Articolo di Federica Pistono

La narrativa di prigionia elaborata in ambito egiziano contemporaneo è strettamente legata alla relazione tra gli intellettuali e il potere. Il rapporto intercorso, negli anni, tra gli intellettuali egiziani e i governi militari al potere nel loro paese è molto spesso conflittuale. Il regime di ʻAbd al-Nāsir soddisfa solo in parte le istanze che avevano ispirato e sostenuto la rivoluzione degli Ufficiali Liberi: un nazionalismo arabo fondato sui principi di libertà e di giustizia sociale, la necessità di una più equa distribuzione delle ricchezze, l’adesione alla causa palestinese. Se, sul piano internazionale, il regime nasseriano assume posizioni decisamente anti-imperialistiche, con azioni come la nazionalizzazione del Canale di Suez, l’appoggio ai rivoluzionari algerini in lotta per la liberazione del loro paese dalla dominazione francese, la lotta per la liberazione della Palestina, sul fronte interno mostra ben presto il proprio carattere autoritario, l’intrinseca brutalità, la morsa soffocante in cui schiaccia ogni opposizione. In questa atmosfera di lacerante contrapposizione emerge una nuova generazione di intellettuali egiziani, alcuni dei quali si riuniscono intorno a una nuova rivista letteraria: “Galleria ‘68”. Osserva a questo proposito Lorenzo Casini:
Questa rivista rappresentò la voce del ’68 egiziano, il punto d’incontro di una nuova generazione di scrittori e intellettuali animati dalla volontà di un rinnovamento sociale radicale e da una critica severa alle limitazioni delle libertà civili imposte dal regime di Nasser. Per gli autori di “Galleria ‘68”, infatti, la repressione del dissenso e delle “voci critiche” degli intellettuali aveva oscurato i reali problemi del paese ed era stato alla base dell’esito disastroso della Guerra dei Sei Giorni.[1]
Questi scrittori non propongono nuove ideologie, ma si sono formati negli anni della “rivoluzione” nasseriana e, pur condividendo le speranze di un futuro di progresso e di giustizia sociale, si mostrano critici nei confronti delle contraddizioni esistenti tra la retorica e l’operato del regime, della cui repressione sono spesso vittime.
Uno dei racconti pubblicati su “Galleria ‘68” propone proprio il tema della prigionia; si tratta di Hidāiyyat ahl al-warā li-baʽḍ mā ğarā fī al-Maqšarah [2]di Ğamāl al-Ġīṭānī (1945-2015). Questo racconto raffigura, come nota Lorenzo Casini, «il luogo fisico della prigione, dove numerosi scrittori e critici che avrebbero dato vita a “Galleria ‘68” vennero rinchiusi per diversi mesi, in un’ondata di arresti che nel 1966 coinvolse proprio la giovane generazione di intellettuali e gli esponenti del movimento studentesco»[3].
Nel racconto, ambientato al Cairo nella terrificante prigione di al-Maqšarah, “lo Sbucciatoio”, in epoca mamelucca, le parole del direttore del carcere non solo offrono una rappresentazione dettagliata della prigione e delle sofferenze dei detenuti, ma esemplificano il discorso del potere. L’antico carcere mamelucco descritto nel racconto diventa così una metafora dell’Egitto contemporaneo in cui si trovano immersi i giovani intellettuali. Dopo aver studiato a fondo l’epoca dei Mamelucchi, l’autore decide infatti di utilizzare alcuni elementi della storia di quel periodo per alludere alla più recente storia egiziana, giacché il sistema mamelucco, basato non sul merito ma sul rapporto personale con il sultano, e in cui chiunque poteva essere arrestato senza motivo e senza il diritto di chiederne ragione, presenta notevoli affinità con l’Egitto contemporaneo.
In quello che è forse il suo romanzo più famoso, al-Zaynī Barakāt[4], l’autore racconta, attraverso la crisi e il crollo di un impero del passato, il sultanato mamelucco, la disillusione nasseriana, ma anche e soprattutto gli eterni meccanismi di sopraffazione che accompagnano la lotta per il potere.
