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Fawwāz Ḥaddād e il romanzo “quasi poliziesco”

Articolo di Federica Pistono

  Come nota Max Weiss, nel primo decennio del nuovo millennio appaiono romanzi siriani la cui trama ruota essenzialmente intorno al tema della cospirazione e del complotto, orditi dall’apparato dei servizi segreti ai danni del cittadino, per raggiungere scopi e finalità funzionali alle attività del regime.  Si tratta di un coraggioso tentativo di squarciare il velo di oscurità e di mistero che avvolge la pratica politica, nell’intento di svelare il funzionamento dei meccanismi di uno Stato poliziesco fondato appunto sull’azione dei servizi di sicurezza[1]

  Abbas Beydoun sottolinea la diffusione e l’importanza dei “romanzi-mukhabarat” nella letteratura araba, non soltanto siriana, testi nei quali l’apparato dei servizi di sicurezza o il singolo agente segreto può svolgere il ruolo del protagonista o, comunque, occupare un posto determinante nell’intreccio. Nel caso siriano, osserva Beydoun, l’opera assume i caratteri di un romanzo poliziesco senza però ricorrere alla struttura, alle tecniche e alle formule del romanzo poliziesco tradizionale, focalizzando invece l’attenzione su argomenti come l’arresto arbitrario, la detenzione, la tortura, l’omicidio poltico, il clima di terrore che avvolge i personaggi.

  A volte, il romanzo può presentarsi come un thriller o come un noir ma, a differenza dei romanzi gialli di provenienza occidentale, contiene elementi di pesante critica sociale e politica. Per questi motivi, Beydoun definisce tali opere come “storie quasi poliziesche”. I protagonisti di questi romanzi sono spesso figure di uomini solitari, coinvolti in un intrigo o in un complotto di fronte al quale risultano estranei, inermi, indifesi, travolti da un ingranaggio più grande di loro destinato a stritolarli. A volte, le trame si risolvono in un finale inatteso che ha lo scopo di trasmettere un messaggio di carattere morale o di svelare un risvolto inedito della storia contemporanea siriana[2].

   Il realismo, il ricorso alla descrizione minuziosa, l’interesse per la storia siriana contemporanea sono gli elementi che accomunano autori come Fawwāz Ḥaddād, Nihād Sīrīs e Ḫayrī al-Ḏahabī.  Come osserva Stefan G. Meyer a proposito del romanzo sperimentale di ambito siriano, in queste opere affiora spesso il tema della disillusione, della frustrazione nei confronti della realtà politica del paese, nonché un ripiegamento sugli avvenimenti del passato, giacché la realtà del presente risulta inaccettabile.

Tra storia, realismo e interesse politico si muove la produzione letteraria di Fawwāz Ḥaddād, nato a Damasco nel 1947, studioso d legge e di storia siriana contemporanea. Il suo esordio letterario è segnato da un romanzo storico, Mūzāyk Dimašq 39, (Mosaico di Damasco 39) del 1991, un’opera in cui si evidenzia la cura dell’autore per la minuzia descrittiva della realtà damascena. Realismo e sentimento politico caratterizzano anche al-Mutarğim al-ḫā’in, (Il traduttore infedele, 2008), inserito nella shortlist dell’IPAF del 2009.  L’autore stesso descrive questo testo come il primo romanzo arabo imperniato sul tema della corruzione culturale, una critica agli intellettuali che lavorano nel settore della cultura all’interno di un regime autoritario[3].

  L’opera narra la storia di Ḥāmid Salīm, un traduttore di opere letterarie dalla lingua inglese a quella araba, il cui destino viene sconvolto proprio da una traduzione: traducendo un romanzo sudanese, redatto in inglese, Ḥāmid decide di alterare arbitrariamente il finale, facendo sì che il protagonista dell’opera abbandoni la compagna occidentale e ritorni in patria. Ma il libro ottiene un premio letterario, viene così recensito dalla stampa araba e la manipolazione del traduttore viene scoperta. A quest’ultimo non resta che cambiare continuamente identità per sfuggire alle persecuzioni del governo, assumendo pseudonimi sempre nuovi per poter sopravvivere. I nomi fittizi e le false identità si trasformano, per Ḥāmid, in altrettanti alter ego che diventano per lui ulteriori motivi di tormento. In questo romanzo, il tema politico è preponderante: Ḥaddād propone una lucida analisi dei rapporti che legano gli intellettuali al potere politico nella Siria contemporanea. Che cosa ha indotto Ḥāmid a sovvertire il finale dell’opera, distruggendo così il proprio futuro professionale e mettendo addirittura in pericolo la propria vita?

