord dell’Iraq, del tutto simile a quello in cui lo scrittore è nato e cresciuto, un borgo rurale che si affaccia sulle rive del Tigri, la cui vita semplice e idillica viene sconvolta dalla barbarie della dittatura. Il confronto tra un passato in cui la vita scorreva tranquilla, pacifica, scandita da rassicuranti rituali sempre uguali a se stessi, e un presente lacerato dalla violenza del regime e della guerra è sempre presente nei testi di Al-Ramli. Alla felicità del passato perduto è accostata l’innocenza dell’infanzia e dell’adolescenza, mentre l’oscurità del presente si identifica con l’età adulta, con la perdita dei sogni e delle speranze. Numerose sono le descrizioni, in tutti i romanzi, del villaggio natale, delle sue modeste ma ospitali case di argilla, del fiume e delle sue rive, della natura incontaminata che circonda il piccolo paese. Si tratta di una terra erede di antichissime civiltà, che non smette di restituire ai suoi figli preziosi reperti, come armi, gioielli, pannelli ornati di pitture o coperti di iscrizioni; anche se non sempre gli abitanti si rendono conto del valore di tali oggetti, è come se un filo sottile e misterioso legasse i vivi e i morti, i moderni abitanti ai remoti antenati. I paesaggi e i panorami delle campagne, dei deserti e dei villaggi iracheni sono evocati attraverso il prisma dell’esilio e della nostalgia, nella consapevolezza di come quei luoghi e la vita che in essi si conduceva siano parte di un passato perduto per sempre, di un universo che non esiste più. L’Iraq, dunque, è rivisitato, nei romanzi di Al-Ramli, attraverso la cifra del ricordo, dello struggimento, del senso di perdita di un passato mitico, ma non è considerato dall’autore un luogo in cui fare ritorno per riprendere le fila di quell’antica vita.  

I giardini del presidente può essere senza dubbio considerato un romanzo storico giacché ripercorre tre decenni di storia irachena, narrando come la dittatura, le guerre, l’invasione americana abbiano mutato per sempre il volto del Paese e stravolto la vita, i costumi, i sentimenti della popolazione. Il regime di Saddam Hussein, la guerra Iran-Iraq, la prima Guerra del Golfo, l’invasione americana del 2003 e la conseguente caduta del regime sono infatti gli eventi storici intorno ai quali ruota la narrazione, mostrando come la vita dei singoli e dell’intera comunità sia travolta, lacerata, spesso annientata dal turbine degli avvenimenti, subiti, non voluti, dalla popolazione.   

I toni e il linguaggio crudo della narrazione si adeguano agli orrori vissuti dall’Iraq, che costituiscono molto spesso la materia incandescente che gli scrittori iracheni si trovano costretti ad affrontare per narrare al mondo la violenza e la morte inflitte alla popolazione in tutte le sue forme. I crimini della dittatura, il trauma della guerra, la distruzione di intere città, le strategie elaborate dall’essere umano per superare angoscia e tormento, costituiscono lo sfondo, se non addirittura la trama, della maggior parte dei romanzi iracheni composti nell’ultimo quindicennio. Come Muhsin Al-Ramli, molti autori scelgono di raccontare l’orrore fondendo l’elemento fantastico con quello quotidiano, l’aspetto orrido e macabro con quello ironico e grottesco, aggiungendo spesso un tocco di black humour alla narrazione per mitigarne la crudezza. Tra orrore e denuncia, tra violenza esponenziale e fantasia macabra, il nuovo romanzo iracheno, descrivendo la raccapricciante realtà del Paese, sottolinea come la violenza cieca non produca che dolore e ingiustizia.

La tematica portante del romanzo, come in tutta l’opera di Al-Ramli, è quella dell’oppressione che un regime autocratico esercita sulla società civile. In questo testo, come in molti altri scritti dell’autore, la dittatura e la guerra sono considerate le due facce di una stessa medaglia, e, in particolare, la guerra, con il suo corollario di distruzione e di lutti, è individuata come una diretta conseguenza della dittatura. Il regime autocratico è, in questo caso, quello di Saddam Hussein, che travolge i ritmi secolari e l’esistenza serena e operosa della piccola comunità. La figura del dittatore, in tutte le opere di Al-Ramli, è sempre rappresentata a tinte estremamente fosche, come un individuo sadico, crudele e folle, responsabile di molte delle disgrazie che hanno colpito l’Iraq negli ultimi decenni. Il disprezzo che l’autore riserva al deposto tiranno si evidenzia nel fatto che lo scrittore non nomina mai, nelle sue opere, il dittatore, non ne menziona mai il nome e il cognome, indicandolo sempre e soltanto come il “presidente” o il “Leader”.

Il rifiuto di Al-Ramli di citare il nome di Saddam Hussein non può imputarsi al timore di ritorsioni o di vendette, giacché, quando ha pubblicato i suoi romanzi, l’autore si trovava già al sicuro in Spagna oppure il presidente era già morto.

