Articolo di Federica Pistono
I quattro decenni compresi tra gli ultimi anni Cinquanta e i primi anni Novanta in Marocco sono definiti con l’espressione “anni di piombo”. Si tratta di un lungo periodo buio della storia contemporanea marocchina, un’epoca caratterizzata da gravi violazioni dei diritti umani, commesse da un regime che perpetra sistematicamente una politica fortemente repressiva nei confronti di oppositori e dissidenti di qualunque orientamento. Tali violazioni, in molti casi, si configurano come autentici crimini conto l’umanità: le carceri si colmano di migliaia di detenuti politici, centinaia di persone scompaiono per sempre nel nulla, i prigionieri sono rinchiusi in bagni penali medievali come Tazmamārt o in centri segreti di tortura sistematica come Derb Moulay Chérif o Dar El Mokri, leader politici come Mehdi Ben Barka sono assassinati impunemente, le rivolte popolari sono sedate nel sangue, i processi politici sono assolutamente iniqui.
Osserva Nour-Eddine Saoudi:
Les années de plomb raprésentent une longue période noire de l’histoire contemporaine du Maroc. Elles couvrent près de 40 ans d’un pouvoir quasi absolu du Makhzen.
Quarante années d’une repression multiforme dont les moments les plus forts sont l’insurrection di Rif en 1958-59, la révolte populaire du 23 mars 1965, les émuets de juin 1981 à Casablanca, de 1984 à Marrakech et de 1994 à Tétouane[1].
In questo periodo è presente in Marocco una ricca produzione di adab al-suğūn.
L’eco della letteratura concentrazionaria europea risuona in un testo classico dell’adab al-suǧūn di epoca contemporanea, Tazmamārt di Aḥmad Marzūqī[2].
Si tratta di un’autobiografia romanzata, in cui l’autore narra la vicenda di cinquantotto ufficiali, implicati nel fallito colpo di Stato contro re Ḥassān II, negli anni 1971-72, imprigionati nel bagno penale di Tazmamārt, nel sud del Marocco. Quando, diciotto anni dopo il tentato golpe, si aprono le porte del carcere, soltanto ventotto ufficiali sono riusciti a sopravvivere alle condizioni di vita disumane del bagno penale. Uno di questi, l’occupante della cella numero 10, è l’autore del testo, Aḥmad Marzūqī.
L’eco della letteratura concentrazionaria europea si percepisce nell’opera, giacché il carcere descritto è un locus horridus, un luogo in cui non si entra per scontare una pena detentiva ma per morire di stenti. Le celle sono buchi scavati nel terreno desertico, torride d’estate e gelide d’inverno. Dal tetto di lamiera si infiltrano i raggi del sole cocente o la pioggia, a seconda delle stagioni. La cella pullula di scorpioni, di topi, di insetti immondi, usati, in mancanza di meglio, anche come cibo. Solo alcuni buchi nei muri consentono il passaggio di un filo d’aria e di luce perché i prigionieri non muoiano soffocati. I detenuti sono impegnati in una lotta sempiterna contro gli scorpioni e contro i secondini, fra i quali emergono diverse figure di sadici e di violenti.
Chiusa la pesante porta di ferro, l’angoscia che sentimmo nell’oscurità e nell’isolamento delle nostre celle fu immensa. Minuti atroci durante i quali la maggior parte di noi fu presa dal panico o invasa da una disperazione incommensurabile, che nulla poteva attenuare. Gli uni avevano l’impressione di essere stati gettati in fondo a un abisso, gli altri (…) credevano che li si stesse seppellendo vivi. Per un lungo istante, restammo prostrati, incapaci ancora di stabilire l’esatta portata della sventura che ci aveva colpiti.[3]
I militari, torturati e lasciati morire in agonia, sono spogliati di ogni dignità e spesso dell’equilibrio mentale. L’opera racconta un dramma doloroso, atroce, al limite del sostenibile, che solleva enormi e spaventosi interrogativi su quanto sia sconfinata la capacità dell’uomo di far del male ai propri simili.
La vita del prigioniero, in questo autentico inferno, è allietata dalle visite di un uccello che ha addirittura un nome, Faraǧ, ultimo baluardo contro la totale alienazione mentale. Questo volatile, infatti, permette al recluso, che si considera ormai un “morto vivente”, di coltivare un rapporto affettivo e di non perdere la ragione. Il libro è una terribile testimonianza sul sistema penitenziario marocchino degli anni di piombo.
