Site icon riveArabe

I diari del libraio di Jalal Barjas

Traduzione di Jolanda Guardi

La traduzione è stata condotta da

Jalal Barjas. (2020) Dafàtir al-warràq (I diari del libraio). Damma li-n-nash wa-t-tawzi’, Sidi ‘Aiysa, Al-Msila. Edizione algerina 2021. pp. 7-20.

Detentrice dei diritti di traduzione è Interlink Publishing, Northampton, Massachusetts, USA www.interlinkbooks.com, che ringraziamo per aver concesso il permesso alla pubblicazione.

Neppure la vita più felice è priva di una misura di tenebra,

anzi la parola stessa « felicità » perderebbe significato

se questa non fosse controbilanciata dalla tristezza.

Carl Gustav Jung

Capitolo primo

La mia coscienza mi da la caccia, segue le mie tracce, mi cattura e mi giudica;

quando un uomo cade preda della sua coscienza, è senza scampo.

Victor Hugo

Ibrahìm (Una gravidanza malevola)

Ero appesantito dalla tristezza come una spugna impregnata d’acqua quando un uomo sulla settantina mi guardò dritto in faccia mentre pagava il prezzo di un libro che aveva comprato e – prima di andarsene appoggiandosi alla sua stampella e scomparire tra la folla del centro della città – disse: Ogni volta che taci, la tua tristezza aumenta.

Dopo tutti questi anni, eccomi a ricordare quello che disse quell’uomo e scrivere, sebbene sia convinto che la scrittura non mi salverà da quello che sono diventato e non riempirà l’oscuro abisso che in modo vago si è formato dentro di me, spero lo cancellerà e, se accadrà, sarò sereno e sorriderò di fronte a qualunque dolore qualunque grado raggiunga. Per finire, immaginate la mia felicità per questo quaderno con le pagine bianche e lisce, quando l’ho visto la prima volta ho sentito un lampo brillare nel cielo della mia anima, giuro che l’ho sentito e ho saputo che l’amore ha una mano capace di salvare una persona che sta annegando, esalando l’ultimo respiro nel mare di questa vita salata. Ma, sono morto o ho vissuto? Una domanda in sospeso da anni davanti ai miei occhi mentre osservo come la stranezza pervade tutto in questo mondo ed è giunta per incollarsi a me come atomi di metallo accumulati ai poli di un magnete.

Sono un uomo solo, la mia unica strada è quella che mi porta da casa mia a Jabal al-Jawfa al centro della città. Dove si trova il chiosco di libraio che possedevo. Solo in modo che non so se potete capire o no, in una città molto rumorosa. Non mi interesso a nessuno e nessuno si interessa a me eccetto una vicina, che non so da dove sia arrivata né quale sia la sua storia. Non l’ho mai vista uscire da casa sua, che si trova al secondo piano del vecchio palazzo di fronte a casa mia, l’ho vista poche volte sul balcone e del suo viso compaiono solo due occhi da dietro il niqàb mentre stende il bucato. Una di quelle volte mi ha lanciato un foglietto e mi ha fatto un cenno con la mano, l’ho raccolto, dentro c’erano poche parole: Vieni da me dopo mezzanotte, ho bisogno di te per una faccenda importante. Ma io non sono andato, non ero curioso di sapere cosa vuole da me, non avevo desiderio sessuale sebbene abbia pensato,come altri uomini, di accettare l’invito nel suo letto; ciò non significa che io sia un santo. Mi soddisfo in un modo che so essere riprovevole e ripugnante: non appena il mio corpo lancia i suoi segnali, mi metto a letto ed evoco una donna dei romanzi di cui sono innamorato, come Esmeralda, l’affascinante zingara, il giorno in cui ha ballato alla festa dei pagliacci nel romanzo Il gobbo di Notre-Dame; la vedo aprire la porta della stanza preceduta dal suo intenso profumo e quel fuoco nascosto si impossessa di me; fa giravolte con il suo abito colorato e vedo il suo corpo soffice e il suo deretano sodo. Balla come se domasse un’ape presso la bocca di una rosa nella sua anima, poi si spoglia e si sdraia accanto a me e i nostri corpi sono invasi dal piacere, tanto che ci dimeniamo come un vitello che ha ricevuto una pallottola in fronte, poi tremiamo e soccombiamo al silenzio e al biancore.

