Jana Fawaz El-Hassan

Articolo e intervista di Amira Kelany

Jana Fawaz El-Hassan, scrittrice Libanese, attualmente residente negli Stati Uniti. Ha pubblicato in Italia “Piano 99” (Atmosphere Libri, 2018), “Io Lei e Le Altre” (MR Editori, 2021), entrambi candidati al International Prize for Arabic Fiction (IPAF). In entrambi i romanzi, dalla storia estremamente diversa ma dai tratti paralleli, la El-Hassan si distingue per la sua penna lucida e disincantata, lascia che i personaggi si analizzino autonomamente, nella loro più personale interiorità e nel legarsi, o slegarsi, da tutto ciò che li circonda, senza mai cadere in un gioco di facili psicologismi. Fra New York, Beirut e la campagna libanese leggiamo storie di uomini e donne tesi fra tradizione, modernità, famiglia e storia, che si ripercuote sulle storie, il personale e il sociale che si intrecciano a formare una matassa il cui bandolo altro non è che l’autoaffermazione, nel sé e al di là del sé. Sono racconti ambientati dentro e fuori dal Libano, che di esso assorbono identità, canovaccio sociale e culturale, credo e assenza di credo, che di Libano sono intrisi ma che con esso camminano su percorsi paralleli che portano, chi vi si immerga, a creare un itinerario di lettura totalmente fruibile anche al di fuori dei binari libanesi. Abbiamo voluto ascoltare la voce di Jana al di là dei suoi personaggi, che già molto ci hanno comunicato di lei nel raccontarci le loro vicende, per orientarci ancor meglio fra i pensieri, le difficoltà, le perplessità, gli esempi e le convinzioni che abbiano animato, e tutt’ora animano, il lavoro di questa giovane intellettuale che ha deciso di proporre, nel testo scritto e nell’Io più profondo, un forte cambiamento, pienamente conscio della necessità di rimanere legati a quella che lei definisce “la Casa”.

Cara Jana, ci conosciamo e ho avuto modo di leggere e apprezzare i tuoi libri, ma potresti presentarti ai nostri lettori; come e perché hai iniziato a scrivere, quanto la tua vita, in Libano e all’estero, ha influenzato i tuoi libri?

Sono Jana Elhassan, una scrittrice libanese che attualmente vive a Washington, DC. Ho iniziato a scrivere da giovane, arrabbiata con il mondo, alla ricerca della mia identità e della sua stessa voce. Scrivevo testi in prosa e poesia, finché non sono riuscita a scrivere una storia completa all’età di 23 anni. Se dovessi descrivere il mio primo lavoro, direi che era crudo e schietto, ma volevo che la scrittura divenisse più matura . Questo è ciò che ho cercato di fare nel lavoro successivo e nei due romanzi che ho pubblicato in seguito, “Io Lei e le Altre” e “Piano 99”. Sono andata via dal Libano e sono venuta negli Stati Uniti quasi sei anni fa, ma non ho pubblicato altri libri da quando sono andata via. Durante questo periodo, penso di aver esaminato da vicino il rapporto con il mio paese
d’origine, le mie radici e la mia identità araba. A volte non sappiamo quanto siano radicate alcune cose dentro di noi finché non ci allontaniamo da esse e le osserviamo da lontano. Penso di aver sempre affrontato il concetto di “Casa” nel mio lavoro, e la convinzione di appartenere a qualcosa in questo mondo, che sia una patria, o anche un’idea o una persona. Questa era già una parte importante della mia scrittura e penso che si paleserà ancora di più nei prossimi romanzi su cui sto lavorando.

Selma Dabbagh ha affermato nell’introduzione a “Abbiamo scritto in simboli: amore e lussuria di scrittrici arabe” che “l’arabo può essere visto come una lingua unificante, ma le sottigliezze e le differenze tra i dialetti dettano specificità culturali diverse e riflettono una forte diversità sia nel luogo che nella comunità. In altre parole, a meno che non sia chiaro il contesto geografico d’origine, i lettori perdono il senso del luogo con l’assenza di dialetto e le diverse geografie e contesti iniziano a colorirsi di neutralità”. Cosa ne pensi di questa affermazione e cosa pensi possa penetrare il lettore straniero?