Nelle opere che precedono I giardini del presidente non mancano inquietanti ritratti di Saddam Hussein, come quelli presenti in una delle prime opere dell’autore, il breve romanzo autobiografico al-Fatīt al-mubaʿṯar, (Briciole sparse, 2000) dedicato ad alcuni componenti della famiglia dello scrittore, morti in guerra, fucilati come disertori o, come lui, costretti all’esilio:

«Il deputato di campagna aveva detto: “A volte, i miei vicini ed io alziamo un muro tra noi, altre volte lo abbassiamo. A volte piantiamo cocci di vetro in cima al muro, altre piantiamo fiori. Ma non ci siamo mai ammazzati tra di noi, i vicini fanno parte della famiglia e la guerra di per sé è cosa deprecabile, in cui perde anche il vincitore” (…). Si dice che il Leader avesse accolto con garbo il parere del deputato. Era democratico, così aveva convocato il deputato per un colloquio privato. Lo aveva condotto in una stanza adiacente alla sala delle conferenze, che poteva forse essere un bagno. Dall’altra parte della porta, i parlamentari avevano udito rimbombare un colpo di pistola, quindi il Leader era uscito, chiedendo se ci fossero altre opinioni dissidenti. Non si era levata voce alcuna, così il Leader aveva dichiarato la guerra in nome del popolo iracheno e dei suoi rappresentanti». [1]

Questo ritratto di Saddam Hussein riecheggia anche nelle parole di uno dei protagonisti di al-Fatīt al-mubaˤṯar, un parente dell’autore, fucilato per aver rifiutato il concetto stesso di guerra. In una discussione con il padre, convinto nazionalista e acceso sostenitore del Leader, l’autore mette in bocca al personaggio le seguenti frasi:

«Qasim si chinò a baciare la mano di suo padre: “No, padre, non fraintendermi. Amo il mio Paese, come lo ami tu e come lo amava mio nonno. Ma odio quell’uomo”. Mia zia domandò: “Quale uomo?” Suo marito le rispose: “Non hai sentito? Intende dire il Leader. Dov’è la differenza? Il Leader è la patria e la patria è il Leader”. “No, padre, queste sono le chiacchiere della televisione. Per quanto mi riguarda, penso il contrario, perché il Leader ha distrutto il Paese”».[2]   

Il terzo ritratto che Al-Ramli dedica a Saddam Hussein è quello presentato nelle pagine de I giardini del presidente; sicuramente, fra tutte le descrizioni dell’autore, risulta essere quella più fosca e terrificante, in cui il tiranno appare come un individuo disumano e brutale, capace di assassinare a sangue freddo un anziano musicista, dopo averlo lungamente torturato. La scena, ambientata nel parco della residenza presidenziale di Baghdad, con la descrizione del vecchio liutista costretto a suonare e a cantare al cospetto di un presidente che lo minaccia con armi di ogni tipo prima di risolversi a trucidarlo, assume tinte decisamente noir.

«In un bagno di lacrime, sudore, moccio e terrore, il musicista cantava con voce rauca, soffocata, mentre il presidente sghignazzava sonoramente. Poi si voltò, mentre gli uomini liberavano una colomba dietro la testa del musicista. Il presidente le sparò, subito ne apparvero un’altra, un’altra, un’altra ancora. Il presidente sparava e sparava, mentre i colpi rimbombavano nelle orecchie dell’atterrito liutista. (…) . La cosa andò avanti finché non si girò e ordinò ai suoi uomini di liberare un intero stormo di colombe. Il presidente riprese a sparare, lo strepito delle pallottole incendiava l’aria. Infine abbassò il fucile, mirando alla testa del musicista, gli sparò a bruciapelo una pioggia di proiettili che scaraventarono il pover’uomo nell’acqua».

La figura del dittatore è quella di un uomo reso folle e irresponsabile dall’eccesso di potere e dall’illimitata fiducia in se stesso. La colpa più grave che Al-Ramli imputa al deposto presidente iracheno è quella di aver trascinato il Paese in una serie ininterrotta di guerre, tutte disastrose per la società civile. Si tratta di guerre che hanno devastato il territorio, distrutto le infrastrutture, annientato l’economia nazionale, lacerato il tessuto sociale con il risorgere del mai sopito settarismo, ma, soprattutto, di conflitti che hanno lasciato ferite indelebili nel corpo e nello spirito dei cittadini che sono stati inviati al fronte a combattere. Nel villaggio in cui vivono i tre protagonisti de I giardini del presidente, non c’è famiglia che non abbia perduto un componente, non c’è quasi uomo che non abbia perduto un arto o riportato lesioni permanenti in una delle numerose guerre che hanno coinvolto il Paese. Osserva, a questo proposito, Suhayl, il padre di Ibrahim:

«Io ho perduto il naso in una guerra, tu hai perduto il piede in un’altra. Non so che cosa sia meglio, se perdere il naso o un piede. In ogni caso, qualunque cosa è meglio che perdere la vita».

La guerra, anzi il susseguirsi incessante di guerre scatenate dalla politica suicida del presidente, è una delle tematiche portanti del romanzo.  L’esperienza della guerra è destinata a travolgere e a devastare l’esistenza dei tre inseparabili amici protagonisti del romanzo, Ibrahim, Abdullah e Tareq. I primi due vivono il primo impatto con la guerra nel conflitto Iran-Iraq (1980-1988), quando vengono inviati al fronte appena ventenni. Mentre Ibrahim riesce a tornare a casa, dopo otto anni passati al fronte, dalla moglie e dalla figlia Qisma, un diverso destino attende Abdullah, che viene catturato dai soldati iraniani per poi vivere una durissima prigionia prolungatasi per circa vent’anni. Nelle carceri iraniane, Abdullah è picchiato, torturato, costretto ad assistere al barbaro assassinio dei commilitoni e a subire estenuanti lezioni di indottrinamento da parte dei religiosi sciiti iraniani. Quando finalmente torna a casa dopo la terribile esperienza, si sente un uomo finito, svuotato, che non ha più la forza né la voglia di vivere. Anche se ha soltanto quarant’anni, rifugge l’idea del matrimonio con la donna amata in gioventù, negatagli dalla volontà del padre di lei. Si rifugia nella solitudine, nell’isolamento e in un atteggiamento aprioristicamente pessimista, addirittura nichilista, che gli procura i soprannomi di “Kafka” e di “principe dei pessimisti”. Dalla deriva totale lo salva solo l’amicizia di Ibrahim e di Tareq, l’imam, il professore, che, grazie alla sua posizione sociale e alle sue buone amicizie, riesce sempre a evitare di essere spedito al fronte.