Ho ricordato la vicina mentre ero sdraiato nella canicola e fissavo lo strato sottile di vernice del soffitto della stanza umido e ammuffito direttamente sopra la mia testa che stava per cadere, oscillava nella brezza di Novembre, il mese che si stava per concludere. Immaginavo il momento della caduta e che forma avrebbe assunto e mi interrogavo su tutto questo, le cose non cadono per caso; un’idea ha cambiato il corso del mondo quando la mela è caduta sulla testa di Newton. Il giorno in cui mi dissero che mia madre era morta ho sentito una voce sussurrarmi all’orecchio: È caduta. Mi sono guardato intorno, ma ho visto solo mio padre che piangeva in silenzio. Era la stessa voce che ha cominciato a parlarmi da quando ci siamo trasferiti dalla nostra prima casa trentacinque anni fa, precisamente nel 1980. Avrei potuto dirlo a qualcuno della mia famiglia, ma chi mi avrebbe creduto? il giorno della dipartita di mia madre ho pensato che fosse morta senza preavviso, non sapevo che il cancro le stava consumando il corpo. Negli ultimi anni della sua vita, con la nostra condizione che peggiorava, sedeva su una panca di legno a vendere erbe che mangiano solo i poveri di questo paese. La situazione è peggiorata ed è diventata davvero miserabile, similmente a quella delle strade, delle vie e della forma delle case di Jabal al-Jawfa. Aveva acqua nello stomaco tutte le volte che la vomitava, beveva una tisana di salvia e ci illudevamo che sarebbe guarita, finché un giorno le vicine non ce la riportarono incosciente, una di loro disse che aveva vomitato un liquido color del caffè, il medico dell’ospedale Al-Bashir disse che era un segno del cancro allo stomaco, morì sotto i ferri della prima operazione. Mio fratello fu colpito da un attacco di rabbia davanti ai medici e distrusse tutto quello che aveva a portata. Io, invece, ero fermo vicino a mio padre in silenzio, incapace di versare una sola lacrima; una tristezza tagliente mista alla preoccupazione per la voce che sussurrava al mio orecchio dicendo che era caduta.

