Fonte: icibeyrouth
Traduzione a cura di Antonino d’Esposito

La scrittura romanzesca di Ahlam Mostaghanemi, dando spazio all’amore e alle cause importanti, ha rivelato un universo proprio. Soprannominata dal presidente Ben Bella “il sole d’Algeria”, la scrittrice ha raccolto la sfida di avere milioni di lettori e di lettrici nel mondo arabo e di vendere milioni di copie dei suoi romanzi quando gli Arabi erano tutt’altro che bibliofili. Il grande poeta Nizar Qabbani, dopo aver letto “La memoria del corpo” (uscito in italiano per Jouvence), aveva dichiarato: “Questo romanzo mi ha letteralmente conquistato. Lo avrei firmato, se me lo avessero chiesto.” Inserita da Forbes tra le dieci donne più influenti del mondo arabo, Ahlam Mostaghanemi ci colpisce soprattutto per il suo umanesimo e la sua maestria. Intervista alla grande romanziera su Ici Beyrouth.
Si dice che lei sia la scrittrice dell’amore. Il tema della donna che sfugge all’uomo è onnipresente nei suoi libri, in un contesto di sensualità e di sublimazione della donna orientale. È un modo per perpetrare la tradizione dell’astinenza, in opposizione al consumismo occidentale? Faccio riferimento alle sue eroine, soprattutto alla desiderata Hayat e alla Francese emancipata.
La prima frase de La memoria del corpo è: “L’amore è ciò che ci fu tra di noi, la letteratura tutto ciò che non è accaduto.” Penso che sia grazie alla mancanza, alla distanza, che si faccia letteratura. L’amore in sé impedisce di scrivere, questa è una cosa che confesserebbe qualsiasi artista. Proust non avrebbe mai scritto La ricerca, Prévert non avrebbe scritto Le foglie morte, né tantomeno Jacques Brel avrebbe fatto con Ne me quitte pas, se i loro amori non fossero andati perduti. D’altronde, in amore la distanza è un’arte. Avvicinandosi troppo, si schiaccia il desiderio. Allontanandosi troppo, si scompare nell’oblio. Mi considero una scrittrice del desiderio, non del piacere, perché è col desiderio, che è una forma dell’assenza, del sogno, che si arriva a toccare. Tra l’altro, Amine Nakhlé affermava che l’arte è nata quando Eva ha infuso in Adamo il desiderio dicendo: “Quant’è bella questa mela!” È la distanza che ci separa dal melo che fa la letteratura. Per quel che riguarda l’astinenza femminile, diciamo che preferisco ispirarmi a una certa etica, perché odio particolarmente la volgarità e sono ossessionata dal bello.
Ciò non impedisce di trovare nei suoi libri tanto la sensualità e l’appetito sessuale fulminante, quanto il sufismo, la trascendenza e la spiritualità. È possibile riconciliare nozioni così diverse? Da quale lato pende la bilancia per lei?
È vero che adoro le figure retoriche e che i miei titoli si basano su suggestivi giochi di parole, ma sfioro il proibito, senza mai sfociare nell’ostentazione. Sono per il profumo della sensualità, non per la sessualità in vetrina. Non bisogno dimenticare che pubblicare è l’atto più pericoloso. Quando un libro lascia la vostra scrivania, non vi appartiene più e ogni frase può ritorcervisi contro. Un libro non andrebbe scritto alla leggera, un romanzo non si limita a raccontare una storia; deve poter lasciare delle impronte che, forse, cambieranno la vostra vita. La vita vera di un romanzo comincia quando ne termina la lettura. Scrivo ogni libro con l’angoscia del primo e la paura dell’ultimo. Penso che la vita, sia a causa delle guerre che della pandemia, abbia detronizzato il migliore dei romanzieri. È lei ormai che si appropria del romanzesco, che ci meraviglia col suo lato imprevedibile e ci mette al centro della più grande suspense, di fronte a un nemico invisibile che gestisce la nostra esistenza. Ma la letteratura trova comunque il suo materiale. Da sempre, si nutre principalmente di due grandi temi umani: l’amore e la morte, predominanti nei miei romanzi e all’origine della dimensione spirituale evocata prima. Sono molto credente e mi meraviglio costantemente davanti al mistero della creazione nei suoi minimi dettagli. Da che lato pende la bilancia? Dal lato di una certa poesia, di un tutto inseparabile.