Il romanzo, metafora del populismo e della demagogia, della strumentalizzazione della religione a fini politici, ha per sfondo il Cairo degli inizi del XVI secolo, un universo fantasmagorico le cui strade sono percorse da una folla eterogenea di mercanti, cantastorie, funzionari corrotti, prostitute, soldati; le moschee e le scuole coraniche accolgono fedeli e studenti da tutto il mondo islamico.
Il dominio mamelucco, ormai agonizzante sotto la pressione dell’impero ottomano, ha instaurato un regime poliziesco in cui l’arbitrio rappresenta la norma, la politica è demagogia e sopruso. Il Gran Censore, lo Zaynī Barakāt Ibn Mūsà, si impone per il suo carisma e la sua abilità nell’orientare e governare gli umori del popolo. A fronteggiarlo, in uno scontro esiziale, è il capo della Polizia segreta, raffinato cultore della tortura e del ricatto, ideatore di una rete tentacolare di spie presenti in tutto il paese. L’opera descrive nel dettaglio le torture, le violenze, i soprusi ma anche gli infiniti sotterfugi di chi, in un simile mondo, deve sopravvivere. I rimandi alla situazione politica dell’Egitto contemporaneo sono talmente evidenti che il libro non può essere pubblicato subito in Egitto ma è edito in Libano nel 1974.
Ğamāl al-Ġīṭānī affronta il tema della prigionia anche in un altro racconto, al-Qal ʻah[5], tratto dalla raccolta Iḥtāf al-zamān bi-ḥikāyyat Ğalābī al-Ṣultān (Il dono del tempo nel racconto del sultano Gialabi). Il racconto descrive, con dovizia di angosciosi particolari, la terribile situazione di un unico prigioniero in un carcere del deserto.
Il tema della violazione dei diritti umani, della dittatura e del carcere è ampiamente svolto nel breve romanzo di Nağīb Maḥfūẕ (1911-2006) al-Karnak[6], incentrato proprio sulle persecuzioni e sulle torture del regime militare egiziano ai tempi di ֫Abd al-Nāṣir e dell’ascesa al potere di al-Sādāt.
Il Karnak Café del romanzo è un locale, gestito da un’affascinante ex- danzatrice, Qurunfulah. Nel caffè si ritrovano ogni sera i personaggi più vari. Fra i molti anziani che passano il tempo a chiacchierare, una sera appare un gruppo di giovani avventori, tra i quali Ḥilmī Ḥamādā, Ismāʻ īl e Zaynab. Sono studenti universitari, figli di quella rivoluzione socialista che presto devasterà le loro vite. Non militano in nessuno dei movimenti di opposizione messi al bando dal regime: non fanno parte dei Fratelli Musulmani né delle organizzazioni comuniste perseguitate dalla giunta militare al potere. La loro inquietudine è tutta interna alla rivoluzione socialista, mira a realizzare pienamente gli ideali rivoluzionari. Osserva il narratore:
«Dopotutto, era un’epoca di poteri invisibili: spie che aleggiavano persino nell’aria che respiravamo, ombre nella piena luce del giorno»[7].
Gli studenti improvvisamente scompaiono, la preoccupazione cresce fra gli avventori del caffè, mentre Qurunfulah, innamorata di Ḥilmī, si dispera.
Venne il giorno in cui giunsi al locale e trovai vuote le sedie normalmente occupate dai giovani. Il locale aveva un aspetto molto strano e un silenzio pesante gravava su ogni cosa. I vecchi erano impegnati a giocare a backgammon e a chiacchierare, ma Qurunfula continuava a lanciare occhiate ansiose verso la porta. Venne a sedersi accanto a me. «Nessuno di loro si è fatto vivo. Che può essere successo?[8]
È una fase della storia egiziana che l’autore definisce Terrore; passa un tempo lunghissimo prima che i giovani tornino a frequentare il caffè, e qualcuno di loro manca all’appello. Tornano avvolti dalla tristezza, dalla tetraggine, trasformati. Nel giro di qualche anno spariscono tre volte. Tornano sempre più devastati, sospettosi l’uno dell’altro, privati della gioventù e dei sogni, senza più alcuna fiducia in quelle istanze rivoluzionarie che pure avevano appoggiato. Dopo l’ultimo arresto, manca all’appello proprio Ḥilmī: è morto in carcere in seguito alle torture subite.
