Dita di datteri di Muhsin al-Ramli, il romanzo dell’esilio

  Recensione Iraq di Zuleika Adb El Sattar

  Il romanzo Dita di datteri dello scrittore iracheno Muhsin al-Ramli (Cicorivolta Ed., 2014, traduzione di F. Pistono), finalista all’IPAF del 2010, ruota intorno alla vicenda di Selim, un giovane iracheno rifugiato in Spagna, fuggito dall’Iraq di Saddam Hussein per motivi politici.

  Il giovane vive, a Madrid, la vita vuota e noiosa dell’immigrato, lavorando come autista di un furgone che distribuisce giornali. La sua esistenza di sradicato si dipana tra il lavoro e un piccolo appartamento solitario, dove soltanto alcune vecchie fotografie del Paese natio gli offrono qualche conforto.

  Selim è cresciuto in una famiglia rigorosamente patriarcale e conservatrice, dominata dall’autorità del nonno, che ha educato figli e nipoti al rigido rispetto della tradizione islamica e, al tempo stesso, alla costante opposizione al regime di Saddam.

  I ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza nel piccolo paese natio, nei pressi di Tikrit, sulle rive del fiume Tigri, accompagnano Selim giorno e notte, riemergendo nei pensieri del giovane, che rivede i volti dei genitori, del nonno, dei fratelli e sorelle e, soprattutto, dell’adorata cugina Alia, suo primo e unico amore, annegata nel Tigri.

  Il romanzo si snoda, dunque, lungo due binari: c’è il presente, che si svolge a Madrid, e il passato, incastonato in Iraq, rievocato poco a poco, con la tecnica del flash-back, attraverso la storia del villaggio utopistico fondato dal nonno e governato dalla sua autorità, al di là delle leggi e imposizioni del regime. La ribellione alle regole ha, però, trasformato in un incubo la vita della famiglia, costringendo padre e figlio all’esilio, l’uno all’insaputa dell’altro.

  Un giorno, il destino attende al varco Selim, cambiandogli la vita: in una discoteca di Madrid, per caso, il giovane incontra il proprio padre, che credeva ancora in Iraq. Nuah, il padre, è irriconoscibile: l’uomo di un tempo, severo, tradizionalista, rigidamente osservante, si è trasformato in un personaggio bizzarro, che sfoggia capelli tinti, indossa abiti stravaganti, porta l’orecchino, gestisce una discoteca nel centro di Madrid.

  Per padre e figlio comincia una tempestosa avventura che conduce entrambi a una rivisitazione del passato con occhi nuovi, e a un modo diverso di affrontare il futuro.

  Il romanzo è attraversato da diverse tematiche, tutte interessanti.

  In primo luogo, emerge il tema dell’emigrazione, dell’esilio dal Paese natale, arabo e musulmano, e dell’avvio di una vita nuova in un Paese europeo e cattolico. Selim vive in una Madrid multietnica: la sua vicina di casa è cubana; la cameriera della discoteca è marocchina; gli amici sono quasi tutti stranieri in Spagna, provenienti da diverse aree del mondo. Inevitabile, per il protagonista, il confronto tra Oriente e Occidente: se, da un lato, il personaggio sperimenta la nostalgia, il senso di perdita, solitudine e straniamento, dall’altro non può non apprezzare la vita in un Paese che gli offre la pace, la libertà, il rispetto dei diritti umani.

  Il confronto non avviene sul piano della razionalità, ma su quello dell’emotività: Selim, che vive sognando il mitico Iraq della sua infanzia, divorato dalla nostalgia, sa perfettamente che la sua patria adorata è ormai un luogo invivibile, e che la Spagna, che l’ha accolto, gli garantisce un’esistenza dignitosa e serena. L’Iraq, dunque, è rivisitato attraverso la cifra del ricordo, dello struggimento, del rimpianto di un tempo irrecuperabile, ma non è considerato un luogo cui far ritorno per riannodare le fila di quell’antica vita. Non così per Nuah, che si trova in Spagna per compiere un giuramento sacro e realizzare un’oscura vendetta. Per quest’ultimo personaggio, dunque, non esiste cesura tra la vecchia e la nuova vita, tra Iraq e Spagna, tra Oriente e Occidente. La vita non gli concede la possibilità di affrancarsi da un passato burrascoso che lo insegue fino in Europa.

  Altro tema centrale dell’opera è quella del rapporto che lega padri e figli: da un lato, Nuah con il figlio Selim, dall’altro, Nuah con il proprio padre, l’anziano e terribile mullah Mutlaq, capo del numeroso clan che viveva seguendo regole proprie, sfidando l’onnipotenza del dittatore. Mentre il rapporto di Nuah con Selim è improntato al dialogo e al confronto, che, a tratti, diventa duro scontro, quello di Nuah con Mutlaq era fondato sull’ubbidienza cieca del figlio verso il padre, anche a costo della rovina della famiglia e della comunità. Questo rapporto irrisolto con il padre ha segnato per sempre la vita di Nuah, riverberandosi anche in quella di Selim.

  Non ultimo, nell’opera si fa strada il motivo dell’amore: Selim è innamorato di Alia, una ragazza morta, e questa passione sarà per sempre parte di lui. Ciononostante, accetta di dividere la vita con Fatima, destinata a uscire perennemente sconfitta dal confronto con la defunta Alia che, come tutti quelli che muoiono giovanissimi, vivrà per sempre nel ricordo del suo innamorato.

  Il sentimento prevalente, nell’animo del giovane Selim, è dunque la rassegnazione: è ossessionato dalla nostalgia dell’Iraq, si strugge al ricordo dei parenti e amici lasciati laggiù, ma si rassegna a organizzare la sua vita in Spagna; suo padre persegue un tenebroso progetto che non condivide affatto, ma alla fine si rassegna alla decisione paterna; è innamorato di Alia, eppure si rassegna a sposare Fatima. Di fronte a ciò che non si può cambiare, sembra suggerire l’autore fra le righe, occorre accettare il proprio destino: questa è la differenza essenziale tra padre e figlio.

  Il romanzo, pur narrando vicende drammatiche, è pervaso da una sottile ironia, che lo rende leggero e piacevole.    

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