Lei è la scrittrice più letta nel mondo arabo e scrive nella lingua che il suo compianto padre, professore di francese e militante dell’indipendenza, non sapeva leggere. La fama letteraria, espressa nella linguamadre vietata, è forse il modo per vendicare suo padre?
Mio padre, francofono, mi ha spinto ad imparare l’arabo di cui lui era stato privato, una lingua vietata in Algeria per centotrenta anni. Ma è per l’amore che provo per questa lingua che mi ci sono dedicata. Non si può eccellere in una lingua soltanto intrattenendo con essa una relazione passionale. Quando mi si chiedeva: ‘dove ha imparato l’arabo per scrivere così?’, rispondevo di aver studiato in Algeria. Probabilmente, non conosco l’arabo meglio degli Orientali, ma dico di amarlo più di loro perché abbiamo fatto la guerra anche per riconquistare la nostra identità linguistica.
D’altronde, non ho cercato la celebrità, che tende a sfuggire a quanti la cercano e a inseguire quelli che la rifuggono. Sono diventata famosa in un’epoca in cui non c’era Internet per farmi conoscere, agli inizi degli anni ’90. Ma, dopo aver scoperto una ventina di pagine Facebook a mio nome e prendendo alle volte posizioni politiche, sono stata costretta a creare una pagina ufficiale (che ha 14 milioni di iscritti) per arginare il furto d’identità; così, sono stata inglobata nell’ingranaggio di questo mondo virtuale. Con Twitter e Instagram è successa la stessa cosa.
Scrivere in arabo è una specie di militarismo poiché questa lingua è stata tacciata di terrorismo, e gli stranieri non sono entusiasti delle opere arabe. Per me, il merito di uno scrittore si misura con la gloria delle cause che ha difeso.
Ha vissuto a lungo a Parigi. Nei suoi libri, descrive con ossessione i ponti della città algerina di Costantine, un po’ come Van Gogh dipingeva i girasoli. Quale rapporto ha con questa città che la perseguita?
La maggior parte dei miei romanzi è nata a Parigi. Allora erano i romanzi della frattura e dell’esilio; la memoria era guardarsi a distanza. Ci sono città in cui si abita e altre che ci abitano. Io vengo da una città mistica: Costantine. Eppure, è una città che non mi ha visto nascere, ma che ho potuto descrivere prima di scoprirla veramente. La portavo dentro di me, come il mio protagonista che vedeva il Pont Mirabeau, ma dipingeva quello di Costantine.
Sono d’accordo con Malek Haddad quando afferma che ogni forma d’amore è politica. Quarant’anni fa, nel mio primo romanzo, dicevo che la scrittura è un regolamento di conti e che scrivevo come se stessi pulendo un’arma. C’è sempre qualcuno, o un sistema, che si ha l’intenzione di far fuori in ogni libro. Oggi, direi che scrivere significa gestire le proprie illusioni o perdite. Siamo quello che abbiamo perso, non quello che possediamo. In ognuno dei miei romanzi c’è una perdita che provo a compensare.
Si rivolge alla coscienza collettiva del popolo arabo in generale, o, piuttosto, a quella degli Algerini? È pro nazionalismo arabo?
Prima di tutto, direi che la lingua araba ha condizionato le miei tematiche sin da subito. Ho deciso di rivolgermi a un pubblico arabo e non ho fatto concessioni su questo punto per di essere accettata dall’Occidente, pur avendo vissuto in Francia. Gli scrittori arabi francofoni che vivono in Occidente finiscono per fare una letteratura che conforta gli occidentali nel loro immaginario del mondo arabo, e questo serve loro come ricompensa.
