Sarmada di Fadi ʻAzzam – un estratto

 (Note biografiche sull’autore e informazioni sul romanzo si trovano nella recensione Sarmada: la Siria tra trasgressione e repressione nel romanzo di FādīʽAzzām di F. Pistono)

  Traduzione di Federica Pistono

  Sentivo che la scena della morte di Principessa si era dissolta.

  Dovevo ora scendere alla Fonte del Sale, girando intorno alla rupe, e aspettare che Hila arrivasse, nella calura insopportabile di quell’estate. Mi sono fermato a osservare la rupe rocciosa, gettando un ultimo sguardo a quel sentiero, lungo il quale era stata trucidata Hila Mansur. Ho scrutato a lungo quel boschetto nella calma opprimente. L’asfalto arroventato fumava, sembrava sul punto di liquefarsi, l’aria era soffocante per un calore quasi alieno. D’un tratto ho sentito il mio corpo farsi più pesante, quindi più leggero. Ho avvertito un brivido gelido e il sudore imperlarmi la fronte. Qualcosa di simile a uno spruzzo di pioggia mi inondava il viso. Avevo la sensazione che nel mio corpo si stesse insinuando il corpo di Hila Mansur. Mi stavo fondendo in lei, oppure lei stava occupando il mio corpo. Non lo sapevo. All’improvviso mi sono trovato a camminare al suo fianco, o forse attraverso di lei. Sono diventato lei, lei è diventata me, e insieme siamo tornati a quel martedì sera del 1968.

  Scorgeva i suoi fratelli, in lontananza, venire verso di lei, una torma di uomini barbuti che brandivano coltelli, pugnali e una mannaia che somigliava a quella che lei aveva visto tredici anni prima, il giorno in cui Principessa era caduta dalla rupe. Aveva chiuso gli occhi neri, come aveva fatto quando aveva assistito a quella scena con i suoi fratelli, tanti anni prima, una scena che mai avrebbe creduto si sarebbe ripetuta proprio sul suo corpo, come prezzo fatale da pagare per la sua fuga con un estraneo alla comunità. I fratelli avevano rallentato il passo, quindi si erano fermati, formando un semicerchio. Avevo continuato ad avanzare, fino a trovarmi in mezzo a loro. Le barbe alteravano i lineamenti, ma lei li riconosceva uno a uno dagli occhi. Avrebbe voluto gettar loro le braccia al collo, abbracciarli uno alla volta, dire loro: “Sono stanca di fuggire”. Non lo aveva fatto. Anzi, aveva ricambiato il loro silenzio vischioso, rotto soltanto dal vento freddo che soffiava dal nord. Negli occhi di un fratello scintillavano tristezza e nostalgia, come a voler dire: “Mi sei mancata…”. Ma lui aveva detto, con voce lugubre, spezzata: “Perché l’hai fatto?”. Quindi la voce gli si era strozzata in gola… Non pioveva, ma nel cielo avevano iniziato ad addensarsi le nuvole.

  Nawwaf era avanzato verso di noi – io che ero diventato lei – mugghiando come un toro, aveva affondato la lama del coltello lacerando la camicetta scarlatta, l’aveva immersa nel petto, che si sollevava e si abbassava rapidamente. Uno spasmo, un brivido le aveva scosso il corpo vacillante. Insieme, abbiamo visto le nuvole pesanti aprirsi e scendere i primi fiocchi di neve. Nel frattempo sentivo la lama penetrarmi nel petto. Raccogliendo le ultime forze, l’ultimo soffio di vita, con una voce che usciva insieme al fiotto di sangue che le macchiava la gola, levando gli occhi al cielo aveva domandato: “Sei soddisfatto adesso? Pretendi ancora qualcosa da me, ora, Dio?”. Avevo gridato con lei: “Ti basta questo, Dio?”. I ricordi avevano cominciato a sfilare davanti ai suoi occhi in un’unica sequenza, mentre il suo corpo trafitto bramava soltanto il distacco e il riposo. L’aveva già invasa la leggerezza, la sensazione di volare.