Il romanzo presenta il pregio di gettare uno spiraglio di luce su un argomento quasi del tutto sconosciuto al lettore europeo, quello dei sanguinosi conflitti mediorientali. Muhsin Al-Ramli, attraverso la voce narrante di Abdullah, descrive alcuni scenari della guerra Iran-Iraq, focalizzando quindi l’attenzione sulla condizione dei prigionieri iracheni nella Repubblica Islamica, gli ultimi dei quali sono stati liberati soltanto nel 2003, dopo una prigionia protrattasi fino a un tempo di ventitré anni.

La guerra Iran-Iraq del 1980-’88 irrompe dunque nella narrativa irachena, raccontando come la morsa del reclutamento, della coercizione e della propaganda siano diventate il marchio distintivo della dittatura. Agli occhi di molti scrittori iracheni, non soltanto di Al-Ramli, l’ascesa al potere di Saddam Hussein nel 1979 e lo scoppio del conflitto Iran-Iraq del 1980 hanno messo in moto il meccanismo infernale della concatenazione delle guerre e della devastazione progressiva che ha lacerato la società civile per oltre trent’anni.  La guerra Iran-Iraq rappresenta, nell’immaginario letterario iracheno, una cesura nella storia del Paese, un’esperienza di formazione per gli iracheni come la Prima Guerra Mondiale lo è stata per gli europei. Il confronto con la Grande Guerra risulta particolarmente calzante, giacché la guerra Iran-Iraq si caratterizza per l’esperienza delle trincee lungo un fronte di milleduecento chilometri, per le immagini di soldati che avanzano e si si ritirano continuamente su una terra di nessuno, per l’alienazione dei reduci, per il sospetto generalizzato che quella guerra, terminata con una sostanziale situazione di parità, non avesse in realtà uno scopo ben determinato. 

I romanzi del dopoguerra tentano di riprodurre la violenza che Saddam Hussein ha inflitto al popolo iracheno, con la morte di tanti giovani al fronte. La voce narrante di al-Fatīt al-mubaʿṯar ricorda infatti:

«Non ci interessavano le vittorie: le bandiere innalzate sulle terre liberate si moltiplicavano, così come si ingrandiva il nostro cimitero, per accogliere i cadaveri dei figli del paese. Furono avvolti nelle bandiere della patria, altre bandiere sventolavano sulle tombe, finché il nostro vecchio cimitero non si trasformò in un bosco di bandiere, in cui le madri piangevano».[3]

Alla schiera dei “martiri”, caduti in battaglia, si aggiunge quella dei fucilati per diserzione. Le prigioni civili e militari rigurgitano di disertori. I soldati si spingono al punto di procurarsi gravi lesioni pur di lasciare il fronte e tornare a casa, come accade nell’episodio che Ibrahim racconta alla moglie Umm Qisma, relativo all’amico Ahmad al-Najafi, disperato al punto di arrivare a spararsi da solo pur di sfuggire alla vita in trincea.

Ma la guerra Iran-Iraq, per quanto terribile, è soltanto il primo dei conflitti destinati a sconvolgere la vita dei tre protagonisti. L’incubo iniziato per la società irachena con la guerra Iran-Iraq prosegue e si inasprisce nello scenario apocalittico della prima Guerra del Golfo (1990-91). Le sofferenze indescrivibili dei soldati iracheni in prima linea e la loro ritirata catastrofica lungo “l’autostrada della morte”, che congiunge Kuwait City con Bassora, sono seguite dall’insurrezione sciita contro il regime di Saddam Hussein e dalla sua sanguinosa repressione nel marzo del 1991. Al-Ramli descrive efficacemente prima la battaglia nel deserto, con i soldati sepolti vivi nelle trincee di sabbia dai carri armati americani, quindi la disastrosa ritirata, raccontando come le colonne di veicoli carichi di militari in fuga siano state polverizzate, incenerite dai bombardamenti americani, nelle prime ore del cessate il fuoco che sarebbe entrato in vigore il 28 febbraio 1991.

Nel romanzo, è il personaggio di Ibrahim a trovarsi nel deserto del Kuwait durante i combattimenti insieme al commilitone e amico Ahmad al-Najafi. Le scene della battaglia sono descritte nei toni del più crudo realismo, in termini spaventosi e angoscianti: nel deserto, a nord-ovest di Kuwait City, «i soldati iracheni resistevano, combattevano nella disperazione e morivano». Le immagini dipinte dall’autore sono tremende: i soldati iracheni sventolano stracci bianchi in segno di resa, ma i carri armati americani calpestano gli uomini e le ruspe li seppelliscono, vivi e urlanti, nelle trincee di sabbia. Le loro grida di aiuto, le loro invocazioni di pietà si levano disperate al di sopra del fragore delle ruspe e delle mine che esplodono, ma nulla vale a salvarli. 