Il dramma degli ufficiali coinvolti nel fallito colpo di Stato è narrato anche nella biografia romanzata Tazmamort, scritta in francese da uno degli ufficiali superstiti, ʻAzīz Binebine[4] (1946).
Quest’opera è la storia del protagonista, rinchiuso per tredici anni in un gabbiotto di cemento, in compagnia di scorpioni e scarafaggi, ma anche un omaggio ai compagni di prigionia morti in carcere a causa delle inaudite sofferenze. Soltanto la fede permette all’autore di aggrapparsi alla vita e di superare la prova.
Mon caveau était un cube de béton et de ténèbres de deux metres sur trois, où même la lumière blafarde du jour n’arrivait pas à briser totalement l’obscurité. Au fond, une dalle de ciment en giuse de banquette. Dans le coin près de la porte, des toilettes turques. Trois rangées de trous dedix centimètres de diamètre percés au sommet du mur, à deux mètres cinquante, donnaient sur le couloir. Au milieu du plafond, un trou de même dimension permettait la circulation de l’air[5].
Nel 1972, il poeta e scrittore Abdellatif Laabi (1942), militante fin dagli anni Sessanta in un movimento comunista clandestino, viene arrestato e rinchiuso nel carcere-fortezza di Kenitra, dove diventa il prigioniero numero 18611. Nel 1973, è condannato a scontare dieci anni di reclusione. Nel 1980, le porte della cittadella si schiudono per lui e per alcuni suoi compagni di detenzione grazie a una campagna internazionale a suo favore. Laabi appartiene a quella generazione di intellettuali marocchini che si esprime in francese, lingua della colonizzazione. Le memorie della detenzione sono rielaborate in un romanzo, Le chemin des ordalies[6], in cui si alternano due voci: da un lato, l’ex- detenuto che conserva nella memoria il ricordo incancellabile dell’universo carcerario, dall’altro, il prigioniero appena liberato che ritrova gli spazi aperti, la luce, i propri simili, che cerca di reinserirsi poco a poco nel mondo lasciato otto anni prima. Alle memorie terribili della tortura e della prigione si alternano i pensieri rivolti alla donna amata, Awdah, la cui presenza al momento del suo rilascio riporta lo scrittore a una dimensione, quella della realtà, contrapposta a quella alienata della vita in cella, dove ogni giorno è «une journée comme les autres du numéro 18611»[7].
Il romanzo esprime la necessità dell’autore di dare voce a «l’héroisme et la détresse anonymes, partout où l’enjeu était bel et bien de défendre l’espoir, quelque réaliste ou utopique que cette défense ait pu être»[8]. Ogni giorno trascorso senza aver narrato la sua esperienza, senza aver accolto l’eco di qualche appello disperato, è come un ramo che si spezza e si stacca dall’albero della sua vita. Il racconto, come vuole la tradizione popolare, incarnata e sublimata nella figura di Šahrazād, è questione di vita o di morte.
Nel 1972, a seguito del fallito golpe militare volto a deporre il re Ḥassān II, viene arrestato come ispiratore del complotto il generale Ūfqīr, uomo molto vicino al sovrano. Il generale muore in carcere, ufficialmente suicida. Con lui, sono incarcerati la moglie, i sei figli, alcuni dei quali ancora bambini, e alcuni parenti e domestici della famiglia. La moglie e i figli vengono lasciati in prigione per diciannove anni.
La vicenda è ricostruita dalla vedova del generale, Fāṭimah Ūfqīr, dopo la propria scarcerazione, negli anni Novanta, in un’autobiografia dal titolo Ḥadā’iq al-malik [9](I giardini del re). Dalle pagine del libro emergeun quadro nitido della storia del Marocco contemporaneo: i difficili anni che seguono l’indipendenza, lo stridente contrasto tra la povertà del popolo e l’opulenza della classe dirigente, i pesanti segreti politici come l’affare Ben Barka. Il tema centrale dell’opera è il racconto dei diciannove anni di detenzione dell’autrice e dei suoi familiari, ancora più drammatici in quanto contrapposti allo splendore della vita a corte della famiglia Ūfqīr prima del colpo di Stato.