  Vedevo il film della sua vita scorrere davanti ai miei occhi: i quaderni di scuola, i vecchi amici, i suoi fratelli che la portavano in braccio uno dopo l’altro, ridendo delle sue marachelle, passandola da una spalla all’altra, gli occhi gentili di suo padre, la risata soave di sua madre, l’albero di gelso e la casa antica, i frutti dolci come nettare. Nawwaf aveva estratto il coltello arretrando di un passo, per consentire ai pugnali degli altri di farsi avanti e di colpirla alla gola, alla schiena e al fianco. Lei aveva guardato la Fonte del Sale ed era crollata. La memoria cambiava il suo corso velocemente. L’estratto di cardo non funzionava con le verruche. La vecchia dottoressa. Il suono delle campane della chiesa che le piaceva tanto. La voce del muezzin che chiamava alla preghiera del mattino. Gli Shaykh drusi che recitavano le Epistole della Saggezza o la storia del Giorno del Giudizio, l’ultima sera della Festa del Sacrificio. L’odore delle candele che ardevano nella Majlis. Il suono piacevole del latte che scendeva nello stomaco. Il lamento delle donne che piangevano i morti. La quarta pugnalata le aveva trapassato la trachea alla base della gola… Aveva in bocca un sapore salato, il suo corpo s’intorpidiva, nella mente si affollavano i ricordi. Il sangue appiccicoso sgorgava a fiotti, macchiando perfino la memoria. Il profumo delle rose la mattina del Mercoledì Santo. La corsa a perdifiato per cogliere i fiori più belli, gli anemoni rossi, gli oleandri, le margherite, il dolce trifoglio, il rosmarino e la menta delle montagne, che lei immergeva in un vaso di terracotta e lasciava fuori, sotto le stelle del cielo di primavera. La mattina del secondo mercoledì di aprile bagnava il suo corpo in un’infusione di rose, un rituale che l’avrebbe protetta da serpenti e scorpioni per un anno intero… Racconti antichi. Matrimoni e incantesimi… Amuleti e talismani che potrebbero cambiare il nostro destino. O Fonte, dissolvi le mie verruche! La ferita al fianco la trafiggeva da parte a parte. Era a terra e le sue mani annaspavano nel fango sporco che si mischiava al suo sangue caldo. O Fonte, dissolvi le mie verruche… Nella sua mente non rimaneva che un tintinnio gentile che si dileguava a poco a poco, per far posto a un biancore senza voci. A quel punto, avevo lasciato che perdesse i sensi, che morisse…

  Mi ero distaccato da lei, o lei da me, non saprei dire. Ma avevo assistito all’ultima scena ai piedi della rupe, immerso nella ricerca della mia anima smarrita. Sentivo un sapore appiccicoso in bocca, acre come sangue. Uno dei fratelli si era fatto avanti, le aveva premuto un ginocchio sulla schiena. Le aveva afferrato la testa per i capelli, spingendola indietro. Con un gesto rapido, le aveva staccato la testa dal corpo.

  I fratelli avevano impugnato i rasoi, si erano imbrattati le facce del sangue di lei, si erano tagliati le barbe sul cadavere…! Non avevano proferito parola. Si erano fermati a contemplare la scena, mentre la pioggia cominciava a cadere leggera. Avevano percepito un formicolio inconsueto intorpidire le facce sbarbate, come se un peso opprimente fosse svanito, un peso scacciato dal sangue che si era però trasferito in un’altra zona nei loro cuori, un peso che somigliava a una voce che nessuno di loro voleva ascoltare. Avevano socchiuso gli occhi per respingere le lacrime che sgorgavano loro malgrado, mentre il vento sollevava i ciuffi di barba coprendo il corpo di lei. Alla fine se ne erano andati via in fretta, acclamati dai trilli gioiosi delle donne e dagli occhi asciutti degli uomini, mentre la pioggia scendeva fitta dal cielo nero di nubi. Il sapore di sangue nella mia bocca era reale. Sono svenuto. I vicini mi hanno trasportato a casa loro, mi hanno dato da bere un bicchiere di acqua fredda. Parenti e amici sono accorsi subito. “Va tutto bene”, ha detto il padrone di casa. “È stato soltanto un colpo di sole”.

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