Per me, la gloria consiste nel rappresentare la nazione. Lo dico senza pretese. Sono nata in un’epoca in cui tutti gli Arabi erano nazionalisti, in una famiglia militante e umanista; questo mi ha forgiata e mi ha condizionata per sempre. Tra l’altro, il successo del mio primo romanzo è dovuto al fatto che tutti gli Arabi, senza eccezione alcuna, si sono riconosciuti nel percorso dell’eroe, nel suo entusiasmo per il nazionalismo arabo e algerino e per le disillusioni vissute. In tutta la trilogia, l’eroe doveva affrontare le derive storiche, sia quelle dell’Algeria che della nazione araba, e ogni sorta di perdita, il tradimento, la corruzione e la complicità. In verità, i miei scritti sono un omaggio agli uomini di coscienza che sono rimasti onesti malgrado tutto, che hanno resistito alla tentazione e alle minacce, di cui Khaled Bentoubal è diventato il simbolo. Nei tre romanzi (1200 pagine), quest’uomo rimane l’uomo del no e rifiuta qualsiasi concessione.
C’è sempre un mistero che la circonda. Ha sempre cercato di sottrarsi alle apparizioni mediatiche. Paradossalmente, la sua fama non fa che crescere. Qual è la ricetta per essere così conosciuta e così discreta?
Hemingway diceva che uno scrittore non lo si riconosce dal numero di libri, ma dal numero di lettori. Uno scrittore si impone con la propria modestia. Riesce nel suo scopo quando arriva a somigliare ai suoi lettori, e non quando comincia credersi più importante di loro. Lo scrittore non deve prendersi sul serio, ma prendere sul serio la scrittura. Non mi sono mai firmata col titolo di dottoressa, che comunque ho ottenuto alla Sorbona nel 1985, perché detesto i rapporti di superiorità e rivendico l’umanismo più umile. Il peggio che possa succedere a uno scrittore è di prendere posto nella gloria. La gloria può allontanare dalla propria opera e limitare la libertà d’espressione. La celebrità può anche privare dell’umano diritto all’errore e alla spontaneità.
La sua scrittura si nutre essenzialmente della sua vita, della sua esperienza? È vero che il suo ultimo testo, Allegra separazione, racconta alcuni episodi della sua vita?
Uno scrittore non può sfuggire alla sua biografia, ma deve scegliere come e quando raccontarla. Quindi, lascio delle testimonianze autobiografiche disseminate un po’ dappertutto nella mia opera, perché ho raggiunto l’età delle testimonianze e ci sono delle personalità letterarie e non, che ho frequentato, che meritano di essere associate alla mia autobiografia. Tra tutti, penso a Nizar Qabbani.
Lei afferma che Beirut ha forgiato il suo destino letterario e amoroso. Come?
Sul piano personale, ho scelto di sposare un libanese: il ricercatore, sociologo e giornalista Georges el-Rassi, che ho incontrato a Parigi. Mi piacevano le sue posizioni intellettuali e politiche, tra di noi ci fu un colpo di fulmine mentale. Georges mi ha sempre sostenuta, soprattutto quando sono stata vittima di una campagna denigratoria, a seguito del successo colossale de La memoria del corpo.
Ritornata in Libano nel 1992, Beirut mi ha reso tutti gli onori. D’altronde, Beirut accoglie a braccia aperte i talenti, senza distinzioni identitarie. A maggior ragione, penso al successo fulminante de La memoria del corpo, pubblicato in Libano, ai miei libri studiati all’Università Americana di Beirut. Non posso dimenticare l’accoglienza e l’amicizia di Ghassan Tuéni, pace all’anima sua. Penso all’entusiasmo sorprendente del pubblico libanese, le sue classi sociali tutte mescolate, al mio editore Émile Tyan, un gran signore. Le libanesi e i libanesi sono impastati di bontà e generosità.
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