Non sono necessariamente d’accordo con l’intera affermazione. Credo di sì che l’arabo sia una lingua unificante e che ci siano contesti geografici e dialetti diversi e che ci siano molti dettagli specifici relativi a ciascun paese diverso. Questo non deve significare che il lettore straniero non possa comprendere questa particolarità, forse non pienamente, ma quantomeno nel suo aspetto umano universale. Un romanzo può essere ambientato in un piccolo quartiere ed essere ancora scritto con particolari tali da consentire al lettore di coglierne l’essenza. Questo non sempre neutralizza il testo. Penso che il problema sia che nel corso della storia, l’Oriente sia stato ritratto in un certo modo dall’Occidente, che ne ha esaltato gli stereotipi e talvolta un’immagine irrealistica, per intenderci Harem e uomini a dorso di cammello. Diventiamo più alienati da noi stessi quando non combattiamo per i nostri dettagli, per ritrarre gli aromi dei nostri quartieri attraverso le parole, nell’elaborare il nostro background, il modo in cui vestiamo, mangiamo, cantiamo e persino il modo in cui ci arrabbiamo. La lingua è davvero infida a volte, ma non se veicolata attraverso la lente di qualcuno che scrive con il cuore della propria esperienza umana. Credo che la letteratura permetta ai lettori di penetrare in altri paesi, culture e società, sia che questo straniero sia un arabo che legge un testo non arabo, o viceversa.

Questa domanda mi riporta al libro di Selma Debbagh; Cito “Le donne che scrivevano di amore e lussuria hanno affrontato un blackout per quasi mezzo millennio, riapparendo solo alla fine del diciannovesimo secolo. A quel punto, autori e romanzieri, come Zaynab Fawwaz, hanno iniziato a sfidare le pratiche misogine, come i matrimoni combinati, e in tal modo hanno aperto la strada a molte scrittrici arabe per discutere oggi della sessualità in varie forme letterarie”. Come hai affrontato quel blackout e quanto è stato difficile affrontarlo? Oltre a Zaynab Fawwaz, qual è la tua letteratura di riferimento?

Ho molto a cuore tutte le donne che hanno scritto prima di me, ogni singola donna che abbia avuto il coraggio di mettere in discussione i propri sentimenti più profondi e le proprie insicurezze. Non è mai stato facile, e non lo è ancora. Le donne che parlano della personale sessualità e dei sentimenti sono sempre accolte come se invitassero il prossimo a partecipare del loro mondo, il che non è ammissibile. Quando le donne parlano senza mezzi termini del corpo, non significa che lo stiano rendendo pubblico o, peggio, che stiano rinunciando all’intimità privata, stanno piuttosto mettendo in mostra
un’esperienza, il loro punto di vista su un argomento, proprio come discutere di altre questioni. Sono una persona molto intuitiva e schietta, c’è qualcosa di animalesco in me che a volte cerco di domare, ma penso che dovremmo essere in grado di parlare delle cose di cui abbiamo bisogno e di cui vogliamo parlare, come esseri umani, uomini o donne che siano. Molte persone purtroppo cercano di nascondersi dietro un dito, pensando che non parlare di qualcosa miracolosamente crei un cambiamento. Questo non è vero. Sono cresciuta in una cultura in cui il silenzio è più apprezzato delle parole, ma questo silenzio a mio avviso fa più male di ogni altra cosa. Esprimerci come esseri umani ci libera da tutto il peso superfluo che portiamo, non dobbiamo limitarci a conformarci.

Nel tuo “Io Lei e le Altre” hai rappresentato la vita di donne con una sessualità mutilata, in modi diversi ma simili; pensi che nella traduzione potrebbe creare un’immagine stereotipata delle donne nel mondo arabo? C’è il rischio di un’interpretazione errata di un libro decontestualizzato?

