Rivoluzione siriana, guerra ed esilio in una trilogia inedita di ʽAbdullāh Maksūr

Articolo Siria di Federica Pistono

Damasco – courtesy of cleopatrarogers

  ʽAbdullāh Maksūr è nato a Ḥamāh nel 1983. Ha scritto una trilogia di romanzi-reportage dedicati alle condizioni di vita dei siriani durante la rivoluzione, la guerra, l’esilio forzato: Ayyām fī Bābā ʽAmrū (Giorni a Bābā ʽAmrū, 2012), dedicato agli scontri avvenuti a Homs nel 2012, ʽĀ’ id ilā Ḥalab (Tornando ad Aleppo, 2013), che rappresenta la continuazione del primo romanzo, e Ṭarīq al-ālām (Via dolorosa, 2015), volto a descrivere la condizione dei profughi siriani in fuga dalla guerra verso l’Europa.  

 Ayyām fī Bābā ʽAmrū[1] è una delle prime opere letterarie siriane volte a rappresentare la rivoluzione e la repressione nei primi anni della crisi siriana. Il romanzo racconta in modo dettagliato l’assedio e la caduta di Bābā ʽAmrū, il quartiere della città di Ḥumṣ che ha subito da parte del regime, nel febbraio del 2012, un assalto condotto con armi pesanti di ogni genere, dagli aerei dell’aviazione militare, ai carri armati, ai cannoni. 

  L’opera, che costituisce una mescolanza di generi, si situa tra la fiction, la narrazione documentaristica e la riflessione politico-sociale. Il protagonista e voce narrante del romanzo è un giovane giornalista siriano incaricato di tornare a Ḥumṣ per completare una serie di documentari sulla rivolta cominciata nel marzo del 2011 e ben presto tramutatasi in guerra civile. Tornato in Siria dopo anni di esilio in uno degli Stati del Golfo, il protagonista, figlio di un noto Imām di Ḥamāh ai tempi del massacro del 1982, è subito arrestato, mentre ancora insegue il filo dei ricordi d’infanzia e della nostalgia, per una presunta irregolarità nei documenti di identità. Fermato dagli uomini dei servizi di sicurezza, è rinchiuso nel carcere di Ḥumṣ e, più tardi, dopo la liberazione, riesce a penetrare nel quartiere di Bābā ʽAmrū. 

  Servendosi di un linguaggio semplice e quotidiano e di uno stile lineare e scorrevole, il protagonista descrive in forma minuziosa e dettagliata gli eventi, i giorni dell’assedio e dei bombardamenti. Davanti al lettore sfila la galleria variegata dei personaggi che il protagonista incontra durante il suo lavoro di documentazione: membri dell’esercito libero, ufficiali dell’esercito governativo e dei servizi segreti, giovani pacifisti contrari alla militarizzazione della rivoluzione.  Ogni personaggio narra la propria storia, contribuendo con un tassello alla ricostruzione del mosaico della storia nazionale dell’ultimo trentennio.  Quindi il giornalista assiste all’assedio e al bombardamento del quartiere, ben presto divenuto un simbolo della rivoluzione, e procede alla descrizione di innumerevoli scene di morte e di distruzione. 

  Degni di nota gli accostamenti, proposti dall’autore, tra poeti e cantanti universalmente noti come simboli della lotta per la libertà e artisti siriani divenuti icone della rivolta siriana. Il caso più eclatante è rappresentato dall’accostamento tra Victor Jara, cantautore, musicista e poeta cileno, assassinato subito dopo il golpe del 1973, e il cantautore, musicista e poeta siriano Ibrāhīm al-Qāšūš, originario di Ḥamāh, autore di diverse canzoni contro Baššār al-Asad, del cui omicidio sono state accusate le forze di sicurezza.  

  Al di là della descrizione degli eventi dell’assedio di Bābā ʽAmrū, l’autore presenta un’analisi politica della crisi siriana. Secondo Maksūr, infatti, la rivoluzione non rappresenta soltanto ed esclusivamente un grido di libertà e un tentativo di cambiamento, ma costituisce la conseguenza di una divisione profonda che da decenni lacera la società siriana, una divisione tra militari e società civile che affonda le radici negli Avvenimenti degli anni Ottanta, mai dimenticati e mai pienamente metabolizzati dal tessuto sociale.  La Primavera araba che ha coinvolto diversi paesi dell’area nordafricana e mediorientale nel 2011 non ha fatto che inasprire e far esplodere una crisi latente sotto una cappa di silenzio e di paura. L’autore analizza, anche attraverso le voci dei suoi personaggi, le cause di una tensione cresciuta e covata sotto la cenere per trent’anni. Gli Avvenimenti di Aleppo e di Ḥamāh, secondo l’autore, pur condannati al silenzio e all’oblio dal regime, sono alla base della frattura che spacca fin dalle fondamenta il tessuto sociale del paese. La rivoluzione era inevitabile, sarebbe comunque esplosa, secondo l’autore, anche senza il fenomeno delle Primavere arabe in Tunisia, Libia, Egitto e Yemen.  

