Amir Tag Elsir, una voce dal Sudan  

Articolo Sudan di Zuleika Abd El Sattar

Amir Tag Elsir è nato a Karmakul, nel Nord Sudan, nel 1960. Ha seguito contemporaneamente due carriere: quella di scrittore, con romanzi e poesie tradotti in francese, inglese, spagnolo e italiano, e quella di ginecologo. Dalla metà degli anni Novanta, vive e lavora come medico e scrittore a Doha, in Qatar.

L’autore, una delle voci più rappresentative della letteratura sudanese e uno dei più rispettati scrittori di lingua araba, è poeta fin dagli anni Ottanta. Il suo romanzo d’esordio, Karmākūl, dedicato al proprio villaggio natale, risale al 1988. La notorietà gli giunge nel 2002 con Mahr al-Ṣiyāḥ (Grida in dote), un affresco della storia sudanese del XVIII secolo, e con al-ʻIṭr al-Faransī (Profumo francese), del 2009, una raffigurazione del quartiere popolare di una grande città africana, con suoi personaggi caratteristici ma anche con i suoi giganteschi problemi, come la corruzione, la dittatura, la miseria, l’intolleranza religiosa.  Nel 2011, il romanzo Ṣā’id al-yarqāt (Il cacciatore di larve) è selezionato nella shortlist del prestigioso Arabic Booker Prize: l’opera è solo apparentemente un romanzo poliziesco, è in realtà una satira sociale sugli intellettuali nei regimi polizieschi dei paesi arabi. Nel 2012 segue Iybūlā 76 (Ebola 76), descrizione venata di umorismo nero di un’epidemia tra il Congo e il Sudan.  Nel 2014, il romanzo 366 si classifica nella longlist dell’Arabic Booker Prize: l’opera si configura come una lettera d’amore scritta da un uomo a una donna intravista al matrimonio di un parente. Affascinato dalla sconosciuta, il protagonista comincia a cercarla, perdendosi in una labirinto surreale.  Nel 2015, è pubblicato il romanzo al-Ṭaqs (tradotto in inglese come Telepathy): l’opera, incentrata sul dubbio rapporto tra immaginazione e realtà, consiste in un pauroso viaggio nella mente instabile del protagonista, uno scrittore che perde il controllo dei propri personaggi e il senso della realtà, in una Khartoum dal doppio volto di vivace capitale e di città dalla periferia abbandonata e misera. Nel 2017 l’autore entra nuovamente nella longlist del prestigioso Premio con il romanzo Muğtamaʻ al-sāḥrāt (Il convegno delle streghe), storia di una giovane profuga eritrea in fuga dalla guerra nel suo Paese. Nel 2018, ancora una volta un romanzo dell’autore viene scelto nella shortlist dell’Arabic Booker Prize, Zuhūr tākuluhā al-nār (Fiori divorati dal fuoco) dedicato al tema delle giovani donne che cadono nelle mani dei jihadisti e subiscono il fato dei fiori bruciati dalle fiamme.

  Ebola 76    

Come il titolo suggerisce, il romanzo riporta il lettore all’anno 1976, quando il virus Ebola si fa conoscere per la prima volta nel mondo. Il focolaio originario della malattia si manifesta, infatti, nell’estate di quell’anno nella regione di Yambuku, nello Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo. Ben presto, l’epidemia dilaga fino alla città di Nzara, nel Sud Sudan. È opinione comune che l’Ebola sia arrivata in Sudan attraverso un operaio di una fabbrica tessile, infettatosi durante un viaggio in Congo e poi tornato nella propria città, Nzara. Nella dichiarazione introduttiva al romanzo, tuttavia, l’autore sottolinea come l’opera non sia la storia dell’operaio in questione, evidenziando come tutti i personaggi e le situazioni evocati nel libro siano frutto di pura fantasia. È impossibile, però, però non notare, nella trama dell’opera, un intreccio di eventi storici, riferimenti di carattere medico – non si dimentichi che Amir Tag Elsir è un medico – ed elementi fantastici. L’autore, dunque, parte dal dato reale per poi sviluppare un’opera di fiction.

Il romanzo si apre con un prologo in versi in cui realtà e immaginazione tornano a mescolarsi:

Nel tempo della tragedia

Ogni cosa sembra vera.

Gli occhi sono veri.

La mano che saluta il vicino è vera.

La luna non è più una fantasmagoria lontana, è vera.

La mia amata mi interroga sul senso della verità,

Rimando la sua domanda alla tragedia,

I passanti mi chiedono quale sia il significato del sangue vero,

E dico: quello che è sparso dalla tragedia.