Scritto nei primi anni Settanta, il romanzo descrive la situazione politica egiziana ma è costruito come una sorta di meditazione in forma narrativa sulle sorti della nazione. «… Alla fine del racconto hai il sospetto che quella bella danzatrice matura, segnata dal dolore per le torture e per la morte subite dal suo amante, sgomenta per aver visto consumarsi nel suo locale la devastazione di una generazione di giovani universitari, sia l’Egitto intero»[9].
Anche il romanzo Bayḍat al-naʻamah āmah, di Raū’f Musʽad Basṭā (1937) è ambientato in epoca nasseriana[10].
Lo scrittore, egiziano di origine sudanese, rievoca nell’opera gli episodi della sua esistenza, componendo una sorta di diario in cui le immagini seguono il flusso della memoria che non tiene conto del tempo cronologico.
L’autore tenta, attraverso il proprio corpo e la rievocazione delle proprie esperienze erotiche, di sbarazzarsi del ricordo della prigionia subita negli anni Sessanta per motivi politici. «Una miriade di incontri amorosi, talvolta disperati, si alternano al racconto della sua prigionia»[11]. Narrando l’esperienza della detenzione, Basṭā descrive i rapporti che si intrecciano fra i prigionieri che condividono la cella e i pochi beni che possiedono, scambiandosi quel calore umano che è completamente bandito dalla durezza della vita detentiva. L’alternanza di racconti a sfondo erotico con racconti di prigionia rappresenta sicuramente una novità per la narrativa egiziana e, più in generale, araba.
Come osserva Angelo Arioli nella presentazione dell’edizione italiana del romanzo:
Gli uomini e le donne che vivono in queste pagine cercano, con maggiore o minore coscienza, confusamente o meno, di sfuggire tramite il loro corpo, il loro sesso, alle innumerevoli prigioni che la società erige intorno alle loro esistenze. Come se il corpo, l’intimità dei sessi, fosse l’ultima trincea dove tentare di difendere quanto resta della propria persona, dove sperare di sottrarre gli ultimi residui spazi di libertà per recuperare una dimensione umana mortificata, se non annullata, dalle quotidiane follie della storia[12].
Così l’autore definisce l’esperienza detentiva:
«Il carcere non si può descrivere… Non si può descrivere l’odore. Non si può descrivere il silenzio…» Come nota Wasim Dahmash nella postfazione all’opera:
Se per un verso le reazione è tutta individuale, (…), per altro verso si tratta di un fatto comune, quasi ineluttabile, che tocca chiunque nei paesi arabi abbia l’ardire di protestare contro gli abusi dei gruppi che detengono il potere. E il carcere vuol dire sempre tortura, quella banale e bestiale, del corpo. Lo scrittore vi accenna appena, perché il carcere, appunto, non si può descrivere. Ma la sua esperienza risale agli anni Sessanta, in un Egitto che conservava una parvenza di legalità e di rispetto dello stato di diritto. Oggi la repressione è diventata l’asse portante del sistema di potere in tutto l’Oriente. Da una parte, repressione fatta di carcere, tortura e morte, che colpisce soprattutto i giovani, e dall’altra, corruzione e sadismo che il sistema genera, assicurandosi così stabilità e continuità. Alla base è la concezione stessa del potere che si esplica nell’esercizio della violenza più brutale vista come espressione di sovranità[13].
L’esperienza della prigionia è l’argomento centrale del romanzo al-ʻayn ḏāt al-ğafn al-maʻdanī[14] (L’occhio dalla palpebra metallica) di Šarīf Ḥatātah (1923-2017). L’opera risulta particolarmente interessante perché propone un confronto tra la prigionia politica al tempo della colonizzazione britannica in Egitto e quella nell’epoca dell’indipendenza egiziana.
Protagonista dell’opera è un medico, come l’autore, che, come membro del partito comunista egiziano, ha conosciuto l’esperienza del carcere. Il romanzo, ampiamente autobiografico, si compone di tre parti: le prime due, al-ʻAyn ḏāt al-ğafn al-maʻ֫danī e Ğanāḥān li-l-rīḥ, riguardano la prigionia politica nel periodo della colonizzazione inglese, mentre la terza, al-Hazīmah, tratta della reclusione dopo l’indipendenza del paese.