Dopo due anni mio fratello è scomparso dopo aver urlato in faccia a mio padre: Non sarò la tua copia. il primo giorno mio padre credette che sarebbe tornato quando trovammo il suo telefono spento, ma, passato il secondo giorno, cominciò a preoccuparsi; nessuno dei suoi amici sapeva nulla di lui. Il terzo giorno presentò una denuncia di scomparsa e dopo alcuni giorni ci giunse una sua lettera nella quale ci diceva di essere andato in Turchia, che avrebbe stracciato il suo passaporto e richiesto lo status di rifugiato siriano. L’ultima lettera che mi giunse da lui prima che smettesse di mandare notizie era piena di oppressione e dolore, spiegava come si sentiva, senza lavoro in un quartiere in cui non conosceva nessuno; un quartiere nel quale fumava hashish con compagni frustrati al punto che non avevano nemmeno la forza di sognare. Mio padre non disse nulla quando lesse la lettera. Restò per metà della notte a colpirsi il petto con le mani finché non entrò nella sua stanza, mi giungeva il suo pianto pieno di dolore. Dopo anni mio padre lasciò la casa, trovai gli antidepressivi che assumeva nel cestino della spazzatura, mi lasciò un biglietto con sopra scritto: Ho trovato un lavoro, ho solo un giorno libero la settimana, che passerò con te. Rilessi stupito più volte ciò che aveva scritto e non riuscii a giungere a una conclusione che giustificasse la sua partenza. Tornò dopo una settimana e mi informò che era al Nord, dove era stato assegnato a un centro di studi strategici e che avrebbe potuto tornare a casa solo un giorno. Passò un mese in cui mi fece visita quattro volte, poi sparì. Informai la polizia della sua scomparsa dopo averlo molto cercato, poi mi arresi,forse lo feci assecondando il desiderio inconscio che si allontanasse da me nonostante lo amassi molto. Questa faccenda mi perseguitò nel sonno – i sogni sono un riflesso di ciò che si accumula nelle nostre profondità segrete e che gli altri non devono sapere – ma egli, dopo sette mesi, tornò. Il suo odore mi accolse sulla porta mentre stavo entrando, poi sentii la sua tosse e mi affrettai a cercarlo, era assente, distratto, di lui si muoveva solamente il fumo della sua sigaretta, sul volto molta stanchezza e negli occhi parole non dette. Non disse nulla quando gli chiesi della sua assenza, solo la breve espressione: Parleremo poi. Mi coricai presto e il sonno mi assalì come se fuggissi da un’ossessione e mentre dormivo sentii i peli della sua barba sul mio volto, mi baciava: mi svegliai. Ti ho sentito sognare, disse, poi se ne andò e tornai a dormire. Nei momenti di dormiveglia sentivo del rumore in cucina, mi alzai e trovai che aveva attaccato una corda al soffitto della stanza che aveva legato intorno al collo ed era salito su una sedia. È stato uno dei momenti più terribili della mia vita; quando ho visto che la distanza tra la porta della cucina e la sedia equivaleva a quella della mia età sino a quel momento, tutte le parole nella mia gola si sono esaurite e tutto si è trasformato in un’oscurità terrificante che si è riempita della visione del suo corpo appeso nell’aria. Da quel giorno mi avvolge un silenzio come quello che ora mi circonda da ogni parte. Solo, come un gatto randagio che non si lega a nulla su una montagna di piccole case, strade strette disegnate da un ingegnere ubriaco, i suoi abitanti sono stanchi, emarginati davanti a montagne dove si ergono torri commerciali, ville, mall, i cui cieli la sera risuonano di fuochi d’artificio che indicano piaceri che non abbiamo gustato. Vedo il mondo attraverso due finestre: la prima fornitami dal gran numero di libri che ho letto nel chiosco del libraio dopo che ne sono entrato in possesso in seguito alla morte di mio padre, la seconda è internet, di cui, col passar del tempo, sono diventato esperto al punto da poter violare qualsiasi account elettronico. Un mondo parallelo a quello in cui viviamo, che un giorno diventerà il nostro unico mondo, nel quale ci trasformeremo in esseri digitali diretti come greggi da mani di cui non sappiamo a chi appartengano.

Ho sistemato la posizione del cuscino preparandomi al sonno e continuando a fissare il soffitto. Voci provenienti dall’esterno si intrecciano: la voce di una donna che rimprovera la figlia perché non l’aiuta nei lavori di casa e maledice internet che ruba persino l’anima delle persone; un’altra voce, di un uomo, che ripete una canzone che parla d’amore accanto ad altre voci provenienti dalle case, accompagnate dall’odore di aglio fritto e da quello della spazzatura. La sonnolenza, a poco a poco, comincia a far svanire le voci e la forma del soffitto della stanza, finché le mie palpebre non si chiudono, un momento di piacere che chi – come me – non dorme da giorni, può apprezzare. Ma la caduta di un pezzo di intonaco sul mio volto lo fa svanire, sussulto e la voglia di dormire svanisce. Mi alzo e vado verso la cucina passando per il salotto pieno zeppo di libri: alcuni in scatoloni di cartone, altri legati con grosse corde, una parte di essi sparsa qua e là. L’insieme di libri del chiosco del libraio che mio padre aveva sistemato sul marciapiede all’inizio di via Al-Malik Al-Husayn nel 1981 e portato a casa alcune settimane prima, dopo aver ricevuto un avviso dalla polizia municipale che lo sollecitava rispetto alla necessità di lasciare il chiosco, poiché i marciapiedi sarebbero stati ampliati con la promessa che si sarebbe provveduto a compensarlo con un altro luogo un giorno, cosicché non ho un lavoro con cui guadagnarmi da vivere.

