Luna su Samarcanda (estratto) di Mohamed Mansi Qandil

Le storie delle steppe

traduzione dall’arabo di Barbara Benini

Qamar ‘ala Samarqand, Dar al-Hilal, Il Cairo, dicembre 2004

Avvolta nella soffice nebbia mattutina, la città appare azzurra e remota, mentre la prima calura meridiana solleva colonne di polvere cocente: a quanto pare sono l’unico straniero in quest’enorme stazione dei taxi, circondato da un gruppo di autisti; volti bianchi, inariditi, arrossati, seccati dal sole, occhi dello stesso azzurro sbiadito della città; in ogni bocca brilla un dente d’oro e ognuno cerca di far risuonare la voce più forte degli altri; sento l’odore acre del loro sudore, non capisco una parola di quel che dicono, mentre continuano a scrivere numeri sui vetri impolverati delle loro auto: 500, 450, 400 seguiti dal simbolo del dollaro. So che sono cifre gonfiate; prima di arrivare qua tutti mi hanno avvertito dell’estenuante mercanteggiare alla stazione dei taxi.

Poco lontano i vagoni del treno per Samarcanda, stipato di gente e animali, sono pronti a partire: ho provato a prenderlo, prima di arrivare qui, ma non ce l’ho fatta, non sopportavo il miscuglio di odori di cui era impregnato e non ho nemmeno trovato un buco dove sistemarmi.

Uno degli autisti si avvicina e mi mette la mano sulla spalla, parla con tono gentile e amichevole, ma gli sento la puzza d’alcol nell’alito; con la mano si tocca il petto e giura – me l’immagino dalle parole Allah e Corano, in arabo, che si ripetono molto nel mezzo del discorso – che vuole solo 350 dollari, assicurandomi che è la cifra più bassa cui possa scendere ma, prima di riuscire a finire di convincermi, gli altri lo spingono via.

La fila di vagoni, lontana, si muove con tutta la sua gente e le sue bestie; una bambina seduta vicino a una capra più grande di lei, mi fa un cenno, mentre entrambe si sporgono dal finestrino.

I volti degli autisti mi si avvicinano sempre di più: voglio solo arrivare a Samarcanda, ma non conoscendo né la lingua né il posto, questa semplice richiesta si sta trasformando in qualcosa di impossibile; ripongo il taccuino su cui di solito annoto le mie osservazioni, dentro la borsa, me la metto in spalla e cerco di uscire dal capannello di persone che mi circonda.

Delle dita grosse e forti mi afferrano il polso. Mi volto, sorpreso di ritrovarmi davanti un corpo enorme, che si staglia tra me e il sole. Con sicurezza e in arabo fluente, mi dice:

– Inshallah, ti ci porto io a Samarcanda!

La sua parlata schietta e il modo saldo con cui mi tiene il polso mi colpiscono; la discussione si blocca improvvisamente; tutti tacciono; in pochi attimi vengo trascinato fuori dal cerchio della contrattazione, senza che gli autisti si rendano conto che la preda gli è già sfuggita, poi le loro urla risuonano improvvisamente e con le mani fanno gesti di protesta, mentre l’altro non mi molla il polso. Ci fermiamo davanti a una vecchia automobile russa, con il parabrezza incrinato, pronto ad andare in frantumi al primo colpo di vento; con voce rauca e profonda, dal tono irrefutabile, mi dice:

– Sali!

Immobile e perplesso alzo lo sguardo verso di lui, osservandolo bene per la prima volta: non è poi tanto alto come me lo sono immaginato di primo acchito, forse mi sono lasciato ingannare da quella voce profonda. Ha un corpo quadrato che ricorda più che altro una cassa di risonanza e un volto congestionato dal biancore – un antico mamelucco, ancora fiero, nonostante gli abiti sdruciti – due profondi occhi azzurri e una barba folta, bianca e rossa, così strana da sembrar finta. Ha lineamenti marcati, scolpiti, assomiglia a un’antica illustrazione, a un antenato delle fiabe, di quelli che racchiudono in sé santità e tentazione; istintive macchie di pennello, nei primi momenti della creazione. Tutto quel che indossa è scolorito: i pantaloni e la camicia sbottonata sul torso nudo, lo zucchetto uzbeco stinto e persino i sandali con le strisce di cuoio logore.

Apre il bagagliaio dell’auto e allunga la mano per prendermi la borsa dalla spalla; la tengo stretta e, arretrando di un passo, mi riprendo da quell’improvvisa presenza che mi si è imposta davanti. Indicando l’auto:

– E una macchina in queste condizioni ce la fa a viaggiare così a lungo?