Muhsin Al-Ramli non è l’unico scrittore iracheno a narrare la completa impotenza dei soldati iracheni durante il tragico scontro nel deserto. Nel suo romanzo Mā baʿd al-ḥubb (Oltre l’amore, 2003), l’autrice irachena Hadiya Hussein raffigura i soldati iracheni nelle trincee in termini simili a quelli utilizzati da Al-Ramli: gli uomini nelle trincee sono descritti come “vermi terrorizzati”, “una colonia di formiche smarrite”, “scarafaggi schiacciati”, “masse in cammino verso la morte”[4], focalizzando l’attenzione, da un lato, sulla soverchiante superiorità dell’esercito americano, ma anche, dall’altro, sulle colpe del presidente, sulla sua leggerezza nell’esporre al pericolo mortale le truppe irachene già demoralizzate.

Alla tragica sconfitta segue la disastrosa ritirata dei soldati iracheni verso i confini nazionali lungo “l’autostrada della morte”. Ibrahim e Ahmad arrancano, insieme a gruppi di commilitoni allo sbando, verso nord, verso l’Iraq, cercando soltanto di sfuggire alla morte e di guadagnare la via di casa. Ma gran parte di loro è destinata a essere incenerita lungo la strada: «Per i viaggiatori cominciò la colata di lava. (…) Membra umane e schegge di metallo si sparpagliavano tra le lingue di fuoco, nel tuono delle deflagrazioni. La strada si trasformò in un incubo di esplosioni, fuoco, fumo, arti, sangue, rottami, cenere, morte… Era l’autostrada della morte, sopra o intorno alla quale qualunque cosa si muovesse veniva immediatamente incenerita».

Una descrizione che richiama da vicino quella di Hadiya Hussein, che parla dei soldati in fuga come di “sabbiosi oggetti fusi con il deserto”:

«Sotto il fuoco», scrive la Hussein, «si erano sciolti con l’acciaio dei loro veicoli e i loro corpi erano stati carbonizzati»

Ahmad viene colpito, cade. Anche Ibrahim è gravemente ferito, un proiettile gli ha quasi staccato un piede. Quando rinviene, in preda al dolore ma soprattutto a un’angoscia senza nome, assiste a una scena orripilante:

«Quando aprì gli occhi era in preda a una sete terribile. Giaceva in un mucchio di cadaveri, sembrava che la terra non fosse vasta abbastanza per contenerli tutti. Sollevò la testa e guardò verso sinistra. Non lontano, due cani stavano sbranando un corpo umano. Si voltò dall’altra parte: vide un cane dal volto umano avanzare verso di lui. Cercò di alzarsi, ma non ci riuscì. Un braccio, sotto il suo corpo, era inerte. Il cane dal volto umano si avvicinava a lui tranquillamente, muovendosi fra i cadaveri. La mostruosità di ciò che vedeva lo paralizzò. Quando l’animale si girò, l’uomo realizzò che il cane non aveva fattezze umane, stava semplicemente portando nelle fauci una testa umana, mozza, con la faccia rivolta in avanti. Il cane si allontanò, portandosi via la testa. Ibrahim si voltò verso destra e cominciò a chiamare: «Ahmad! Ahmad, dove sei? Ahmad…» Non capiva neppure se le sue grida fossero reali o se restassero soffocate nel suo petto».

Tutta la narrazione della battaglia e della ritirata è caratterizzata da uno stile che si attiene al più freddo realismo. Questo passo, invece, è pervaso da un’atmosfera onirica, dalla dimensione dell’incubo, collocandosi tra lucidità e allucinazione: la crudeltà della scena è tale da indurre il lettore a chiudere gli occhi, proprio come accade a Ibrahim, incredulo di fronte a ciò che il suo sguardo registra, al punto di preferire abbandonarsi a una nuova perdita della coscienza. Questa scena sembra essere quella in cui la prosa di Al-Ramli si avvicina di più allo stile degli autori iracheni nelle cui opere è massicciamente presente l’elemento orrido, macabro, raccapricciante, come i romanzi Frankenstein a Baghdad di Ahmed Saadawi[5], Il lavatore di cadaveri di Sinan Antoon[6] e la raccolta di racconti Il matto di piazza della Libertà di Hassan Blasim[7]

Un altro tema fondamentale del romanzo è quello dell’amicizia, l’amicizia che unisce i tre protagonisti e che rappresenta un pilastro nella loro vita, accompagnandoli dalla nascita alla morte. Si tratta di un’amicizia molto profonda, nata durante la prima infanzia, consolidatasi negli anni dell’adolescenza, rafforzatasi in quelli della giovinezza.  L’amicizia più stretta, più forte di un legame di sangue, è quella che lega Ibrahim ad Abdullah, cementata dalla comune partecipazione alla guerra, pagata dal primo con la perdita di un arto, dal secondo con una prigionia ventennale.  Ma è forte anche il legame con Tareq, sempre pronto ad accorrere in soccorso degli amici. Dei tre amici, Tareq è quello sul quale si addensa, talvolta, qualche ombra: suo padre, uomo apparentemente generoso e brillante, è, in realtà, un oscuro personaggio, coinvolto in uno scabroso omicidio del passato; lo stesso Tareq, che sembra averne ereditato la posizione sociale e il temperamento, ha svolto un ruolo segreto nel convincere il padre alla decisione di negare il consenso alle nozze di Abdullah con Samiha, la sorella di Tareq. Più tardi, in età matura, la posizioni di Tareq nei confronti delle opposte fazioni che tramano l’assassinio di Ibrahim è, a dir poco, ambigua. Non a caso, Qisma, la figlia di Ibrahim, dopo aver deciso di sposare Tareq, sembra rinunciare al progetto nella conclusione del romanzo, anche se il finale rimane aperto.     