 Quello compiuto dal traduttore-traditore risulta essere un vero atto di ribellione contro un sistema e le sue regole del gioco, un insolito atto sovversivo nei confronti del sistema politico autocratico del suo paese. La traduzione infedele all’originale diviene così una metafora per esprimere la volontà dello scrittore di criticare la società in cui vive.

   Il romanzo è percorso da una vena di caustica ironia, a partire dalla scelta del protagonista riguardo al tipo di atto sovversivo da compiere nei confronti del regime dittatoriale del suo paese.

   Uno dei migliori esempi di “romanzo-mukhabarat” di ambito siriano è l’opera successiva di Ḥaddād,  ʻAzf munfarid  ʻalà al-bīyānū (Assolo di pianoforte) che può essere considerato a tutti gli effetti un thriller  fantapolitico che presenta, a una prima lettura, gli elementi del romanzo poliziesco, per poi rivelarsi, a un più attento esame, un’opera di denuncia politica e sociale a partire dal titolo: come la pianista francese suona da sola nel concerto descritto nel ventottesimo capitolo del romanzo, così l’intellettuale siriano si trova solo nell’atto di enunciare e di diffondere le proprie teorie, senza alcun pubblico ad applaudirlo o a incitarlo a proseguire. Il protagonista è solo con il proprio intelletto e il proprio bagaglio culturale, a suonare una sinfonia che nessuno comprende, che nessuno vuole ascoltare, le sue idee appartengono a un empireo troppo lontano dalla realtà, come la musica classica della pianista francese.