Sembra quasi che gli occhi, le mani, la luna e tutto ciò che ci circonda non siano cose reali né siano destinate a diventare tali se non “nel tempo della tragedia”. Se poi si considera che ai versi segue una nota esplicativa sulle origine storiche dell’epidemia e sul fatto che il romanzo sia un’opera di fantasia, il rapporto immaginazione-realtà diviene ancora più problematico.

Il protagonista, Lewis Nawa, è un operaio tessile che si reca in Congo dopo aver ricevuto la notizia della morte improvvisa di Elaine, la donna con la quale ha vissuto, negli ultimi due anni, un’appassionata relazione extraconiugale.  Quando torna in Sudan, porta il virus con sé, dopo averlo contratto da Kanini, una giovane prostituta bella e sfortunata che lavora in proprio, non avendo trovato un bordello disposto ad assumerla. Di ritorno a casa, Lewis infetta sua moglie Tina, che lavora come venditrice d’acqua per le strade, quindi torna al lavoro in fabbrica, dove fa appena in tempo a ricevere la notizia del proprio licenziamento prima di sentirsi male e perdere conoscenza. Il brano che descrive il trasferimento di Lewis in ospedale per opera dei colleghi della fabbrica focalizza l’attenzione del lettore sul fatto che le sofferenze di un uomo in agonia suscitino nei suoi simili soltanto indifferenza. Nessuno si sofferma a osservare la scena dolorosa né, tanto meno, si offre di aiutare il malcapitato. La riflessione sull’insensibilità al dolore altrui ci riporta alla mente alcuni passi dei romanzi di Gabriel GarcÍa Marquez e di Isabel Allende, in cui alcuni personaggi considerano le malattie, il decadimento fisico e la morte come aspetti banali dell’esistenza umana, sui quali non è neppure di caso di dilungarsi. Mentre, però, i due scrittori sudamericani ricorrono, nelle loro descrizioni, a canoni del realismo magico, Amir Tag Elsir sembra attenersi, piuttosto, alla considerazione secondo la quale il dolore è un’esperienza talmente comune nella vita quotidiana degli abitanti di Nzara da non suscitare più alcun interesse. Non si tratta di mero fatalismo: non esiste logica nell’esistenza, sembra suggerirci l’autore, ma tutto avviene per caso, per un concatenarsi grottesco di circostanze, legate tra loro da una labile ed effimera traccia, senza un apparente significato. Una concezione che, talvolta, si avvicina a quella del romanzo dell’assurdo, per il quale la vita è priva di senso, il caos rappresenta l’essenza stessa dell’esistenza, la vita e la morte, in definitiva, si equivalgono.    A questa visione disincantata dell’esistenza si accompagna spesso una buona dose di umorismo nero, che pervade l’intero romanzo. Il lettore può ravvisare un certo sarcasmo già nel secondo capitolo, quando Anami Okiyano, collega di Lewis, insiste per salvare il protagonista non in quanto essere umano ma in quanto Uomo dell’Anno; per ironia della sorte, però, Lewis, che ha portato il virus in città, è destinato a guarire, mentre Anami muore subito dopo essere stato contagiato.