Bevo un bicchier d’acqua, torno lentamente verso il letto e mi ci getto sopra. Su un tavolino accanto il romanzo L’idiota di Dostoevskij; l’ho letto più di una volta, vi ritorno come a molti romanzi i cui personaggi abitano la mia memoria e continuo a imitarne gli eroi, un hobby di cui non conosco la ragione né come sia riuscito a dominarne la grammatica. Una volta un insegnante mi aveva chiesto – dopo averlo fatto con la maggioranza degli studenti: Qual è il tuo hobby Ibrahìm As-Sahi?[1] Un riferimento al fatto che parlavo poco ed ero spesso distratto. Uno degli studenti aveva urlato subito: È bravo nelle imitazioni. L’insegnante si chiamava Jàd Allah, come mio padre, ma fra i due c’era un abisso. Il professor Jàd Allah era un uomo cupo e quando rideva aveva una risata gialla seguita da una rabbia cupa, un volta mi aveva impedito di andare in bagno, avevo i crampi e mi sono cagato addosso, da quel giorno lo odiavo. Si avvicinò con i suoi occhi piccoli e stretti e disse con una voce nella quale c’era un po’ di fastidiosa raucedine: Vieni, allora, imitami. Non lo feci, perché non ero bravo a imitare una persona che non mi piacevano e imitai il professore di lingua araba, socchiusi gli occhi per visualizzare la sua immagine nella mia immaginazione, rilassai i muscoli della faccia, poi li mossi finché non presero la forma del volto del professore di lingua araba, cominciai a parlare con il suo accento e a camminare con la sua stessa cadenza mentre raccontava del suo grande amore per Al-Mutanabbi; un hobby che non so descrivere, né perché mi accadesse, la forma del mio volto e i miei movimenti erano identici a chi imitavo, una situazione che aveva sconcertato la mia famiglia, poi, col tempo, l’avevano accettata nonostante la sua stranezza.

Mi mossi e il cigolio del letto ruppe la durezza del silenzio mentre tenevo fra le mani L’Idiota. Ne avevo letto due pagine, ma non avevo voglia di continuare, presi il cellulare, che conteneva solo pochi numeri, quello di mio fratello ‘Ahid, ogni volta che avevo nostalgia di lui e lo chiamavo mi rispondeva una voce femminile che annunciava che il numero non era connesso; il numero del caffè che chiamavo quando lavoravo al chiosco per ordinare un caffè o un panino e i numeri non memorizzati dei clienti. Premetti sull’icona di Facebook che mi guidò alla sua pagina azzurra; mi ero registrato con il nome di Diogene, pubblicavo solo raramente, pensavo di scrivere ciò che era accaduto al chiosco, rimosso come un mucchio di spine in un vialetto, ma come al solito mi ero trattenuto e mi ero accontentato di leggere un po’ quello che pubblicavano audacemente gli utilizzatori e per quanto mi rendesse felice mi faceva anche provare paura nello scrivere una sola riga su quanto era successo. Gettai il telefono accanto a me e mi distesi sul letto a guardare il soffitto e osservare l’intonaco, mentre altre voci provenivano dall’esterno, la più alta quella di Abd Al-Bisàt Abd As-Sàmad che leggeva sùrat Yusuf. Improvvisamente sentii un movimento nella pancia e la vidi gonfiarsi a poco a poco fino a diventare come quello di una donna al nono mese di gravidanza. Mi alzai spaventato girando su me stesso per la stanza, toccandola con le mani senza capire cosa stesse succedendo e come avesse potuto gonfiarsi così. Mi tolsi gli abiti e mi diressi inorridito verso lo specchio per controllare se ciò che vedevo fosse un sogno o realtà. Com’era successo? Cosa stava succedendo! Mi stropicciai gli occhi per assicurarmi di essere sveglio, poi corsi al lavandino e mi sciacquai il volto più di una volta, senza successo, ero davanti a una realtà, corsi verso la porta in preda al panico; inciampai nei libri, caddi, poi inciampai di nuovo finché non afferrai la maniglia della porta e sentii la voce che avevo sentito il giorno in cui era morta mia madre, questa volta più forte e chiara:

– Cosa dirai loro se uscirai Ibrahìm? Io scomparirò non appena varcherai questa porta. Te l’ho detto tanto tempo fa, quando ho scoperto che non obbedivi ai miei ordini: devo fare quello che non fai tu, codardo.