Nell’opera, grande rilievo è attribuito anche all’amicizia che si sviluppa tra Ibrahim e Ahmad, lo sventurato commilitone che perde la vita durante la ritirata lungo “l’autostrada della morte”. Ibrahim è destinato a subire l’amputazione di un piede, condannato a zoppicare per sempre. Ma, più della mutilazione, ad addolorarlo e ad angosciarlo per il resto dei suoi giorni è la consapevolezza di aver abbandonato Ahmad, senza neppure essersi accertato della sua morte. Il rimorso lo tormenterà per lunghi anni, fino a quando non sentirà di essersi riscattato per la sua opera umanitaria nei “giardini” del presidente.

Le sofferenze del popolo iracheno, impersonato ora da Ibrahim, ora da Abdullah, ora da Ahmad, ora da personaggi minori, costituiscono un asse portante del romanzo, che intende mostrare come la dittatura, le guerre, le rivolte sedate nel sangue, ma anche la povertà, l’embargo e la conseguente carenza di cibo e di medicinali, contribuiscano in ugual misura a fiaccare la resistenza della gente comune. 

Tornato a casa, Ibrahim deve infatti affrontare la dura realtà della menomazione, cui si affiancano altre tragedie: l’uccisione del fratello, anch’egli soldato, nel corso della ritirata, la malattia e la morte del padre, il distacco della figlia Qisma che, ancora bambina, smette di stimare e di amare il genitore zoppo e profondamente triste, il tumore che colpisce l’ancor giovane moglie. A livello nazionale, la dittatura, le conseguenze della cocente sconfitta, la povertà e l’embargo rendono durissimi gli anni del dopoguerra. A tutte le disgrazie Ibrahim reagisce con rassegnazione, opponendo al male la pazienza, la bontà, la rettitudine, la convinzione che ogni cosa accada per volontà di Dio, perché così ha scritto il destino. «Ogni cosa è fato e destino», è la sua frase preferita. Se la cifra di Abdullah è il nichilismo, quella di Ibrahim è dunque il fatalismo.

Al nichilismo di Abdullah e al fatalismo di Ibrahim si contrappone nettamente l’ottimismo di Tareq, il suo eterno buon umore, la sua allegria, la sua capacità di vedere il lato positivo di ogni circostanza. Contrariamente ai suoi amici, Tareq non ha partecipato ad alcuna guerra, non ha subito decenni di prigionia o menomazioni, ha potuto portare a termine gli studi, diventare insegnante e imam della moschea, occupare una posizione di rilievo nella regione, come già suo padre prima di lui. È facile per lui ridere e scherzare, farsi ammirare da Qisma per il suo spirito vivace e per il suo eloquio forbito, ed è lui a sollevare l’umore degli amici e ad aiutare fraternamente Ibrahim a trovare un posto di lavoro ben retribuito che gli consenta di provvedere alle costose cure della moglie ammalata di tumore.

Al tema dell’amicizia, che fa in modo che le vite e i destini dei tre personaggi tornino continuamente a incrociarsi, si affianca quello dei segreti, antichi e recenti, del minuscolo paese. La piccola comunità, residente nel sonnolento villaggio adagiato sulle sponde del Tigri, nasconde in realtà oscuri e torbidi segreti. La superficie delle cose, sembra ammonirci l’autore, non deve trarre in inganno l’osservatore: la natura ospitale, affettuosa ed espansiva degli abitanti del villaggio non può evitare che, in seno alla comunità, si celino verità inquietanti e oscuri misteri.   Ai segreti ridicoli, come quello del naso di Suhayl il Damasceno, divorato squallidamente dalla scabbia e non eroicamente perduto in battaglia durante la guerra di Palestina, nel 1948, si affiancano segreti terribili e scabrosi, come quello che circonda la nascita di Abdullah. Quest’ultimo è infatti un trovatello, le cu origini sono avvolte nel mistero: viene trovato un mattino davanti alla casa di una coppia di coniugi senza figli, subito entusiasti all’idea di adottare il neonato. La verità emerge, in tutto il suo orrore, dopo più di quarant’anni, in occasione del ritorno di Abdullah dalla prigionia in Iran. A svelare la storia è Zeinab, un’anziana signora cieca, vedova del sindaco del paese, in realtà nonna di Abdullah, che è figlio del figlio di Zeinab e di una ragazzina ritardata di mente, di cui il figlio del sindaco ha abusato. Il torbido racconto di Zeinab, che narra come la madre di Abdullah sia stata prima rinchiusa in un tenebroso sotterraneo, quindi lapidata in nome della religione, in realtà uccisa per mettere a tacere lo scandalo, rappresenta un punto importante del romanzo, un nodo che si scioglie per connettere il presente al passato, quasi per spiegare le sofferenze della vita di Abdullah in base al detto biblico secondo cui le colpe dei padri ricadono sui figli. E, in effetti, così sembra essere: tutta la vita di Abdullah si configura come una successione di delusioni, tribolazioni e dolori: un’infanzia e un’adolescenza segnate dalla malinconia e dalla tristezza, dall’angoscia di non conoscere l’identità dei veri genitori e il motivo dell’abbandono; una giovinezza funestata dall’impossibilità di sposare Samiha, la ragazza profondamente amata, a causa dell’opposizione del padre di lei, oscuramente e segretamente sostenuto da Tareq; un’età adulta trascorsa nella durissima prigionia iraniana e, infine, una mezza età desolata, vissuta senza voglia di vivere né speranza nel futuro. Le confessioni della nonna Zeinab, che muore il giorno successivo a quello della rivelazione del segreto, accrescono il senso di smarrimento e il sentimento di sfiducia nei confronti dell’umanità e del futuro che già caratterizzano l’atteggiamento psicologico di Abdullah. Adesso Abdullah conosce la verità, sa che sua madre è stata assassinata per un motivo futile, che suo padre è uno stupratore sfuggito alle sue responsabilità, che suo nonno è un omicida, che la sua nascita è dovuta alla violenza su una ragazza ritardata quindi assassinata dal padre dello stupratore per evitare il disonore alla famiglia del sindaco. Simili rivelazioni non possono che esacerbare il già radicato nichilismo di Abdullah. Dopo un momento di crisi, però, inaspettatamente, Abdullah decide di ignorare e dimenticare la storia narratagli dalla nonna, riuscendo così ad attingere a uno sprazzo di serenità.