Il medico ʻAzīz ʻUmrān partecipa, con l’organizzazione politica cui appartiene, alla liberazione dell’Egitto dagli inglesi. Incarcerato con le accuse di incitamento allo sciopero e diffusione di materiale sovversivo, il protagonista rievoca la sua precedente esperienza detentiva, mescolando il passato con il presente narrativo. Il detenuto sperimenta la cella di isolamento, nuovo strumento del potere per estorcere al recluso le informazioni desiderate.
Nella seconda parte, il personaggio vive l’esperienza della cella collettiva, in cui la prigione diventa per i reclusi una scuola, in cui i detenuti si incontrano, si confrontano, leggono libri e giornali, mantengono i contatti con i compagni all’esterno. La narrazione prende l’avvio con l’abbandono della famiglia da parte di ʻAzīz per continuare la lotta. Arrestato di nuovo, grazie alla sua amicizia con il medico della prigione, viene trasferito all’ospedale di al-Qaṣr al-ʻaynī. Lavorando in ospedale, può incontrare la moglie e il figlio per poi evadere.
Nella terza parte, ʻAzīz, nascondendosi nella stiva di una nave, riesce a raggiungere la Francia. Tornato in patria con la rivoluzione degli Ufficiali Liberi, la delusione per una situazione che non ha portato libertà e uguaglianza in Egitto lo spinge a riprendere la lotta politica. Torna così in prigione, sperimentando le carceri dell’Egitto indipendente. Autore e personaggio sono accomunati dalla professione medica e incarnano il nuovo intellettuale arabo, attivista e scrittore, impegnato politicamente e desideroso di far conoscere a un vasto pubblico la propria esperienza.
Se l’epoca di ʻAbd al-Naṣir appare difficile sotto il profilo dei rapporti degli intellettuali con il potere, ancor più dura risulta quella della presidenza di al- Sādāt: negli anni dell’Infitaḥ, dell’apertura all’America e al capitalismo, molti scrittori diventano, agli occhi del regime, pericolosi sovversivi e, come tali, vengono sottoposti a controlli capillari e asfissianti, spesso imprigionati o costretti a scegliere la via dell’esilio.
Lo scrittore egiziano che ha più spesso trattato il tema della prigionia, cominciando con il romanzo Tilka al-ra‛iḥah, è Ṣunʻallah Ibrāhīm[15] (1937), che ha attraversato tutte le epoche della recente storia egiziana. Quest’opera autobiografica, che rappresenta uno dei testi fondamentali di adab al–suǧūn di epoca contemporanea, più volte censurata in Egitto prima di apparire in edizione integrale, narra la vicenda di uno scrittore che, dopo un lungo periodo di prigionia politica, esce dal carcere ma è sottoposto al regime della libertà vigilata. Durante il giorno può girare per la città, incontrare amici e parenti, mentre, di sera, è costretto a chiudersi in casa. Fuori dalla prigione, non ritrova più il mondo lasciato anni prima. Pervaso da sensazioni di spaesamento e di alienazione, gli tornano continuamente alla memoria i ricordi del lungo periodo di prigionia. Passato e presente a volte si confondono, anche se il protagonista resta lucidissimo, rammentando nitidamente “l’inferno” della realtà carceraria, intessuta anche di rapporti sessuali e di masturbazione, pervasa dall’inconfondibile odore dell’essere umano in cattività.
Ancora più lontano dall’antico prototipo del recluso è Šaraf, protagonista dell’omonimo romanzo di Ṣunʻallah Ibrāhīm[16]. Come spesso accade nei romanzi di Ṣunʻallah Ibrāhīm, il nome determina il destino del protagonista[17]. Šaraf, il cui nome in arabo significa “onore”, finisce in prigione proprio per difendere questo valore, minacciato dalla concupiscenza di un ricco turista occidentale. Autore di un omicidio involontario, il giovane è incarcerato. Ad eccezione del primo capitolo, l’intero romanzo è volto a descrivere l’universo carcerario, un mondo estremamente duro che assume i tratti della prigione “infernale”, già descritta dall’autore nella precedente opera con amara ironia. In prigione, come nel mondo libero, il popolo egiziano è costretto a “digerire perfino i sassi”: i fermati vengono sottoposti a tortura nei posti di polizia, la corruzione è diffusa a tutti i livelli, i rapporti sessuali tra i reclusi hanno spesso i connotati dello stupro.