  Il romanzo racconta la storia di Fātiḥ al-Qalāğ, un intellettuale di sinistra, vedovo, dirigente presso la Banca Dati nazionale, convinto assertore della laicità, che, una sera, viene aggredito e picchiato nell’andronedel palazzo in cui abita. Ricoverato in ospedale, incontra Salīm, un funzionario dei servizi segreti incaricato dal governo di seguire il suo caso. Un vortice di avvenimenti trascina il protagonista negli intrighi politici e nelle trame che si stanno intessendo, a livello nazionale e internazionale, per concludere i negoziati volti alla riconciliazione tra governo e gruppi islamici fondamentalisti.  Fra gli amici che si presentano al capezzale di Fātiḥ, c’è uno sconosciuto che afferma di essere un vecchio amico d’infanzia, un compagno di classe dell’epoca delle scuole elementari, accorso dopo aver letto sui giornali la notizia dell’aggressione. Poco a poco, il protagonista mette a fuoco il visitatore, di cui ricorda il volto ma non il nome, così come rammenta la frase che il vecchio amico amava ripetere da bambino: «Io so molte cose». Quando l’amico d’infanzia gli riassume la propria vita, Fātiḥ sospetta che il suo ex -compagno di scuola sia convolto nelle attività di qualche gruppo islamista. Nel corso delle indagini, Salīm, l’ispettore dei servizi segreti, comprende sempre meglio i motivi per i quali il governo lo ha incaricato di occuparsi del caso: Fātiḥ, pur molto utile al regime nella lotta contro i gruppi islamisti per le sue convinzioni sul laicismo, si è distaccato dal suo credo laicista in occasione della malattia terminale della defunta moglie. In quel periodo, infatti, il noto intellettuale si è spinto a chiedere a Dio la grazia della salvezza della consorte, cosa che lo rende sospetto agli occhi del regime. Tornato al lavoro, Fātiḥ si informa a sua volta su Salīm, scoprendo le relazioni dell’ispettore con i servizi segreti di tutto il mondo. Nell’animo di Salīm, nel frattempo, si radica sempre più l’idea che Fātiḥ sia in realtà un islamista nascosto dietro un secolarismo di facciata, giungendo a sospettare che desideri assurgere alla status di martire. Fātiḥ, sebbene avvertito dai servizi di sicurezza del fatto che la sua vita si trovi in pericolo, partecipa a una conferenza con un intervento intitolato “Una scuola senza religione e senza distinzione di genere”: come nel XIX secolo la Francia rivoluzionaria aveva creato una scuola laica in virtù della riconciliazione nazionale, contribuendo a formare una cittadinanza priva di distinzioni di credo o di genere, così anche in Siria si è osservato il medesimo effetto positivo della scuola laica sulla società. Pertanto, continua Fātiḥ, occorre perseverare nella stessa direzione, combattere i gruppi islamisti che diffondono idee retrograde e superstizioni, relegando la donna in un ruolo marginale. Dopo la conferenza, Fātiḥ e Salīm discutono di laicismo, trovandosi d’accordo contro il fondamentalismo ma scontrandosi sui metodi per combatterlo: mentre il primo crede nel dialogo, il secondo sostiene la necessità del ricorso alla forza. In questa occasione, Salīm racconta a Fātiḥ dello sterminio della propria famiglia avvenuto nel passato per mano degli islamisti. I due uomini hanno un nuovo colloquio in un famoso ristorante di Damasco. Convintosi finalmente che l’intellettuale sia una persona onesta, Salīm gli rivela che il governo sta conducendo in segreto una nuova fase dei colloqui per la riconciliazione nazionale e che nulla deve turbare i negoziati. Anche Fātiḥ deve collaborare con il regime ed evitare di intervenire in nuove conferenze per non creare motivi di discussione o occasioni di disordini. Uscito Salīm, Fātiḥ si accorge della presenza, nella sala del ristorante, del suo vecchio compagno di scuola. Questi rivela a Fātiḥ che i negoziati tra governo e islamisti non sono altro che una farsa: il governo, infatti, non vuole alcuna riconciliazione. Confuso e angosciato, l’intellettuale si reca da Hayfā, la sua amante, in cerca di conforto. Nel frattempo, Salīm offre a Fātiḥ la protezione di un’organizzazione internazionale per la lotta al terrorismo cui partecipano tutti i paesi del mondo. Con la sua conferenza infatti l’intellettuale si è esposto all’azione non tanto dei gruppi islamisti, quanto a quella di individui isolati che potrebbero sentirsi incaricati da Dio di ucciderlo, per ottenere in cambio l’agognato martirio. Sentendosi pedinato da un uomo dall’aria sospetta, il protagonista accetta la protezione internazionale. Fātiḥ non si sente affatto protetto e, durante un concerto di pianoforte in cui Salīm lo convoca sul palco, gli manifesta tutto il suo terrore. L’altro lo rassicura, affermando di aver sventato diversi tentativi di aggressione. Nel frattempo, i colloqui di riconciliazione proseguono ma interviene un fatto nuovo: i paesi occidentali non li considerano appropriati. Fātiḥ, rendendosi conto che la propria sorte è legata all’andamento dei negoziati, è sempre più spaventato. Inaspettatamente riceve in casa la visita dell’amico d’infanzia che gli rivela che la sua persona è al centro di un complotto: i servizi segreti lo uccideranno e il suo assassinio servirà da pretesto al governo per interrompere i negoziati di riconciliazione nazionale. Il piano è già pronto: un agente lo accoltellerà tra la folla, un altro lo finirà con un colpo alla testa. All’omicidio il regime reagirà con il pugno di ferro contro gli islamisti. L’amico offre a Fātiḥ il suo aiuto, ma questi rifiuta, fidandosi ormai soltanto di se stesso.  Convinto che il suo destino sia ormai segnato, l’intellettuale si reca in ufficio per annunciare di aver richiesto un periodo di ferie ma, all’uscita, si imbatte in Salīm che lo sta aspettando: i negoziati stanno per concludersi con un accordo, non c’è più bisogno della protezione, ma non è il momento adatto alle ferie per non destare sospetti. Sfogandosi con il suo allievo e amico Ḥusayn, Fātiḥ rinnega le teorie in cui ha creduto per una vita intera, invitando il discepolo a non commettere l’errore di credere ciecamente in una causa.  Anche a Hayfā l’uomo confessa la propria disperazione, vedendo solo la morte davanti a sé. Qualche tempo dopo, mentre la primavera sboccia a Damasco, Fātiḥ comincia a sentirsi rassicurato. Un giorno, nota dalla finestra dell’ufficio il suo amico d’infanzia seduto su una panchina nel parco di fronte all’edificio. L’uomo scende a salutarlo, l’amico lo accoglie con piacere ma gli rivela che il suo omicidio è soltanto rimandato: il regime lo ucciderà quando l’assassinio tornerà utile ai suoi piani. Fātiḥ, disperato, non sa più in cosa credere, ma l’amico gli consiglia di confidare in Dio. D’un tratto, si ode un colpo secco e l’amico si accascia a terra. Fātiḥ si volta e vede un uomo con un fucile affacciato alla finestra del suo ufficio. Allarga le braccia, ansioso di farla finita, anche se gli dispiace che il suo amico sia stato ucciso per errore. Inaspettatamente, però, arriva un’auto nera e ne scende Salīm, che lo invita candidamente a tornare in ufficio, giacché l’obiettivo è stato raggiunto. Il corpo viene recuperato senza che nessuno si accorga di nulla. Il romanzo si chiude con una riflessione di Fātiḥ sull’assurdità della situazione: il suo amico è stato ucciso proprio perché sapeva tutto, mentre lui si rende conto che la conoscenza non serve a nulla e sarà questa consapevolezza a guidarlo fuori dall’incubo.