L’autore esplora nel romanzo anche il tema dell’amore, anche se nessuna delle storie d’amore narrate nell’opera presenta il lieto fine. La prima storia d’amore che il lettore incontra è quella della passione giovanile, tanto intensa quanto sfortunata, tra Abdullah e Samiha, sorella di Tareq. Si tratta di un amore autentico, profondo, di una passione destinata a cambiare per sempre l’esistenza dei due giovani, desiderosi soltanto di unirsi in matrimonio. Ma il lieto fine è negato dal padre della ragazza, che rifiuta il consenso alle nozze a causa delle origini oscure di Abdullah. In realtà, il padre di Samiha e di Tareq conosce perfettamente il segreto della nascita del giovane, avendo partecipato attivamente, insieme al nonno sindaco, all’omicidio della madre di Abdullah. I due innamorati sono brutalmente divisi dalla guerra e dalla prigionia del giovane da un lato, dal matrimonio forzato cui la ragazza è costretta dalla famiglia, dall’altro. Nonostante la separazione e la lontananza, l’amore persiste ed è il puntello che sostiene Abdullah durante la prigionia, aiutandolo a sopravvivere all’esperienza. Anche Samiha rimane fedele al primo amore, fuggendo più volte di casa, finché il marito, esasperato, non ottiene il divorzio, consentendole di tornare a vivere, con la figlia, in casa dei genitori. Ma quando Abdullah torna dall’Iran, contrariamente alle aspettative, non desidera più sposare Samiha, nonostante lei sia divorziata e libera di sé e lui si ritrovi solo e triste nella grande casa ereditata dai genitori adottivi. La guerra, la prigionia, le tribolazioni hanno spento un amore che sembrava destinato a durare per sempre.

Priva di lieto fine è anche la storia d’amore tra Ibrahim e sua moglie Umm Qisma, una passione sviluppatasi stranamente molti anni dopo il matrimonio. Ibrahim, sempre docile e paziente, ha sposato senza obiezioni, ma anche senza amore, la cugina scelta per lui dai genitori. I due sposi non sono innamorati, ma imparano ad apprezzarsi e ad amarsi nel corso degli anni, in una vita coniugale caratterizzata dal rispetto reciproco, dalla piacevole compagnia, dal supporto affettuoso che ciascuno dei due offre all’altro. Una relazione solida e gradevole ma ben lontana dalla passione e dallo struggimento di cui Ibrahim sente tanto parlare dai suoi amici Abdullah e Ahmad, che giunge spesso a invidiare. Quando però Umm Qisma si ammala, Ibrahim si accorge di amarla davvero, in modo profondo e appassionato. La storia d’amore sbocciata tra i due coniugi di mezza età si consuma nei corridoi e nei giardini dell’ospedale in cui la donna è ricoverata, dove i due passeggiano parlando d’amore per la prima volta dopo più di vent’anni di matrimonio. Gli ultimi giorni della vita di Umm Qisma sono illuminati dall’amore appassionato che il marito le dimostra, reso disperato dalla consapevolezza della fine che incombe su di lei. Commovente e straziante la scena dell’addio, nel giardino dell’ospedale: ciascuno dei due dichiara all’altro il proprio amore, ringraziandolo per gli anni vissuti insieme. Ma, proprio ora che sono consapevoli del reciproco amore, i due sposi sono separati dalla morte. Ancora una volta, il destino cinico e crudele si beffa dell’amore.

La terza storia d’amore presente nel romanzo è quella di Qisma, figlia di Ibrahim, e del giovane ufficiale destinato a sposarla. I due sono giovani, belli, innamorati, hanno davanti a sé un brillante avvenire. Si sposano e hanno un bambino, ma il marito è coinvolto in un tentativo di colpo di Stato e, scoperto, viene orribilmente torturato e ucciso. Anche in questo caso, il finale è amarissimo.

Muhsin Al-Ramli non è nuovo alla narrazione di storie d’amore infelici e sfortunate. In al-Fatīt al-mubaʿṯar, infatti, Warda, la protagonista femminile del romanzo, perde il marito Fawzi nella guerra Iran-Iraq e il dolore della perdita la conduce a una follia tranquilla e inoffensiva. Anche nel romanzo Dita di datteri[8] è presente una storia d’amore dal finale tragico: il protagonista Selim assiste alla morte dell’amatissima fidanzata Alia, annegata nelle acque del fiume Tigri. Si può sicuramente affermare, dunque, che le storie d’amore dal finale amaro siano una costante dell’opera di Al-Ramli.