Šaraf, il protagonista, è quanto di più lontano si possa immaginare dal modello del prigioniero umile e rassegnato: la sua cultura è limitata, si esprime in un arabo inframmezzato di anglicismi, i suoi sogni non oltrepassano il desiderio di una giovane vicina di casa e quello dei prodotti elettronici. L’unica evasione è rappresentata dal bango, la marijuana. Interessante la figura del dottor Ramzī, compagno di cella di Šaraf, un farmacista copto che ha fatto una brillante carriera in un’industria farmaceutica ma che, a causa della sua incorruttibilità, è stato travolto dalla macchinazione che lo ha condotto in carcere. Il finale è amarissimo, perché il protagonista, per poter tornare in libertà, è costretto a perdere quell’onore la cui difesa aveva pagato con l’arresto.
Con la figura di Šaraf, l’archetipo del passato è totalmente archiviato. Da notare, però, che Šaraf non è un prigioniero politico, ma è in carcere per un reato comune. Emerge, dunque, un’immagine della prigione come riflesso della corrotta società egiziana, in cui si raccolgono gli oppressi e si esercita su di essi una nuova oppressione.
Sempre di Ṣunʻallah Ibrāhīm il romanzo Nağmat Aġusṭus[18], in cui non troviamo un protagonista in carcere, ma l’esperienza della reclusione torna continuamente alla memoria del narratore di cui si ignora il nome. Il protagonista, un giornalista, compie un viaggio dal Cairo ad Aswān per scrivere un articolo sulla grande diga in costruzione. In realtà, il viaggio verso il sud è un pretesto per sfuggire al ricordo ossessivo della prigionia politica e scoprire invece la grandezza dell’Egitto contemporaneo, simboleggiata dalla grande diga, e dell’Egitto faraonico, rappresentata dalle testimonianze archeologiche. Con un amico, il giornalista cerca di avvicinarsi ai russi che partecipano all’opera di costruzione della diga, senza però riuscirvi. I monumenti dell’epoca faraonica inducono il protagonista a pensare all’opera di Michelangelo, mentre una visita ad Abū Simbil lo spinge a riflettere sul faraone Ramses II: nonostante i millenni trascorsi, nulla sembra essere cambiato, gli uomini continuano, incatenati, a lavorare per il despota di turno.
Di Ṣunʻallah Ibrāhīm è anche il romanzo al-Lağnah (La commissione)[19], un’opera di chiara impostazione kafkiana. Non si tratta di un libro sull’universo carcerario ma di un testo sulla dittatura, su una società in cui il cittadino, specialmente l’intellettuale, si trova alla mercé di indagini oscure. La “Commissione” è un organismo collegiale, composto di membri non arabi, incaricato di indagare su persone “sospette”, senza che il sospetto venga precisato. La narrazione, che assume un tono ora realistico ora fantastico, racconta la storia di un egiziano senza nome che, pur di uscire dall’anonimato, si sottopone all’esame della “Commissione”. Nota Paola Viviani nella postfazione all’edizione italiana dell’opera:
«Il faccia a faccia con il suddetto organismo è l’unico mezzo per emergere, in una società, l’egiziana degli anni ‘60/’70, in cui l’individuo libero è ormai una chimera, perché non viene garantita alcuna libertà»[20].
Il romanzo contiene diversi elementi che caratterizzano la nuova narrativa egiziana, dalla critica politico-sociale alla denuncia del governo di al-Sādāt, che ha ridotto notevolmente la sfera dei diritti civili, alla constatazione del fallimento dell’intellettuale, che non ha saputo reagire alle intimidazioni del potere, anche se, per Ṣunʻallah Ibrāhīm, c’è ancora speranza nel futuro, in un domani in cui «non ci saranno soltanto nuova corruzione e nuovi soprusi, ma pure nuovi uomini (e intellettuali) più forti e arditi di chi li ha preceduti, individui atti a rivoluzionare l’ordine delle cose con la forza del pensiero, con l’umanità e una morale non più capovolta»[21].