Il romanzo non intende raccontare la storia di un personaggio, ma consiste in un intreccio di storie che si intersecano a livello personale e sociale, attraversando confini di diversa natura. Si tratta di confini fisici, sociali e geografici. I confini fisici sono quelli del corpo umano, attraversati dall’amore, dalla lussuria ma soprattutto da Ebola, virus antropomorfizzato che, con la sua furbizia, la sua fame di vittime e la sua perfidia, appare come il vero protagonista dell’opera. Ebola riesce ad abbattere i confini del cuore e della mente dell’uomo, nel momento in cui il paziente, risvegliandosi sul letto di morte, perde l’autocontrollo, rivelando i propri segreti più intimi nel delirio della febbre. I confini sociali sono quelli che separano i quartieri in cui vivono i residenti europei dal resto della città. Il terrore accomuna tutti, poveri e ricchi, sudanesi ed europei, ma, quando la quarantena impone alla popolazione di restare a casa, le preoccupazioni degli stranieri, nei loro complessi abitativi accuratamente isolati e protetti, si rivelano frivole e banali rispetto allo strazio dei locali, travolti dalla furia e dal caos dell’epidemia.  Mentre i ricchi europei pensano alla scuola dei figli, al livello del colesterolo nel sangue, che aumenterà a causa dell’inattività fisica, alla collezione di francobolli che non potrà più essere arricchita, i sudanesi, privi di qualunque protezione, sprofondano in una situazione disperata.  L’ospedale dispone di soli due medici, uno dei quali, Akwi, si infetta e muore. L’altro medico, Luther, è l’unico a curare la moltitudine di disperati e i suoi soli assistenti, ancora per ironia della sorte, sono i sopravvissuti all’epidemia. L’ospedale non è in grado di accogliere tutti i pazienti, e così il luogo di cura diventa la piazza, un tempo storico punto di raduno dei ribelli. Assume addirittura il nome di Piazza Ebola.  Non c’è neppure personale sufficiente ad assicurarsi che un malato sia realmente deceduto. I morti e i moribondi, anche se imploranti aiuto, vengono accatastati nelle fosse comuni. Vi sono poi i confini geografici, quelli che separano il Congo dal Sudan, attraversati dai diversi personaggi, primo fra tutti Lewis, vettore dell’epidemia, ma anche dal chitarrista congolese cieco Ruwadi Monti, dalla sua giovane assistente Darina, dagli organizzatori francofoni del concerto del musicista. Una folla di profughi congolesi è ammassata lungo la frontiera tra i due Paesi, senza sapere che l’epidemia ha già varcato i confini. Fra loro, l’anziano mago Jamadi Ahmed, ansioso di trovare salvezza a Nzara. Il pericolo dell’infezione, il contagio, la morte, sono i fattori che legano tra loro le fila delle diverse vicende, connettendo le storie dei vari personaggi sui due lati della frontiera.

Non esiste solidarietà né sostegno reciproco, di fronte alla carneficina.  I personaggi non riescono a mettere da parte differenze, rivalità, vecchi rancori, per collaborare. Si riscontra invece la tendenza di ciascuno a isolarsi, nel tentativo di salvare se stesso, nella certezza ingiustificata di essere il solo fortunato che riuscirà a cavarsela. Elsir, dunque, dipinge un ritratto di un’epidemia estremamente realistico: l’empatia e l’altruismo sono nobili sentimenti, sembra sottintendere l’autore, ma è difficile che si manifestino quando una società è colpita da una catastrofe di immani dimensioni. Se la vita è già tanto difficile in tempi normali, può esserci spazio per la solidarietà e l’ottimismo, ai tempi di Ebola?

L’ultimo dei paradossi, tragicamente assurdi, che attraversano il romanzo, si realizza nel finale, quando gli abitanti di Nzara avvistano gli elicotteri, che si librano sulla città, e credono che sia in corso un’operazione di salvataggio a loro destinata. Gli elicotteri atterrano, invece, nel giardino di una casa del quartiere europeo, con l’unico obiettivo di mettere in salvo i residenti stranieri, i soli a essere già al sicuro dalla diffusione della pestilenza. Ai sudanesi che, sbigottiti, osservano decollare gli elicotteri carichi di “operatori umanitari” europei, non resta neppure la speranza.

Il finale del romanzo lascia intravedere la rovina e la morte per tutti i personaggi non ancora stroncati dal virus letale. L’autore, però, vuole lasciare qualche aspettativa positiva in un finale che, più che “aperto”, potrebbe definirsi “multiplo”, giacché la storia “sarebbe potuta terminare in molti altri modi”.  Amir Tag Elsir si diverte, nelle ultime pagine dell’opera, a tracciare il percorso di tutte quelle possibilità, immaginando un’improbabile salvezza per tutti i superstiti.

Oltre a essere la storia di un’epidemia, il romanzo consente al lettore di gettare uno sguardo curioso al Sud Sudan, una patria molto amata dall’autore, ma lasciata con rimpianto a causa delle scarse opportunità di lavoro che gli offriva. L’opera ci conduce lungo un itinerario che dal Congo porta in Sudan, sotto la guida di un narratore dallo sguardo acuto, al tempo stesso cinico e compassionevole, critico e tenero. I suoi personaggi sono catturati dalla realtà, uomini e donne attanagliati dalla povertà, vittime dell’ignoranza che li spinge a credere che l’epidemia non sia causata da un virus ma da uno stregone malvagio, avvezzi alle tribolazioni ma non sconfitti. Amir Tag Elsir affronta i temi dell’angoscia e della durezza della vita in una società arcaica, schiacciata da mille difficoltà, apparentemente dimenticata dalla modernità.

Il Sudan, un Paese da scoprire attraverso la penna di uno dei suoi più brillanti scrittori.

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