  Questo romanzo, che si presenta come un thriller carico di tensione e denso di colpi di scena, caratterizzato da un finale a sorpresa, presenta elementi che lo differenziano nettamente da un tradizionale romanzo giallo.

  Innanzitutto il realismo delle descrizioni, già evidenziato nell’opera precedente, quindi l’approfondimento della psicologia dei personaggi, soprattutto quella di Ftiḥ, il protagonista, e quella di Salīm, l’antagonista. Fātiḥ, un po’ come il protagonista di al-Mutarğim al-ḫā’il, è arroccato nel proprio egocentrismo, vive sotto una campana di vetro, chiuso nel sua turris eburnea di intellettuale, nel suo mondo intessuto di teorie filosofiche astratte, lontano dalla vita reale. È un uomo pieno di sé, fa del proprio amore per il secolarismo uno scudo con il quale proteggersi dal mondo, appare come una figura estremamente contraddittoria. Durante la malattia della moglie, non ha esitato a chiedere a Dio la grazia della guarigione, per poi tornare a combattere la religione in ogni sua forma. Con il passare del tempo, le sue idee rivoluzionarie si sono trasformate in un grigio conformismo. Difensore dei valori della laicità e della scienza, nemico giurato dell’oscurantismo e delle superstizioni, schierato contro l’Islam più bigotto e retrogrado, abbandona progressivamente il suo entusiasmo per rifugiarsi nel più cupo conformismo.

  Nell’analisi psicologica del personaggio, però, si fa strada in modo notevole la critica politica e sociale: il cambiamento progressivo di Fātiḥ, il suo ripiegarsi su posizioni sempre più retrive e perbeniste, la sua perdita del fervore e dell’entusiasmo politico, non sono soltanto risvolti di un carattere problematico e contraddittorio ma denunciano l’impatto dell’operato di un regime autocratico sull’animo del cittadino, in una società devastata da un regime che vive di violenza.

  Fātiḥ non è semplicemente un paranoico ossessionato da assurde paure, è una persona le cui certezze sono state frantumate dall’esperienza devastante del contatto con il mondo dei servizi segreti, dalla presa di coscienza di vivere in un paese in cui la morte può arrivare all’improvviso da qualsiasi parte, dalla consapevolezza di non poter distinguere l’amico dal nemico, chi lo vuole proteggere da chi lo vuole assassinare per poi usare l’omicidio per scopi politici. La crisi di Fātiḥ si consuma nell’amaro finale, quando il protagonista si rende conto, dopo un’intera vita passata nel tentativo di perseguire la conoscenza, che quest’ultima è inutile quando si vive in un regime brutale, in cui l’ignoranza salva il cittadino e la conoscenza della realtà lo condanna a morte.  La luce della conoscenza non è, in realtà, se non un fioco bagliore nelle tenebre dell’esistenza umana. Il protagonista non può fare a meno di giungere alla conclusione cinicamente apatica secondo cui non esiste differenza tra la verità e la menzogna, tra il bene e il male, accettando l’idea dell’inutilità dei conflitti e imparando a fidarsi soltanto di se stesso. 