Il tema della prigionia è al centro del romanzo di Fatḥī Faḍl al-Zinzānah (La cella)[22].
La vicenda inizia con il desiderio del protagonista di evadere dalla noia quotidiana attraverso un viaggio verso l’ignoto. La prigione viene considerata una meta perfetta, un rifugio in cui estraniarsi da una quotidianità sgradevole. Il personaggio medita addirittura di rubare un portafogli sull’autobus per poter essere arrestato. Ma l’occasione di conoscere il carcere gli si presenta presto. Proprietario di una casa editrice, viene accusato di aver pubblicato un libro messo al bando per motivi religiosi. Arrestato, si ritrova intrappolato fra le maglie della giustizia e la prigione, tanto vagheggiata in precedenza, si trasforma anche per lui in un incubo. In carcere, vive in attesa del processo, in condizioni disumane, terrorizzato dalle torture, sorretto soltanto dalla speranza di una rapida liberazione.
Per quanto riguarda la letteratura carceraria femminile egiziana, alcune autrici di diari di prigionia definiscono lo spazio del carcere attraverso scelte espressive e narrative volte a sottolineare il proprio percorso interiore durante la detenzione[23].
In tali autobiografie, la prigione è considerata una tappa fondamentale e formativa nel percorso della propria esistenza. In questi diari femminili, emerge il tema del cameratismo: la cella è individuata come spazio della solidarietà, anche quando entrano in contatto identità culturali e religiose diverse o opinioni politiche differenti. Si osserva, cioè, il fenomeno opposto rispetto a quello riscontrato in molte descrizioni del carcere a firma maschile, in cui la cella è presentata come spazio dell’ostilità e del malessere.
Nawāl al-Saʻdāwī[24] (1931), nell’opera Muḏakkirātī fī siǧn al-nisā’ (Le mie memorie in una prigione femminile, 1984) si riconosce, insieme alle detenute non politiche, come parte di un gruppo di donne vessate dalle istituzioni. La scrittrice, pioniera della formazione di una nuova identità femminile egiziana, descrive, con il maggior realismo possibile, le sofferenze tipicamente femminili della reclusione, come gli oltraggi a sfondo sessuale e il senso di colpa rispetto al ruolo familiare socialmente imposto. Il diario di Nawāl al-Saʻdāwī risulta sorprendente per la conclusione, in cui l’autrice, ormai libera, è colta da un improvviso senso di nostalgia e torna in carcere per visitare le proprie compagne di prigionia. L’esperienza della reclusione la spinge a esprimere la delusione nei confronti del sistema politico, ma anche nei confronti di tutti quegli intellettuali che si sono piegati al regime e hanno così contribuito alla crisi culturale in tutto il mondo arabo. Il carcere è rappresentato dall’autrice come un simbolo dell’oppressione del potere politico sulla società civile.
L’autobiografia di Laṭīfah al-Zayyāt (1923-1996), Ḥamlat taftīš: awrāq šaḫṣiyyah[25]si configura, oltre che come il racconto della propria vita, anche come un ritratto dell’Egitto, dilaniato da contraddizioni e contrasti nella vita intellettuale del Cairo negli anni Cinquanta e Sessanta. L’autrice, figura di primo piano della scena politica e culturale egiziana, partecipa fin da giovanissima ai movimenti di protesta contro il regime e alla lotta per l’affermazione della democrazia. Per questo, conosce il carcere due volte, negli anni Quaranta e nel 1981. Le memorie ripercorrono le tappe fondamentali della sua vita, i due matrimoni falliti, il carcere politico, la battaglia per l’esercizio dei propri diritti. La vita dell’autrice è emblema di un complesso rapporto tra prigionia e libertà nella vita politica come in quella affettiva.