Sicuro di sé e tendendo la mano verso la mia borsa:

– A Dio piacendo…

Mi guardo indietro, il resto degli autisti è in piedi, pronto, ma nessuno osa avvicinarsi a noi; cerco di capire, dai loro sguardi, quel che potrebbe succedere se non accettassi questa conclusione un po’ forzata dell’affare; l’autista, infastidito dalla mia indecisione infantile, si avvicina di un passo e mi strappa la borsa dalla spalla senza che riesca a fermarlo; poi la mette nel baule e lo richiude; apre la portiera anteriore e con tono enfatico, raddoppiando la “r” e allungando la “e” mi dice “Prego!”.

Sono praticamente costretto a entrare e lui subito sbatte con forza la portiera – a quanto pare è l’unico modo per chiudere anche la sua. Invano, fa un paio di tentativi per avviare il motore, i cui ingranaggi rispondono fischiando debolmente: mi auguro che non parta o che tardi un po’ a mettersi in moto, per raccogliere le mie idee sparpagliate, ma anche l’auto – come me – non ce la fa a opporsi alla pressione continua della sua mano e con un rumore intermittente, poi un rombo, come se il motore si stesse rovesciando di lato, emette un rauco rantolo e fa uno scatto improvviso in avanti, mentre lui borbotta:

– Dio ti ringrazio che ce l’hai messa in moto… da soli non ce l’avremmo mai fatta!

Avanziamo lentamente in mezzo alla folla mattutina di Tashkent, tra i blocchi di cemento delle abitazioni che si intrecciano le une alla altre, identiche in tutto e per tutto, persino nei vetri rotti: sono i lunghi giorni del socialismo, il sogno dell’uguaglianza trasformato in incubo, spazzato via da giganteschi grattacieli moderni, testimoni di vetro e acciaio della nuova era di apertura al libero mercato. L’auto si immerge in strade fiancheggiate da una rigogliosa vegetazione; ci fanno ombra alberi immensi che velano il cielo. Ci fermiamo a un semaforo e il mio tassista, sorpreso, mi indica due ragazze bionde che stanno attraversando: sotto dei corti abiti bianchi sbucano le cosce candide. Sussurrando mi dice:

– E se ce le portassimo con noi a Samarcanda?

Lo guardo sconcertato. Non mi aspettavo un’uscita simile; sembra quasi che voglia recitare la parte dell’autista di professione. Ride, mostrando il dente d’oro e con asprezza si volta verso di me:

– Mi sa che non arriveremmo né a Samarcanda né a Bukhara!

Scatta il verde e ci ributtiamo per le strade della città: un miscuglio di visi si sussegue davanti a noi. Sono in città da pochi giorni ma già riesco a interpretare i volti della gente: gli uzbechi aggrottano le ciglia e accennano solo mezzi sorrisi; uomini e donne proteggono il rivestimento dei loro denti con l’oro; le russe, con i loro capelli biondo platino e le minigonne, hanno abbandonato la politica per il sesso: gli anni della superbia sono tramontati, ma i desideri dei sensi divampano ancora; tatari, kazachi, tagichi e coreani, un miscuglio di sangue e sudore asiatico scorre nelle vene della città appena sveglia.

Arriviamo in piazza Timùr Lang, il mitico Tamerlano, dove a stento trattengo il respiro; guardo la rotonda fiorita che si avvicina mentre la statua del Principe Furente incombe su di noi, sovrapponendosi al ricordo del volto dell’Ambasciatore.

Sono stato da lui nei giorni scorsi e mi è parso freddo e formale – non so bene cosa ci sia andato a fare. “Assomigli molto a tuo padre, ero ai suoi ordini, quando ero militare; erano bei tempi”. Forse conosceva lo scopo del mio viaggio e forse sa che mio padre, anche se vive sotto la mia pelle, non mi assomiglia per niente. Ha cambiato discorso e ha iniziato a raccontarmi di quanto fosse stanco di questo paese.

Dio… perché sono rimasti tutti e solo mio padre se n’è andato?

Le amarezze si dissolvono come al termine di un giorno di pioggia e improvvisamente sento la voce del mio autista.

– Vuoi che ci fermiamo?