Molti anni più tardi, un altro autore marocchino, che ha sperimentato di persona le carceri di Ḥassān II, propone un’altra opera, di pura fiction, sui bagni penali del sud del Marocco: è Yūsuf Fāḍil (1949) con il romanzo Ṭā‛ir azraq nādir yuḥalliqu maʻī (Un raro uccello azzurro vola con me, 2015)[10].
La vicenda narrata prende spunto, ancora una volta, dal fallito colpo di Stato del 1971 per soffermarsi sulla storia di un giovane ufficiale, ʻAzīz, arrestato nel giorno delle sue nozze, e della sua sposa Zīnah. Mentre il prigioniero langue nell’orribile prigione, la cui descrizione ricorda da vicino quella di Tazmamārt, Zīnah passa i successivi venti anni della sua vita errando per tutto il Marocco da una prigione all’altra alla ricerca del marito, imprigionato in un carcere nel deserto di cui le è taciuta l’ubicazione.
Il romanzo, la cui atmosfera è densa di pathos, propone la rappresentazione della lenta ma inesorabile trasformazione del prigioniero in cella: in principio, il protagonista è raffigurato come un giovane e brillante ufficiale pilota, innamorato del volo e della sposa, entusiasta della vita che lo attende. Ben presto, questa immagine scompare, lasciando il posto a quella di un uomo precocemente invecchiato, spezzato dalle sofferenze fisiche e psicologiche, distrutto nel corpo e nello spirito. Dopo pochi anni di carcere, del brillante ufficiale di un tempo non resta che un derelitto che passa il tempo, nella sua lurida cella brulicante di insetti, a contemplare il proprio degrado e a chiacchierare con un uccello azzurro che sembra venire a confortarlo nella sua disperazione.
Nella prefazione alla raccolta di testimonianze di donne marocchine, mogli, madri e sorelle di prigionieri politici, curata da Nour-Eddine Saoudi, scrive Fatima Mernissi:
Cet ouvrage a le mérite de capter les fragments de souvenirs vacillants des foules féminines qui tourbillonnaient autour des portes angoissantes des prisons. (…) Ce sont des femmes, dites illetrées, qui ont creusé, à force de harceler policiers et tortionnaires, les sillons de la démocratie au Maroc comme dans le reste des pays arabes. Si la percée démocratique semble irréversible au Maroc, c’est en partie grâce à la mobilization des familles des détenus politiques, femmes incluses. (…) Et c’est cette verité qui explique l’incroyable impact médiatique des auditions publiques des victimes des années de plomb. (…) Ces audiences publiques ont donné aux citoyens marocains, pour la première fois dans notre histoire, la possibilité d’écouter les voix traditionnellement réduits au silence: celles, entre autres, des épouses, des mères et des soeurs des détenus politiques, dont l’unique arme de défense est d’inonder la planète de tendresse.[11]
[1] Nour-Eddine Saoudi, Les années de plomb, in Femmes-Prisons. Percours croisés, Rabat, Editions Marsam, 2005, p. 12.
[2] A. Marzūqi, Tazmamārt, al-zinzānah raqam 10, Casablanca, Tarik Editions, 2000. Tradotto in italiano come: Ahmed Marzouki, Tazmamart. Cella 10, Castellana Grotte, CSA Editrice, 2016, traduzione dal francese di C. Sportelli.
[3] A. Marzouki, Tazmamart. Cella 10, op. cit., p. 64.
[4] A. Binebine, Tazmamort, Paris, Ed. Denoël, 2009.
[5] Ivi, p. 43.
[6] A. Laabi, Le chemin des ordalies, Paris, Ed. Denoël, 1982.
[7] Ivi, p.79.
[8] Ivi, p.54.
[9] F. Ūfqīr, Ḥadā’iq al-malik, Rabat, Ūrd li-l-ṭibaʻah wa-l-našr wa-l-tawziʻ, 2000.
[10] Y. Fāḍil, Ṭā‛ir azraq nādir yuḥalliqu maʻī, Bayrūt, Dār al-Ādāb, 2015.
[11] F. Mernissi, Prefazione a N. Saudi, Femmes-Prison. Percours croisés, op. cit., p. 7.
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