L’autobiografia di Farīdah al-Naqqāš (1940), al-Siğn… al-Waṭan[26] (La prigione… la patria) racconta, in particolare, le esperienze di prigionia nell’anno 1981. La sua testimonianza è quella di una vita vissuta nella paura delle continue aggressioni, delle irruzioni della polizia in casa, presso la sede dell’Unione degli scrittori, presso il sindacato di appartenenza. Anche per lei, l’esperienza del carcere non è completamente negativa: in cella incontra altre donne, colleghe come pure detenute di diversa estrazione sociale e livello culturale. In prigione, «le donne inventano il loro tempo, giocando a scacchi con le briciole di pane, cantando le canzoni care alla tradizione rivoluzionaria, ballando, per sconfiggere l’angoscia della vita in prigione.
Importante una precisazione: le detenute egiziane sperimentano in cella uno spazio della solidarietà e della condivisione, si uniscono e si appoggiano a vicenda nell’affrontare la brutalità dei carcerieri, ma non accettano affatto la reclusione, ritenendo che il carcere non sia altro che uno dei tanti strumenti dell’oppressione e della repressione del dittatore.
Se la prigionia si traduce, per alcune di esse, in un’esperienza positiva, al punto da suscitare nostalgia, perché la solidarietà femminile e il senso dell’amicizia hanno prevalso sulle differenze politiche e confessionali, oltre che su quelle sociali e culturali, ciò non significa che la reclusione sia accettata con umiltà e rassegnazione. Le prigioniere continuano infatti la propria lotta politica dopo la liberazione. La consapevolezza politica, la volontà di combattere un regime dittatoriale e una società maschilista e portatrice di una doppia morale costituiscono il puntello che aiuta le recluse a non lasciarsi abbattere e sconfiggere dall’esperienza della prigionia.
Fra le testimonianze di prigionia a firma femminile in Egitto, deve essere citato il testo biografico e memorialistico Ayyām min ḥayātī [27]di Zaynab al-Ġazālī (1917-2005), fondatrice e presidentessa dell’Associazione delle Donne Musulmane. Nell’opera, l’autrice ripercorre la sua storia di militante all’interno del movimento dei Fratelli Musulmani, concentrandosi soprattutto sul periodo della sua detenzione, tra il 1965 e il 1971, presentato come occasione di rafforzamento della propria fede e militanza politica e religiosa.
Un’ultima considerazione può essere espressa sulla letteratura di prigionia di ambito egiziano. Per quanto concerne gli autori, balza agli occhi la diversità di posizioni politiche che li caratterizzano: gli autori di “Galleria 68”, come al-Ġiṭānī, appartengono alle fila degli intellettuali delusi dall’aspetto autoritario assunto dalla politica interna del regime nasseriano, atteggiamento condiviso anche da Maḥfūẕ. Sunʻallah Ibrāhīm, Šarīf Ḥatātah, Nawāl al-Saʻ dawī sono comunisti. Zaynab al-Ġazālī è una Sorella Musulmana. Si può dunque affermare che gli scrittori egiziani di adab al-suğūn rivelino le appartenenze politiche e religiose più disparate.
[1] L. Casini, Introduzione a Fuori dagli argini. Racconti del ’68 egiziano, Roma, Edizioni Lavoro, 2003, p. VII.
[2] Ğamāl al-Ġīṭānī, Hidāiyyat ahl al-warā li-baʿḍ mā ğarā fī al-Maqšarah, in “Galleria ‘68”, 1969. È tradotto in italiano come: Gamal al-Ghitani, La guida delle genti a ciò che accadde nella prigione di al-Maqshara, in Fuori dagli argini. Racconti del ’68 egiziano, op.cit., traduzione di L. Casini.
[3] L. Casini, Introduzione a Fuori dagli argini. Racconti del ’68 egiziano, op. cit, p. XII.
[4] G. al-Ġīṭānī, al-Zaynī Barakāt, al-Qāhirah, Dār al-Šurūq, al-Qāhirah, 2011, prima pubblicazione 1974. In italiano è tradotto come: Gamal Ghitani, Zayni Barakat. Storia del gran censore della città del Cairo, Firenze, Giunti Editore, 1997, traduzione di L. Orelli.
[5] Ğamāl al-Ġīṭānī, al-Qalʻah in Iḥtāf al-zamān bi-ḥikāyyat Ğalābī al-Ṣultān, 1984. Il racconto è tradotto in italiano come: Giamal al-Ghitani, La cittadella, in Scrittori arabi del Novecento, a cura di Isabella Camera D’Afflitto, Bompiani, 2002, vol. II, traduzione di I. Camera D’Afflitto.