Mi volto sorpreso; forse mi ha tradito l’espressione che ho in viso; forse ho gli occhi pieni di lacrime. Gli faccio cenno di no e l’auto riprende velocità, girando attorno alla piazza; faccio appena in tempo a scorgere la cima della statua e la fontana che ieri mi ha bagnato i vestiti. Procediamo seguendo la lunga arteria che porta fuori città: l’aspetto delle abitazioni peggiora e, verso sud, cominciano delle casupole di lamiera che, come una cintura arrugginita, circondano la città; poi ancora la sua voce:

– Come ti chiami, fratello?

– Ali.

–  Che Dio si compiaccia di Lui[1]! Io mi chiamo Nurallàh e tu naturalmente sei egiziano, l’ho intuito dall’aspetto e dall’accento.

Lo fisso esterrefatto e anche un po’ allarmato:

– Conosci bene l’Egitto?

Risponde con noncuranza:

– Non l’ho visitato molto, forse due o tre volte, è stato tanto tempo fa, ma ci ho mangiato tanto di quel full[2] che mi è bastato per anni!

Non sembra un uomo d’affari e neanche un diplomatico, tanto meno uno che va in giro a fare il turista… ma allora dove ha imparato a parlare l’arabo in modo così scorrevole e appropriato?

La macchina non smette di sobbalzare sull’asfalto sconnesso né Tashkent accenna ad allontanarsi; altri viali lussureggianti si aprono davanti a noi e ogni tanto appare una statua in pietra, monumento silenzioso alla gloria del socialismo: ragazzi e ragazze che si tengono per mano, alzando le braccia verso un sole che non è mai sorto.

Finalmente lasciamo la città e ci troviamo circondati da campi di cotone. La puzza di fango e radici mi sale al naso; un’infanzia remota si risveglia, quando con mio padre andavamo a trovare i parenti lontani; un mondo di ricordi frammentari che ancora ardono nel profondo. Una domanda mi perseguita: perché questo viaggio? Cosa sto cercando, o meglio, da cosa sto fuggendo?

Do un’occhiata al cruscotto: le spie sono tutte accese, quella della benzina è gialla, quella dell’olio pure e la folle velocità indica che stiamo procedendo solo in funzione di questo pazzesco slancio in avanti; l’auto si immerge in un rigoglioso tappeto di un verde che non ho mai visto.

– Hai qualcosa per il pranzo?

– Normalmente non mi porto dietro mai niente.

– Ci aspetta un lungo viaggio. Meglio mettere qualcosa sotto i denti. Devo trovare una vecchia kazaca che sta sempre seduta da queste parti.

Mi guardo intorno ma non c’è nulla; lontano si vedono alcuni contadini immersi nei campi di cotone scintillante; una bambina alza la testa tra le spighe di grano e ci osserva; i suoi vestiti sono un miscuglio di colori sgargianti.

Mostrando il suo dente d’oro mi spiega:

– Porta un abito di raso di seta di un colore…

Prima di completare la frase, con il suo solito fare brusco, sterza improvvisamente e io inizio a urlargli che ne ho abbastanza del suo modo di guidare e che se non la smette, scendo.

Ecco la vecchia seduta sotto un albero.

Gli occhi allungati ne evidenziano i lineamenti mongoli, ha guance minute solcate da minuscole rughe e indossa una veste nera, con ricami colorati; in mano tiene un piccolo scacciamosche che non smette mai di far schioccare. Nurallàh scende dalla macchina ignorando le mie proteste, le si siede accanto e inizia una vivace conversazione nella sua lingua, che io non capisco. Lei ride contenta, colpendolo sul petto. Nurallàh prende un recipiente di metallo, da un otre vi versa del liquido e, stringendolo tra le mani, torna verso di me:

– Ne vuoi un po’?

Scruto il liquido biancastro su cui galleggiano gocce gialle di grasso e gli chiedo:

– Che roba è?

Con un sorriso mi risponde:

Qumbz, latte di cavalla.

Il mio stomaco si rivolta:

– Ma per carità!

Continua a tenermi il recipiente sotto il naso e io sento la puzza di cavallo che sale da quei grumi galleggianti e mi impunto:

– E toglimelo da davanti!

– Che c’è di male – mi fa, sorpreso – guarda che gli Ottomani hanno conquistato mezza Europa grazie a questo qumbz: era la bevanda dei giannizzeri!

Mi giro dall’altra parte e lui sospira profondamente: temo di averlo deluso, ma poi lo sento ridere mentre torna indietro e, voltandomi, lo vedo bere il latte e pulirsi la bocca con il dorso della mano. Si siede di nuovo accanto alla vecchia, che ride, continuando a fissarmi: staranno parlando di me oppure le starà raccontando qualche storiella sconcia?