  Antagonista di Fātiḥ è Salīm, il “cattivo” della vicenda, anche se in effetti tutti i personaggi non sono che pedine in un gioco molto più grande di loro. Durante l’infanzia, la vita di Salīm è stata sconvolta dallo sterminio della sua famiglia, trucidata nel corso di una rivolta dei gruppi islamisti della sua città (si riferisce forse alla città di Ḥamāh) e ha giurato vendetta contro gli islamisti. Nel corso delle indagini che lo portano a conoscere sempre più approfonditamente il caso dell’intellettuale aggredito, la sua vicenda personale ne influenza ogni decisione. La simpatia e la comprensione nei confronti di Fātiḥ vengono sempre messe a tacere dal desiderio di vendetta: non esiste misericordia, non c’è posto per la riconciliazione, l’unica via praticabile è quella dell’annientamento totale del fenomeno del fondamentalismo islamico, percorribile con ogni mezzo lecito e illecito. L’assassinio dell’amico di Fātiḥ, e non quello dell’intellettuale, è l’obiettivo di Salīm: una volta ucciso l’uomo misteriosamente legato agli islamisti, la sua missione può considerarsi compiuta.

  Anche Salīm, più ancora di Fātiḥ, è un personaggio in cui si rispecchia tutta la brutalità della dittatura, un animo corrotto da un sistema che ha fatto dell’omicidio politico una pratica quotidiana.

  Più sfumato, più misterioso, rimane il carattere dell’amico di infanzia, volutamente lasciato senza nome dall’autore. Fātiḥ infatti si arrovella, per tutto il corso del romanzo, nel tentativo di ricordare il nome dell’antico compagno di classe, senza riuscire a rammentarlo, neppure nell’attimo in cui si consuma la tragedia finale. 

   La passione per la storia, in questo caso quella irachena, si palesa anche in un altro romanzo di Ḥaddād, Ğunūd Allāh (I soldati di Dio), del 2010[4], scelto tra i migliori romanzi del 2011 dal Booker Prize arabo, in cui l’autore affronta il tema spinoso della guerra in Iraq del 2003.

  Caratterizzato da un forte realismo, il romanzo narra la storia di un intellettuale siriano che parte per l’Iraq, in pieno conflitto, alla ricerca del figlio combattente. Il protagonista, voce narrante senza nome, viene trasportato da Baghdad a Damasco, ferito e privo di memoria.

  La cornice narrativa del testo è costituita dallo sforzo del protagonista di recuperare la memoria e di rammentare l’accaduto. Se il personaggio non ha voglia di ricordare, i servizi di sicurezza siriani e americani sono estremamente ansiosi di ascoltare la sua storia. Nella prima parte del romanzo, il protagonista è aiutato, nel suo sforzo di far risalire i ricordi dal pozzo dell’oblio, da un amico di infanzia, Ḥassān, agente dei servizi segreti siriani. Insieme, i due uomini ripercorrono un passato intessuto di studio e di fervore politico, segnato dalla disillusione degli anni Sessanta, quando i due amici hanno imboccato strade diverse: Ḥassān è diventato un membro dell’intelligence siriana mentre il protagonista è divenuto uno studioso dei movimenti politici islamisti. Quando Ḥassān gli ha rivelato l’appartenenza del figlio a un gruppo affiliato ad al-Qāʻidah in procinto di aggregarsi alla resistenza irachena, il protagonista ha deciso di recarsi in Iraq per portare via il ragazzo. A supportarlo nell’azione è stato un agente americano che, in cambio di informazioni sui terroristi, ha garantito la salvezza del figlio.  Arrivato in Iraq, giunto sul punto di entrare in contatto con il giovane, l’uomo è stato rapito da un gruppo di miliziani. Dopo aver saputo della sparizione del padre, il figlio si è adoperato per la sua liberazione. L’incontro tra padre e figlio si è risolto però in un fallimento, giacché il giovane, divenuto un Emiro jihadistae uno spietato assassino, ha rifiutato di tornare in Siria con il padre. Quest’ultimo, deluso e addolorato dal proprio fallimento, incapace di salvare il figlio, avrebbe deliberatamente deciso di perdere la memoria.  