Dall’orrore uscii e restai fermo davanti alla porta ansimando senza pensare al fatto che ero nudo, finché non mi accorsi della vicina sul balcone che, non appena mi vide, si coprì gli occhi con la mano e rientrò rapidamente con le spalle che si sollevavano da tanto rideva. Tornai allo specchio a ispezionarmi la pancia stupito mentre sentivo che da essa provenivano delle risate. Faticando a respirare e con voce tremante, nonostante fossi incredulo per ciò che stavo facendo, dissi:

– Chi sei?

– Sono quello che ti salverà da tutti i tuoi dolori, non sottovalutarmi, perché i miei passi sulla terra faranno crollare palazzi e sollevare polvere.

– Non capisco. Chi sei?

Ripetei la domanda molte volte come una donna che sorprende unladro in casa sua nel cuore della notte, ma senza successo.

Mi rivestii rapidamente e corsi verso la porta, la voce tornò a mettermi in guardia dall’uscire affermando che non sarebbe servito a nulla, raccolsi le forze che mi rimanevano, uscii correndo per strada a passi confusi, fermai un taxi che stava per investirmi, vi salii rapidamente e, nonostante facessi fatica a parlare chiesi al conducente di portarmi all’ospedale Al-Bashìr.

– Stai bene? chiese il tassista sorpreso, poi abbassò una voce registrata che cantava una canzone popolare dal ritmo veloce e, quando io non dissi nulla, si affrettò a fermare coloro che passavano per la stretta strada e le auto davanti a lui utilizzando il clacson in mezzo al traffico, finché non giungemmo all’ospedale. Non appena scesi dall’auto la pancia ricominciò a gonfiarsi e la voce riprese a ridere e minacciare, poi sparì, dopo che superai la porta del Pronto Soccorso e mi sedetti su uno dei lettini ad attendere il mio turno tra centinaia di persone che avevano esaurito la pazienza nell’attesa; tremavo violentemente e non avevo la forza di muovermi quando pregai un medico che passò vicino a me dopo aver visitato un malato sdraiato su un lettino vicino.

– Di cosa soffri?, chiese subito dopo avermi posato la mano sulla fronte: Poi ripeté la domanda, visto che rimanevo in silenzio.

– Dimmi, cos’hai?

Raccolsi le forze per dire almeno una parola:

– La pancia.

– Ti fa male?

– No.

il medico si stupì e chiese di nuovo cos’avessi, poi si sedette a un lato del lettino e mi suggerì di calmarmi. Toccò la mia mano tremante e cominciai a raccontargli quel che era successo. Mentre ascoltava sul suo viso si disegnava a fasi alterne stupore misto a un sorriso. Quel giorno mi fecero degli esami per vedere se assumessi droghe. Poi, quando non trovarono niente, fecero un’ecografia del ventre che il dottore analizzò, quindi venne da me con un’espressione strana. La mia paura aumentò.

Jalàl Barjas è uno scrittore giordano classe 1970. Attualmente è a capo del Laboratorio giordano di narrativa e anima un programma radiofonico dal titolo “Casa del romanzo”. Ha pubblicato due raccolte di poesie, racconti, letteratura odoeporica e quattro romanzi. La raccolta di racconti Il terremoto (Al-zilzàl, 2012) ha vinto il premio Rukus ibn Zaid. Il romanzo La ghigliottina del sognatore (Muqasalat al-hàlim, 2014) ha vinto il premio Rifqa Doudin per la creatività narrativa nel 2014 e Serpenti dell’inferno (Afa’i an-nar. Hikayat ah-‘ashiq Ali ibn Mahmud Al-qassad) nel 2015 ha vinto il premio Katara per il romanzo arabo nella categoria romanzi inediti. Il suo terzo romanzo, Donne con cinque sensi (Sayyidat al-hawas al-khams, 2017) è stato inserito nel 2019 nella long list del Booker Prize, premio che l’autore ha vinto nel 2021 con I diari del libraio.


[1] As-Sahi significa “disattento, distratto, negligente” [N.d.T:].

Exit mobile version