[6] Nağīb Maḥfūẕ, al-Karnak, al-Qāhirah, Dār al-Šurūq, 1974, tradotto in italiano come: Nagib Mahfuz, Il caffè degli intrighi, Salerno, Ripostes, 1988, traduzione e introduzione di D. Amaldi. Il romanzo è stato poi nuovamente pubblicato come Nagib Mahfuz, Karnak Café, Roma, Newton&Compton editori, 2008, traduzione di C. Vetteroni.
[7] Nagib Mahfuz, Karnak Café, op. cit, p.27.
[8] Ivi, p. 17.
[9] M. Valentini, Scrittori arabi contemporanei, sesta puntata, in Minima&Moralia, 22 giugno 2016.
[10] R. M. Basṭā, Bayḍat al-naʻāmah, 1994, tradotto in italiano come Ra’uf M. Basta, L’uovo di struzzo. Memorie erotiche, Roma, Jouvence, 1998, traduzione di W. Dahmash.
[11] Ivi, p. 34.
[12] A. Arioli, Prefazione a Ra’uf M. Basta, L’uovo di struzzo. Memorie erotiche, op. cit, pp. 14-15.
[13] W. Dahmash, Postfazione a Ra’uf M. Basta, L’uovo di struzzo. Memorie erotiche, op. cit, pp. 240-241.
[14] Šarīf Ḥatātah, al-֫ayn ḏāt al-ğafn al-maʻdanī, al-Qāhirah, Dār al-ṯaqāfah al-ğadīdah, 1980.
[15] Ṣunʻallah Ibrāhīm, Tilka al-ra‛iḥah, al-Qāhirah, Tarīḫ al-Našr, 1966 e 1986, tradotto in italiano come: Sonallah Ibrahim, Quell’odore, Catania, De Martinis &C., 1994, traduzione di T. Di Perna.
[16] Ṣunʿallah Ibrāhīm, Šaraf, al-Qāhirah, Dār al-Hilāl, 1997.
[17] Cfr. Sonallah Ibrahim, Warda, Ilisso, 2005, traduzione di P. Zanelli e Le stagioni di Zhat, Calabuig, 2015, traduzione di E. Bartuli.
[18] Ṣunʿallah Ibrāhīm, Nağmat Aġusṭus, al-Qāhirah, Dār a-Hadī li-l-našr wa-l-tawzi ֫, 1974.
[19] Ṣunʿallah Ibrāhīm, al-Lağnah, al- Qāhirah, Dār al-Mustaqbal al-ʻarabī, 1981, tradotto in italiano come: Sonallah Ibrahim, La commissione, Roma, Jouvence, 2003, traduzione e postfazione di P. Viviani.
[20] P. Viviani, Postfazione a Sonallah Ibrahim, La commissione, op. cit., pp. 126-127.
[21] Ivi, pp. 128-129.
[22] Fatḥī Faḍl, al-Zinzānah, al-Qāhirah, Dār al-Qarṭās li-l-našr wa-l-tawzīʻ, 1993.
[23] Si pensi, ad esempio, a Nawāl al-Saʻdāwī e a Laṭīfah al-Zayyāt.
[24]N. al-Saʿdāwī, Muḏakkirātī fī siǧn al-nisā’, al-Qāhirah, Dār al-Mustaqbal, 1984.
[25] L. al-Zayyāt, Ḥamlat taftīš: awrāq šaḫṣiyyah, al-Qāhirah,al-Hay’ah al-miṣriyyah al-֫ āmmah li-l-kutub- Maktabah al-usrah, 1992, tradotto in italiano come: Latifa al-Zayyat, Carte private di una femminista, Roma, Jouvence, 1996, traduzione di I. Camera D’Afflitto.
[26] F. al-Naqqāš, al-Siğn… al-Waṭan, al-Qāhirah, Dār al-Mustaqbal al-ʻarabī, 1985.
[27] Z. al-Ġazālī, Ayyām min ḥayātī, al-Qāhirah, Dār al-Qur’ān al-Karīm, 1977.
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