  L’opera è caratterizzata da descrizioni dettagliate e precise: gli ospedali e gli obitori di Baghdad, le milizie specializzate in rapimenti, le scene di combattimento, ogni aspetto è rappresentato con crudo realismo e dovizia di particolari. All’estremo realismo l’autore affianca l’approfondimento psicologico dei numerosi personaggi, dipingendo la crisi che sconvolge le coscienze che non si riconoscono più in un’unica verità. La sola certezza è costituita dalla coscienza- memoria del narratore, una coscienza incapace di sopportare la dura realtà, una situazione psicologica ancor più angosciosa perché la nuova sconfitta viene a sommarsi alla disillusione del passato, quando il protagonista aveva abbandonato la politica negli anni Sessanta, deluso e amareggiato, per dedicarsi a una tranquilla esistenza di studioso, dalla quale si distacca soltanto per risolvere una questione di carattere personale e familiare. 

  Anche questo romanzo, carico di tensione e di densità narrativa, può essere definito un thriller non convenzionale per gli elementi che contiene, per la trama articolata, per la definizione della psicologia dei personaggi, per la ricchezza descrittiva. L’ampio coinvolgimento dei servizi segreti fa anche di questo testo un “romanzo-mukhabarat”.

  Notevole l’approfondimento psicologico del carattere del protagonista, un intellettuale laico che riflette sulle sconfitte della propria generazione, sul tramonto degli ideali progressisti della giovinezza, ideali che hanno perduto tutto il loro potenziale rivoluzionario, ormai soppiantati dalle teorie islamiste che si propongono di cambiare il mondo con la violenza, di renderlo “la terra di Dio”, con la promessa di un felice paradiso in cui si otterrà tutto ciò che è mancato durante questa vita. Il protagonista non può accettare il ricorso alla violenza, né quella propugnata dal figlio, né quella praticata dagli americani in Iraq. Il protagonista presenta alcuni punti di contatto con il personaggio principale di ʻAzf munfarid ʻalà al-bīyānū: entrambi sono intellettuali di mezza età, convinti assertori del laicismo e sostenitori degli ideali progressisti, entrambi hanno vissuto la disillusione politica, perdendo ogni entusiasmo e ripiegandosi su una dimensione privata.

  L’idea di Ḥaddād sulla guerra ricorda, sotto certi aspetti, quella di Ernest Hemingway in Addio alle armi: la guerra è la cornice degli eventi narrati, ma anche uno stimolo alla riflessione sul come e perché l’uomo abbia perduto la propria umanità. Come nel romanzo di Hemingway, anche in Ğunūd Allāh Ḥaddād dipinge una “generazione perduta” che ha smarrito la fiducia nei valori tradizionali come il nazionalismo, il lavoro, la libertà e la democrazia per ripiegare sul nichilismo proposto e propagandato dal jihadismo.  Lo scontro generazionale, la precarietà della vita, la condanna della violenza rappresentano i temi dominanti di dell’opera, che può essere anche letta come un romanzo d’azione e di spionaggio.


[1] Cfr. M. Weiss, What Lies Beneath. Political Criticism in Recent Syrian Fiction, in Syria from Reform to Revolt, vol. 2, New York, Syracuse University Press, 2015, pp. 21-22.

[2] Cfr. A. Beydoun, Riwayat al-mukhabarat, al-Safir, Aug. 12, 2009 e al-Awān, 8 /12/2013, www.alawan.org .

[3] Cfr. A. Barbaro, Lost or found in translation? La traduzione come atto sovversivo nel romanzo al-Mutarğim al-ḫā’in di Fawwāz Ḥaddād, in “La rivista di Arablit”, IV, 7-8, 2014, p. 73.

[4] F. Ḥaddād, Ğunūd Allāh, Bayrūt, Riyyāḍ al-Riyyas, 2010.

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