Si giunge così all’ultimo grande tema del romanzo, probabilmente il più importante, un tema cui non è facile attribuire un nome. Si potrebbe definire come il volto più tenebroso della dittatura e del dittatore, quello che Ibrahim conosce quando, spinto dall’impellente necessità di guadagnare denaro per poter pagare le cure della moglie, è aiutato da Tareq a trovare un lavoro a Baghdad. Tareq è un personaggio di una certa influenza, vanta amicizie importanti nella cerchia del presidente. E così, nel giro di pochi giorni, Ibrahim si trova catapultato dalla campagna in cui è nato e cresciuto addirittura nel grande complesso presidenziale di Baghdad. Svanisce l’amato e familiare orizzonte del villaggio natio, e Ibrahim si ritrova a lavorare alle dirette dipendenze del presidente, a doversi adeguare a tutte le norme non scritte che vigono in quel mondo apparentemente dorato. Il divieto più severo consiste nella proibizione di raccontare all’esterno, familiari compresi, ciò che si ha modo di vedere o di sentire sul luogo di lavoro, pena la morte. I servitori del presidente sono ben pagati e godono di uno status privilegiato, ma devono essere ciechi, sordi e soprattutto muti. Ibrahim è assunto come giardiniere nel parco del palazzo presidenziale, deve occuparsi di un roseto piantato su un’isola girevole che sostiene una casa mobile, al centro di un lago artificiale. L’uomo rimane sbalordito di fronte allo sfarzo, al lusso sfrenato della dimora del Leader, ai rubinetti d’oro, alle poltrone a forma di conchiglia o di cuore, ai giardini pensili, alle fontane profumate e ad altre costose meraviglie. Frastornato, si adatta alla nuova situazione in virtù della propria pazienza e abnegazione, le doti che gli hanno già permesso di superare tante avversità. Una sera, mentre si trova in un bosco di fronte all’isola, vede per la prima volta il presidente attorniato dal suo staff e assiste alla scena atroce dell’assassino dell’anziano musicista. Da quel momento, la sua vita si trasforma in un inferno. Quando torna al lavoro dopo la morte della moglie, deceduta nonostante il ricovero in un ospedale esclusivo della capitale, Ibrahim viene trasferito in una zona remota del parco presidenziale e adibito a un incarico notturno di assoluta fiducia: deve seppellire nei giardini le persone torturate, seviziate e uccise dal presidente e dagli uomini dei servizi segreti. Diviene così il becchino dei dissidenti politici, degli ufficiali ribelli, di tutte le persone scomparse senza lasciare traccia, scoprendo, al tempo stesso, la vera natura dei giardini del presidente: magnifici nell’apparenza, orridi nella sostanza. L’immenso parco dalla vegetazione lussureggiante, ricco di splendidi fiori, di piante rare, di laghetti e ponticelli, di ogni specie rara di uccelli e di pesci, di fontane, di padiglioni e di statue, è in realtà uno sterminato cimitero. Sotto le aiuole fiorite e gli alberi rigogliosi sono sepolti a migliaia i cittadini iracheni, uomini e donne, giovani e anziani, militari e civili. Prima di essere assassinati hanno conosciuto le più crudeli sevizie e le più orripilanti torture. Ibrahim è dapprima terrorizzato e inorridito. Passa le notti tremando, sotterrando nell’oscurità del parco corpi sfregiati e sanguinanti. Quello che vede è indescrivibile, degno di un film dell’orrore: persone sgozzate, scuoiate, crivellate di colpi, decapitate, bruciate con le sigarette, trafitte da spade, torturate in ogni modo. L’animo compassionevole di Ibrahim riesce a trarre il bene dal male: si impone di offrire alle salme una sepoltura dignitosa e di annotare su una serie di quaderni l’ubicazione di ogni cadavere, in modo che, un domani, ogni corpo, accuratamente descritto, possa essere ritrovato. E così Ibrahim, vedovo dell’amata moglie, disprezzato dalla figlia Qisma che lo considera un debole e un fallito, vive l’ora più buia della sua vita. I momenti che trascorre nei boschi del parco, in compagnia dei cadaveri sfigurati, sono più angosciosi, più tremendi di quelli sperimentati in tempo di guerra. Solo, attivo soltanto di notte, passa più tempo con i morti che con i vivi. Perde quasi il contatto con il mondo, con la realtà, immergendosi nella sua opera caritatevole di offrire una degna sepoltura a ogni corpo, vivendo nell’attesa di essere eliminato come testimone scomodo.  A un certo punto Qisma lo abbandona, sposando un giovane ufficiale e andando a vivere con lui, senza lasciare al padre neppure un indirizzo o un numero di telefono. 

Il tema del corpo mutilato, abusato, torturato, è considerato un topos della letteratura araba contemporanea. Non per niente un filone importante della narrativa araba dei nostri giorni è rappresentato dalla letteratura di prigionia, l’adab al-suğūn, che rivela al lettore occidentale un mondo inimmaginabile di violenze e torture volte a fiaccare la volontà dei dissidenti, a spezzarne la dignità e il senso di umanità. Dall’Egitto al Marocco, dalla Libia alla Siria, la letteratura di prigionia ha prodotto numerosi capolavori. La narrativa irachena non fa eccezione, basti pensare a un classico come Blocco numero cinque di Fadhil al-ʿAzzawi [9]  o al più recente Rapsodia irachena di Sinan Antoon [10]. Nel romanzo di al-Ramli, tuttavia, la novità è rappresentata dal fatto che la tortura e le sevizie sono già state compiute, l’omicidio è stato già perpetrato. Ibrahim non è vittima di torture, non assiste alle sevizie inflitte ad altre persone. Nulla sa del come, del quando, del perché, si trova davanti al fatto compiuto e cerca di fare quel poco che può per quei poveri resti, di cui ignora perfino l’identità. Se il tono di questa parte dell’opera è spesso quello di un raccapricciante romanzo nero, per i temi trattati e per le atmosfere evocate, il velo plumbeo si squarcia all’improvviso, l’atmosfera è rischiarata d’un tratto dalla pietà e dall’umanità di Ibrahim. Quest’uomo semplice è capace di compiere un miracolo straordinario: in un luogo e in circostanze in cui la ferocia, la crudeltà umana raggiungono vette difficilmente eguagliabili altrove, Ibrahim è in grado di provare sentimenti come la compassione, la misericordia, la pietà, riesce a recitare una Sura del Corano a suffragio dell’anima di ogni defunto, decide di trasformare, a rischio della vita, la propria casa in un gigantesco archivio in cui sono custoditi tutti i segreti dell’immenso cimitero celato sotto gli stupendi giardini del presidente.

