Recensione Egitto di Jolanda Guardi

La rivoluzione egiziana raccontata dalle donne: da esperienza personale a esperienza collettiva.
Traduzione dall’arabo di Barbara Benini
Poiesis, Alberobello 2021
pagine 144, € 16,00
Narrare è importante, poiché narrando contribuiamo alla costruzione del nostro sé, in un rapporto fra la dimensione narrativa e quella emotiva della costruzione dell’identità. Tale rapporto esplora non solo l’identità, ma anche la memoria e per questo le donne che scrivono e narrano la loro esperienza della rivoluzione egiziana condividono modelli personali e di gruppo, poiché, come afferma Anthony Cohen (Self Consciousness: an alternative anthropology of identity. Routledge, London 1994) per la maggior parte del tempo scriviamo e riscriviamo le nostre storie personali e le nostre storie di gruppo. La narrazione legata a un’esperienza personale e collettiva, inoltre, si caratterizza per essere incentrata sulle persone, sui loro desideri e credenze e su come questi desideri e credenze diano luogo a determinate azioni. La narrazione dell’identità, pertanto, si esprime al passato e utilizza il tempo presente in quelle parti di testo che sono dedicate al commento personale e alla valutazione per fornire di senso quanto riportato (Barbara Herrnstein Smith. On the Margins of Discourse. University of California Press, Berkeley 1984).
Questa narrazioni autobiografiche, inoltre, sfidano nozioni stereotipate di donne e propongono una contro narrazione al discorso nazionalista interno che spesso si lega a una visione islamicamente ortodossa e comunque patriarcale delle donne, come evidenziato nelle narrazioni maschili sulla rivoluzione.
Un testo interessante da questo punto di vista, che attua una trasformazione a livello della pratica e del discorso, ma anche a livello dell’individuale e del collettivo è quello di Dunyā Kamāl, Siğāra sabi‘a (Dunia Kamāl. Siğāra sabi‘a. Dār Mīrīt, Al-qāhira 2012) che è ora possibile leggere nella bella traduzione italiana di Barbara Benini. Il testo viene offerto alla lettrice come romanzo e la narrazione ha inizio alla prima persona: “Ero seduta con la nonna […]” (p. 9). Kamāl utilizza la fiction per parlare della rivoluzione e nella finzione letteraria la protagonista, Nadia, intrattiene un rapporto con il passato ripercorrendo la storia della sua vita e soprattutto soffermandosi sulla ssua relazione con il padre. I capitoli in cui ricorda si alternano a quelli legati al tempo presente. In tal modo l’autrice stabilisce un legame tra il passato – il padre – e il ruolo della donna nella rivoluzione del 1911 (Sherine Fouad Malzoum. To write/to revolt: Egyptian women novelists writing the revolution. Journal for Cultural Research. 2015, 19(2), 207-220), quando le donne egiziane scesero per la strada in massa per la prima volta. Ma non solo, il riferimento è anche tramite i suoi ricordi di bambina agli anni ’60, quando insieme al padre assistette all’arresto di alcuni intelettuali di sinistra che erano in piazza a manifestare (p. 20).
Il ruolo che la memoria svolge nel testo ha la funzione di preservare la memoria collettiva femminile dalla distruzione e dalla cancellazione e permette di discutere temi quali la classe, il , la nazionalità e la cultura. L’atto del ricordare, qui, viene politicizzato e usato come metodo per rivalutare criticamente valori patriarcali che hanno collocato le donne al di fuori della rappresentazione negando loro un’identità. La letteratura, quindi, viene qui utilizzata come mezzo di trasformazione sociale.
Al principio del romanzo, Nadia, la protagonista, si esprime con la prima persona, è un “io” che non ha interesse a parlare del popolo egiziano: sin dall’adolescenza desidera rimanere in disparte, da sola. «Non ero vicina a nessuno, stavo solo per conto mio e allontanavo tutti da me». Ogni giorno descritto si conclude con il rientro a casa, il luogo (interno, privato) dove Nadia commenta quanto accade “fuori” nel suo discorso ideale con il padre. La separazione fra dentro e fuori, privato e pubblico si sgretola attraverso la corporeità delle parole: un giorno, mentre è per strada, un ragazzo ferito muore fra le braccia di Nadia e il sangue del giovane lorda il suo corpo:
Non raccontai a mio padre tutti i dettagli. Non gli dissi del sangue di un ragazzo che ancora mi inzaccherava i vestiti. Era caduto accanto a me, colpito da un proiettile tutt’altro che vagante e io non volevo toccarlo, non volevo toccare il sangue, ma mi era quasi caduto tra le braccia che era già morto. La pallottola l’aveva colpito al petto, o al cuore, non lo so, fatto sta che era morto immediatamente. Avevo i vestiti imbrattati di angue e l’unica cosa cui riuscivo a pensare era che non volevo sporcarmi. Avevo il cuore a mille. Uno che stava lì vicino me l’aveva tolto di dosso e si era messo a urlare: “È morto! Il ragazzo è morto!” Non era il primo, ma era stato il primo a sporcarmi di sangue (p. 47-48).
Questo sangue che copre il suo corpo rompe il muro fra la protagonista e le persone nella piazza: da questo momento la narrazione utilizzerà il “noi”. L’esperienza pubblica si fonde quindi con quella personale, in questo caso attraverso il corpo. L’esperienza traumatica di Nadia rappresenta un punto di svolta nella narrazione, una strategia letteraria volta a collocare l’eccezionalità di un evento – la rivoluzione – in modo da renderlo intelleggibile a chi legge e a individualizzare l’esperienza per renderla unica, pur se all’interno di un esperienza collettiva.
Una bella lettura e un modo diverso di parlare di rivoluzione.
LA RECENSIONE DE “LA SETTIMA SIGARETTA” E’ STATA PUBBLICATA ORIGINARIAMENTE SU ARABESQUE
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