Articolo di Barbara Benini
Nel suo Arte a parte Tullio Pericoli, pittore e disegnatore marchigiano, narra al lettore di una serie di esperimenti che ha condotto negli ultimi anni su se stesso, ovvero analizzare attraverso quelli che chiama “gli occhi della fronte” e “gli occhi della mente”[1] il proprio lavoro – o meglio, quello della sua mano quando è all’opera.
Ponendosi in una posizione distaccata, al di fuori, come se la mano che sta dipingendo uno dei suo paesaggi, o ritratti, fosse un organo che non gli appartiene, Pericoli la osserva, cercando di cogliere attraverso gli “occhi della mente” tutto ciò che di “inusuale” si verifica al momento della creazione artistica.
Il “tatto” è il senso proprio alla mano ed è grazie ad esso che l’artista può sentire gli “attrezzi” che utilizza, calibrarne l’uso, percepirne la “resistenza” [2], ma anche la superficie su cui sta lavorando.
Pericoli, che, da pittore, ammette di “scrivere a mano”, la stessa che “migliaia di volte” ha osservato dipingere, si domanda quale sia il ruolo “del contenuto”[3] nella scrittura e se esso abbia un peso nella pittura. E poi, come fosse un essere a sé stante, si chiede se mai la sua mano si ponga questi stessi quesiti. Un antropomorfismo della mano, il suo, che lo porta a evidenziare come da un semplice tratto su un foglio non si possa solo evincere il tipo di strumento usato per disegnarlo, ma anche lo stato d’animo in cui si trovava la mano quando l’ha tracciato, “la sua sapienza e le sue intenzioni”[4].
Dell’idea di “sapienza” della mano, Pericoli aveva già parlato sette anni prima nel suo splendido Pensieri della mano – Da una conversazione con Domenico Rosa, dove riconosceva “un’identità” propria alla mano, in quanto dotata di “una mente e capacità creative proprie”, “quasi fosse un essere autonomo”, dal momento che “il contatto fisico” del pittore con la superficie su cui dipinge si attua grazie alla mano, il cui ruolo fondamentale nella scelta del materiale è imprescindibile, Pericoli lo definisce “un atto mentale” [5].
Seppur con caratteri e toni differenti, un’antropomorfizzazione della mano – o meglio delle mani – si trova anche nel romanzo di Tareq Imam Le mani dell’assassino, un noir dalle tinte gotiche, impregnato di realismo magico, in cui il protagonista, Salem, con una mano scrive il suo diwan di poesie, mentre con l’altra “lavora” per vivere e per procurarsi il sangue, inchiostro dei suoi componimenti.
Imam conferisce alle mani del suo personaggio una vita propria, a sé stante, sono indipendenti l’una dall’altra e secondo questo criterio le descrive: la destra “riposa in un guanto di velluto scuro”, mentre la sinistra, quella con cui scrive poesie, è “sempre nuda e sporca d’inchiostro, fredda e tremante, il contrario di sua sorella…”[6].
E sono sempre le mani a guidare Salem, a dargli la spinta per commettere gli omicidi, perché l’esigenza di scrivere e completare il diwan di poesie viene da loro, dal desiderio di Salem che le guida e si realizza per loro tramite: “Io sono l’assassino che rischia la vita per lasciare al mondo le proprie poesie, così come sono state scritte: da una mano senza storia, con il sangue delle vittime, alle spese di una sorella che fa il lavoro sporco”[7].
Sono così diverse nei loro ruoli e nel loro essere le mani di cui ci parla Imam, che arrivano persino a lottare l’una contro l’altra, durante la notte, baruffe sanguinarie che vengono interrotte solo dal risveglio del protagonista, che si sente soggiogato, comandato dalle sue mani, che agiscono da sole, a sua insaputa: “La mia mano destra, brandendo il pugnale, rovesciava fendenti sulla sorella. Come avrà fatto a prenderlo?! Mica avrà trascinato il mio corpo in soggiorno e, preso il coltello dall’armadio antico, se n’è tornata a letto? Possibile che quella mano mi comandi fino a questo punto? Anche la sinistra, però, aveva fatto qualcosa di simile: dal cassetto della scrivania aveva estratto un foglio bianco e si era messa a scrivere con il proprio sangue, il mio sangue! Come se quelle due sorelle non fossero più mie. Un giorno si alleeranno contro di me, sarò io la loro vittima: la destra mi ucciderà e la sinistra comporrà un verso con il mio sangue”.[8]
Ma Salem non è l’unico assassino, l’unico a scrivere con la sinistra e uccidere con la destra, ce ne sono altri a condurre una vita sdoppiata in questa storia: “…con la mano sinistra sta scrivendo di un assassino che scrive con la sinistra e con la destra, quante persone avrà già ammazzato Hana’?”[9]
Ne Le mani dell’assassino Imam, antropomorfizzando le mani del suo protagonista, ha realizzato un’opera dai toni surreali, creando un mondo che seppur collocato all’interno di una grande metropoli, quale il Cairo è nella realtà, è popolato da esseri soli, animati dal costante desiderio di sedare la lotta tra le loro due anime, quella più attaccata al reale e quella più da esso distaccata, a mo’ di emblema della condizione umana.
PER APPROFONDIRE:
Arte a parte, Tullio Pericoli, Adelphi, 2021
https://www.adelphi.it/libro/9788845935640
Pensieri della mano – Da una conversazione con Domenico Rosa, Tullio Pericoli, Adelphi, 2014
https://www.adelphi.it/libro/9788845928710
Le mani dell’assassino, Tareq Imam, Atmosphere Libri, 2016, trad. di Barbara Benini
[1] Arte a parte, Tullio Pericoli, Adelphi, 2021, p. 13.
[2] Ibidem, pp. 33-35.
[3] Ibidem, p. 55.
[4] Ibidem, pp. 59-60.
[5] Pensieri della mano – Da una conversazione con Domenico Rosa, Tullio Pericoli, Adelphi, 2014, pag. 13.
[6] Le mani dell’assassino, Tareq Imam, Atmosphere Libri, 2016, trad. di B. Benini, p. 15.
[7] Ibidem, pp. 16-17.
[8] Ibidem, p. 57
[9] Ibidem, p. 79