Al buio della crudeltà umana fa da efficace contrappunto la luce che si sprigiona dall’animo caritatevole e affettuoso di Ibrahim, rischiarando le pagine del romanzo con il contrasto tra le tenebre dei crimini del regime e la speranza luminosa che scaturisce dal cuore di un giusto, a dimostrazione della verità dell’affermazione dello scrittore palestinese Emile Habibi, secondo cui «ci sono angeli anche all’inferno»[11]

I giardini del presidente diventano dunque metafora dell’Iraq e di ogni Paese oppresso dal tallone della dittatura: sotto l’apparenza splendida, dietro la facciata che vuole esibire all’osservatore una realtà basata sull’efficienza, sulla prosperità, addirittura sul lusso, si cela l’orrore. Non un giardino, ma un cimitero in cui le vittime degli efferati delitti del regime sono sotterrate alla rinfusa, nascoste all’occhio dei vivi senza una lapide, come se non fossero neppure esseri umani. Il presidente ha addirittura disposto che, in quella zona del parco, pascolino greggi di pecore e mandrie di cammelli sorvegliate da cani, in modo tale che il lezzo del letame degli animali si confonda con l’odore della morte e della putrefazione.  La descrizione delle fosse in cui vengono sotterrati i cadaveri dei dissidenti politici richiama alla mente del lettore echi della narrativa sudamericana, laddove, come nel romanzo D’amore e ombra di Isabel Allende, [12]sono descritte le grotte e le miniere in cui venivano gettate le salme di tanti desaparecidos.

L’opera di Ibrahim si compie quando, dopo la caduta del regime in seguito all’invasione americana del 2003, l’uomo aiuta i familiari delle persone scomparse a rintracciarne i corpi sepolti nei giardini del presidente grazie alle informazioni annotate nei suoi quaderni. Fra le persone rapite e uccise dai servizi segreti c’è anche il marito di Qisma, che Ibrahim identifica grazie a un tatuaggio a forma di cuore, all’interno del quale è racchiuso il nome del dittatore. Ma proprio la pietà, la compassione per le persone scomparse e i loro familiari segna la condanna a morte di Ibrahim, la cui testa mozza viene ritrovata un mattino in una cesta di banane, accanto ad altre otto ceste contenenti altrettante teste appartenute ad abitanti del villaggio. Tareq l’ha avvertito: tanto i sostenitori del vecchio regime quanto gli esponenti del nuovo hanno elaborato piani per ucciderlo. Ma a Ibrahim non interessa, quello che conta è aiutare il prossimo e, soprattutto, aver riconquistato la stima e l’affetto della figlia Qisma. 

Quello che Muhsin al-Ramli ci consegna è dunque un romanzo storico, ma anche un romanzo di formazione, mostrandoci come siano maturati, nel corso dei decenni, i caratteri dei tre personaggi: Tareq appare gioioso e allegro dall’infanzia alla maturità, senza mai cambiare la propria indole, ma diviene più altruista, saggio e responsabile; Abdullah è cupo e pessimista, anche se il suo nichilismo sembra attenuarsi nel periodo che segue la rivelazione del segreto della nonna; Ibrahim, infine, appare il personaggio più riuscito, con la sua pazienza e la sua abnegazione. Nonostante le vicissitudini attraversate durante tre decenni, i membri della “Triade” sembrano completarsi a vicenda, anche quando, in luogo di Ibrahim, subentra Qisma a occupare il posto e il ruolo del padre.


[1] M. Al-Ramli, al-Fatīt al-mubaʿṯar, Il Cairo, 2000.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Hadiya Ḥusayn, Mā baʿd al-ˤḥubb, 2003, tradotto in inglese come Beyond Love, Syracuse University Press, 2012.

[5] Aḥmad Saʿdāwī, Frankištāīn fī Baġdād, Beirut, 2013.

[6] Sinān Anṭūn, Waḥduhā šağarat al-rummān, Beirut, 2010, tradotto in inglese come: Sinan Antoon, The Corpse Washer, Yale University Press, 2013.

[7] Ḥasan Blāsim, Mağnūn sāḥat al-ḥurriyyah, Beirut, 2009.

[8] Muhsin Al-Ramli, Tamr al-Aṣābiʿ, Beirut, 2008.

[9] Fāḍil al-ʿAzzāwī, al-Qalaʿa al-Ḫāmisa, Beirut, 1972.

[10] Sinān Anṯūn, Iʿğām, Beirut, 2009.

[11] Emile Habibi, Sestina dei sei giorni, in Palestina, tre racconti, Ripostes, 1984.

[12] Isabel Allende, De amor y de sombra, 1984.

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