La poesia di Najwan Darwish
Articolo di Antonino d’Esposito
La poesia, questo è noto, appartiene all’immaginario letterario arabo più di ogni altro genere e, più di ogni altro elemento culturale o religioso, è la costante che accompagna i popoli che si esprimono in questa lingua da millenni. Dal nomadismo desertico della penisola araba alle recenti voci arabe, tra le quali ormai Najwan Darwish si è fatto spazio prepotentemente, fare versi per gli Arabi è un’attività esistenziale e di sopravvivenza quanto bere. È in questa forma di espressione che gli sbarramenti temporali, i confini politici e le barriere confessionali cedono il passo alla voce dell’esperienza umana che, nella declinazione araba, parla indiscutibilmente dell’universale umano. In questo viscerale rapporto con la poesia, il popolo palestinese, nella sua storia recente, dalla Nakbah del 1948 in poi, ha trovato l’arma che meglio ha saputo maneggiare, e la raccolta Più nulla da perdere è l’ultima gemma di tale tradizione che possiamo leggere in italiano. Uscita nel dicembre scorso per Il ponte del sale, la raffinata traduzione di Simone Sibilio ci permette di addentrarci finalmente nelle parole di questo giovanissimo poeta gerosolimitano, classe ’78, che, pur senza legami parentali, condivide il cognome con il poeta palestinese per definizione, Mahmud Darwish, anche se nella famiglia delle lettere le leggi della genetica non contano.
Non a caso, dunque, Più nulla da perdere si apre con una sezione di un solo componimento che si pone proprio in dialogo col poeta omonimo: la poesia in prosa Carta di identità di Najwan richiama a voce alta la poesia in versi Carta di identità di Mahmud e, in un atto di estremo coraggio, in un certo senso, ne amplia la portata storica. Se la ripetizione quasi ossessiva del Prendi nota, sono arabo di Mahmud è un’affermazione netta di appartenenza a una nazione, Najwan rompe le palizzate nazionali e ridisegna la propria identità, affermando di fare parte di ogni umanità maltrattata. Così, leggiamo sono stato l’armeno incredulo, sono stato il siriano di Betlemme, mi hanno dato dell’iracheno, sono stato un ebreo espulso da al-Andalus, a casa ho una finestra aperta sulla Grecia, un’icona che indica la Russia, un buon profumo eterno che viene dal Higiaz. La valenza universale che Najwan dà alla propria poesia è evidente, ma non scontata perché il mondo in cui questa poesia è venuta alla luce non è quello del secolo scorso; adesso, non si può più trincerarsi dietro al mero aggettivo ‘arabo’ perché se si è meno di questo, se si è cioè meno della summa di tutte queste esperienze menzionate, allora non si è arabi. Le identità sono assassine, l’umano no.
Ecce homo, allora. La figura di Cristo in questa silloge ha un peso importantissimo. Eppure, fedele alla propria vocazione sovranazionale, è l’aspetto umano che interessa Nawjan. Riferimenti coranici e biblici o alla simbologia delle fedi monoteiste, nella voce di un poeta ateo, sono gli strumenti che servono per parlare in vece di chi non ne ha diritto. Il mondo è appeso alla croce come Cristo e il poeta non può far altro che gridare. Il dialogo tra i due uomini, il poeta e Gesù, è rappresentato nella quinta sezione, dal titolo Torna con me a Gerusalemme. Un’invocazione laica questa, perché chi scrive si chiede: come prega chi non crede in nulla. Chi non crede in nulla dialoga col Cristo Redentore di Rio de Janeiro, chiede al Maestro di scendere dalla croce – pur essendo conscio dell’utopia; gli chiede disfarsi dei chiodi affinché, da pari, possano tornare a Gerusalemme, città martoriata nei secoli, simbolo dell’umano vessato, e finalmente proclamare la libertà dicendo: Ecco, Saladino, se ne sono andati! Ma chi deve andarsene da Gerusalemme, chi deve liberare le pietre di Haifa o il villaggio armeno di Tantura? L’oppressore, chiunque esso sia. Eppure, nel meccanismo della storia c’è qualcosa che si inceppa poiché se il tempo passa e io [io poeta] non l’ho scritto, allora i sionisti saranno riusciti a farmi fuori. I padroni si susseguono, le offese si reiterano dal giorno in cui i nostri avi impararono il turco fino a quando noi abbiamo imparato l’ebraico. Dai secoli passati, il poeta fa appello alle figure più disparate e si interroga: cosa è successo negli ultimi duecento anni? E a Saladino confessa: otto secoli trascorsi come una siesta al pomeriggio.
La poesia di Najwan Darwish ha come fondamento ontologico l’io del poeta, in continuità, come sottolinea Sibilio, con la funzione sociale del vate della tradizione araba, che attribuisce al poeta la capacità di andare oltre il sentire comune e di esprimere ciò che si trova oltre questo limen. Al contempo, però, questa ‘melodia monodica’ rappresenta una novità nel modo di plasmare il materiale poetico. Il soggetto sembra vestire i panni di un Sisifo contemporaneo che lotta ed è consapevole di farlo invano, ma continuerò a cercare e a sbandare, dichiara senza mezzi termini.
La vanità della battaglia, una consapevolezza che fa dire all’io per amore abbiamo perso la testa e non abbiamo più nulla da perdere, può approdare solo a una cosa, il dubbio. Dubbio cartesiano, come antidoto alla follia. Dubbio totale che dice: e non sono io l’autore di queste parole, ma qualche altro farabutto! L’ideale, il Salvatore tanto atteso si possono intravedere solo nello specchio, è vano un ipotetico salto nel vuoto. Se persino in guerra si è passanti, se l’ultima parola non è necessaria, cos’è la vita? La vita è sogno, la vida es sueño, una grande, enorme illusione. Ed è proprio così che Nawjan Darwish mette il punto al suo testo, con la settima sezione intitolata Un’intera storia fabbricata ad arte. Come per l’apertura, anche per la chiusura l’autore concepisce un capitolo fatto di una sola poesia in prosa cosicché il cerchio possa chiudersi e tutto riposare sull’eterno ritorno dell’uguale. Tutto è invenzione in questo mondo, ma Najwan Darwish non cade nella trappola del pessimismo. Ovunque, tra i versi, è tangibile la speranza, fino all’ultimo paragrafo in cui la risata è salvifica: crepiamo dal ridere, non moriremo mai, per Dio. E se anche l’infinito, con suo ininterrotto ciclo di nascita e morte, è un’invenzione, alla fine, esiste solo una certezza: poeto ergo sum!