Non ci avevo pensato prima, soprattutto perché ho scritto il libro in arabo e la traduzione è arrivata dopo. Le donne nel mio libro non alimentano stereotipi, se le osserviamo attentamente. Ognuno dei personaggi sta cercando di apportare un certo tipo di cambiamento e questa sessualità mutilata fa parte del loro viaggio alla ricerca di se stesse. Penso che lo stereotipo per le donne arabe in Occidente sia dipingere e diffondere l’immagine dell’Harem o della vittima femminile, e i personaggi del mio libro, ciascuno a modo proprio, sfidano questi concetti. Sono persi, sì, mutilati sessualmente, a volte disperati, ma trasformano le proprie vite.

Cito Jean Said Makdisi; Teta, mia madre e io: “Il tipo di lavoro domestico e materno in cui sono stata coinvolta non ha nulla a che fare con la “tradizione” bensì, molto di più, con l’essere “moderni”. Il tipo di vita che io, e gli altri della mia generazione, abbiamo condotto è legato allo stato-nazione “moderno” e alla società capitalista “moderna”, con l’istruzione e l’educazione moderne e con la moderna famiglia borghese”; come pensi sia cambiata la situazione delle donne in Libano tra tradizione e modernità, quanto l’ha influenzata il capitalismo?

Le donne libanesi hanno subito molti cambiamenti a causa della guerra che ha trasformato molte di loro in capofamiglia. Il paese è abbastanza moderno, in un certo senso, ma è anche piegato, quindi si può solo immaginare come sia vivere in un paese abbastanza moderno ma distrutto. Le donne sono per lo più libere, ma la società è ancora molto patriarcale. Inoltre esistono realtà molto diverse in Libano, non si possono paragonare le parti più cosmopolite e urbane del paese a quelle rurali. Le donne sono entrate nel mercato del lavoro in diverse parti del mondo, incluso il Libano, spesso per motivi economici. Dal mio punto di vista questo è un bene, ma non basta, perché viviamo ancora in una società dominata e governata dagli uomini. Le donne di tutto il mondo sono costrette a fare il doppio degli sforzi di un uomo per salire la scala del successo e ottenere un riconoscimento decente. Penso che la guerra abbia trasformato le donne libanesi nelle donne responsabili e concrete che sono, ma che le abbia anche gravate di una sorta di disuguaglianza a livello giudiziario, politico e sociale. Le donne libanesi non possono ancora, sino ad oggi, trasferire la cittadinanza ai propri figli, nel caso fossero sposate con un uomo straniero. Ci sono molte lacune nel sistema a sfavore delle donne. Negli ultimi due anni il Paese ha subito un rapido tracollo e questo sta influenzando tutti, gravando maggiormente sulle donne. La modernità non è solo una parola magica che materializza la garanzia dei diritti delle donne. Può, anzi, dimostrarsi il contrario. In questo mondo moderno, le donne sono sempre più sotto pressione in termini di aspetto fisico, peso, necessità d’eterna gioventù. Questa società moderna vuole un’immagine perfetta delle donne, l’immagine
di una donna in grado di fare tutto, soddisfare tutti, produttiva dentro e fuori la famiglia, una persona che guadagni dignitosamente, che sia grande madre e anche dea del sesso, una donna dalla giovinezza eterna che non invecchia, un’immagine che semplicemente non esiste.

Questa è una domanda difficile ma se dico Nakba, cosa vorresti dirmi, come penseresti di mettere il termine in letteratura? Sto pensando al tuo primo romanzo tradotto in italiano,“Piano 99”… vorresti parlarcene?

Penso alla Nakba come a un’orribile situazione umana e a una terribile condizione di vita, in un senso che travalica gli aspetti geografici e politici di questo evento. Significa perdita, del sé e della casa, e non stiamo parlando di un tipo ordinario di perdita, ma combinato a un profondo spregio della giustizia. Penso che tale evento abbia radicalizzato quella mancanza di sicurezze che può portare a molteplici reazioni. È , al tempo stesso, essa stessa un sistema per domare l’umanità, perché diventi meno sensibile a tali atrocità, è una sorta di normalizzazione dell’ingiustizia, e, in un certo senso, è qualcosa che non può essere corretto se non troviamo un modo per riparare quel danno primario.

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