  Il romanzo presenta un finale aperto, come la situazione siriana nel 2012, quasi a sottolineare come l’autore non abbia voluto scrivere un testo tradizionale, costituito da un antefatto, dallo svolgimento di una trama e da una conclusione. Il finale, che raffigura la partenza del protagonista dalla città di Ḥumṣ dopo gli eventi di Bābā ʽAmrū per una meta imprecisata, costituisce il punto di avvio dell’opera successiva, ʽĀ’ id ilā Ḥalab[2].

  Il secondo romanzo prende le mosse dalla conclusione del primo, con la domanda: «È possibile che un uomo muoia due volte?» Questo è l’interrogativo che si pone il giornalista protagonista delle due opere, inseguito dalla morte che può raggiungerlo in ogni momento, annientandolo in mille modi diversi, mentre il paese si trasforma in un immenso cimitero. Il protagonista compie un lungo e faticoso viaggio da Ḥumṣ ad al-Laṭāminah, una cittadina non lontana da Ḥamāh, sottoposta a spaventosi bombardamenti che causano centinaia di vittime civili, per documentare ancora una volta gli eventi e salvare immagini e registrazioni su memorie digitali. L’autore ricorre al consueto realismo per descrivere il viaggio del protagonista nel cuore del paese martoriato dalla guerra. In un passo del testo, l’autore osserva:

  Qui, l’immagine della morte insegue chiunque calpesti questa terra, da qualunque confine arrivi. Come puoi camminare fra i morti e non pensare alla morte? Come puoi sognare un futuro roseo quando i minareti annunciano a tutte le ore un nuovo martire? Come puoi prendere all’ape il suo miele e gustarne la dolcezza in tanta amarezza? Come puoi superare questi incendi sparsi lungo le strade? Come può il cielo estendersi ancora sopra la terra? Forse il nuovo giorno merita questi incendi?  

  Il giornalista penetra in un mondo che, sconvolto dai bombardamenti, non riconosce più.  Ciononostante, il protagonista continua a osservare il proprio paese «con gli occhi di un innamorato che guarda la sua amata», rievocando i ricordi felici dell’infanzia e dell’adolescenza e affermando, sopra ogni altro, il valore della vita e del ricordo pur nella desolazione del presente: 

  «Nulla uccide la memoria se non la morte. Non la uccide la fine di un amore, non l’ira dei genitori, non la rovina della guerra, non l’esilio. (…) Lo sport, il cibo, i viaggi, il tradimento, il complotto, il riso, il pianto, il lamento, il desiderio, la passione, l’estasi, l’illusione, la verità, la libertà, la prigione… Niente uccide la memoria se non la morte!»[3]

  In compagnia di altri personaggi, continuamente minacciato dalla morte incombente, il protagonista arriva infine ad Aleppo, sua meta finale, attraversa i mercati, le strade, i vicoli della città, continuando la propria opera di documentazione. Osserva le scuole, trasformate in centri in cui alloggiano i combattenti e in tribunali in cui si torna ad applicare la šarʽīah. Dopo aver realizzato il documentario, il protagonista si allontana dal centro in una fuga rocambolesca attraverso i sotterranei della

Cittadella, accompagnato da Nicholas, un giornalista straniero che, alla fine del romanzo, troverà la morte per mano di un ufficiale dell’esercito. Anche questa volta, come in Ayyām fī Bābā ʽAmrū, il protagonista viene arrestato dagli uomini del regime e tradotto nel carcere militare annesso all’aeroporto di Ḥamāh, una prigione resa tristemente famosa dai racconti degli ex-detenuti. Con la scarcerazione del protagonista, si apre l’ultima parte del romanzo, in cui il giornalista documenta le sofferenze patite dai cittadini siriani negli anni della guerra, descrivendo, con il consueto realismo, i campi profughi situati lungo il lato turco del confine, la fame, gli stenti, le malattie degli sfollati.    

  L’unica deroga dell’autore al ricorso continuo al realismo descrittivo è rappresentata dalle scene di vita che il protagonista si sbizzarrisce a immaginare: avendo passato molti anni in esilio nel Golfo, vagheggia spesso l’esistenza che avrebbe potuto condurre se fosse rimasto in patria, raffigurando se stesso, ragazzo o giovane, vivere negli scenari siriani che via via attraversa. 

  Rispetto a Ayyām fī Bābā ʿAmrū, questo secondo romanzo rappresenta una forma intermedia tra fiction e di narrazione documentaristica, contenendo solo alcune riflessioni di carattere politicosociale, senza le analisi approfondite presenti nel primo romanzo. 

  Il terzo romanzo di Maksūr, Ṭarīq al-ālām, completa la trilogia, dedicato alla rivoluzione e alla guerra civile, con la storia di un gruppo di profughi che, dalla devastazione della Siria, cercano di fuggire verso l’Europa.

[1] ʻA. Maksūr, Ayyām fī Bābā ʻAmrū, ʿAmmān, Faḍ’āt li-l-našr wa-l-tawzīʻ, 2012.  

[2] ʻA. Maksūr, ʿĀ’ id ilā Ḥalab, ʿAmmān, Faḍ’āt li-l-našr wa-l-tawzīʻ, 2013.  

[3] Ivi, p. 37.

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