Ripenso alle sue ultime parole. A ogni istante appare di lui un nuovo volto: parla perfettamente l’arabo, conosce l’Egitto e sa pure qualcosa di storia. Non sembra il solito autista. Mi sarei aspettato un tipo più taciturno, più neutro, che non mi mettesse continuamente in imbarazzo.

Prima di rialzarsi, abbraccia con gentilezza la donna, baciandola in fronte.

Con il suo corpo gigantesco si getta sul sedile, sbatte la portiera e si rilancia improvvisamente tra le auto che, ruggendo con violenza, cercano di evitarci. Una mandria di buoi, al pascolo lungo la strada, indietreggia terrorizzata. Ci inseguono le imprecazioni degli autisti, ma pare che lui non si accorga di niente e, piegandosi verso di me, mi dice:

– Non ti arrabbiare! Ti prometto, in cambio, una vera colazione.

Lungo la strada i venditori ambulanti, tra filari di alberi tutti uguali, cominciano a sistemare i loro banchetti carichi di alcolici, casse di bibite e tavolette di cioccolata; merce un tempo proibita, che ora viene orgogliosamente esibita. Dei ragazzetti, brandendo taniche d’olio, fanno cenni alle auto che passano, mentre alcuni camion riforniscono le vetture che si sono infilate tra le piccole pompe. Il mio autista, senza smettere di parlarmi, guarda la scena leggermente sorpreso, come se non l’avesse già vista decine di volte. Tutto il suo corpo è racchiuso in due occhi scintillanti.

Sotto il sole, la strada è una colata di ferro fuso. Mi chiedo che vada cercando; perché mi ha raccontato tutte quelle cose? È già mezzogiorno e la strada è ancora lunga.

Tutto cambia quando da lontano appare il profilo di un’auto blu: con il volto improvvisamente contratto, sterza bruscamente, le ruote fischiano e i campi si piegano con forza fondendosi con le cime delle montagne all’orizzonte.

Ci ritroviamo sulla corsia opposta, come se stessimo tornando a Tashkent. Incrocio lo sguardo spaventato dei contadini, sorpresi da quell’improvvisa inversione di marcia. Senza rallentare, il tassista si infila in uno sterrato laterale immergendosi nella steppa, tra arbusti e piante selvatiche che ben presto ci avvolgono. Non posso che protestare, urlando. Il motore brontola mentre affonda tra l’erba secca. Dal lunotto vedo volar via, terrorizzate, farfalle, api e cavallette. Davanti a noi la vegetazione si abbassa e gradualmente finisce; allora caccio un urlo:

– Ma sei impazzito? Così ci ammazziamo!

Stiamo puntando diritti verso il letto di un grande fiume. Mi aggrappo alla maniglia mentre l’auto continua a slittare, vedo gli uccelli acquatici irrigidirsi nel cielo e chiudo gli occhi aspettando il primo getto d’acqua.

Improvvisamente la vettura si ferma e torna la calma. Sento il fruscio della corrente sui bordi dell’auto e, più in lontananza, il mormorio del fiume.

Mi volto a guardarlo: sta seduto tranquillo a osservare lo scorrere delle acque, forse cerca di non incrociare il mio sguardo, le sue enormi dita si aggrappano al volante come fosse l’ultimo salvagente rimasto. Mi vien voglia di urlargli e offenderlo, ma ha un’espressione in faccia che mi costringe a tacere: sembra un uomo pronto a qualunque cosa il destino possa offrirgli, uno che teme più la debolezza della paura.

Cerco, con difficoltà, di trattenere il respiro.

– Perché l’hai fatto?

Risponde senza guardarmi:

– Fatto cosa? Volevo solo farti vedere uno dei più famosi fiumi della storia!

Mi sento soffocare: sta mentendo senza curarsi di apparire plausibile!

– Tu volevi nasconderti. Da cosa stai fuggendo?

Con la sua solita calma, prosegue:

– Tu non hai la minima idea di cos’hai davanti agli occhi. Questo non è un fiume qualsiasi. Mica come gli altri fiumi dell’Asia centrale. Questo è il Syr Darya, il padre di tutti i fiumi. Ne avevi mai sentito parlare? Non hai mai letto i testi della tradizione araba? Questo è il Sayhùn, quello che i libri antichi indicano come uno dei fiumi del paradiso. Non puoi non averne sentito parlare. L’altro è il Gyhùn, che scorre parallelo al confine con il Turkmenistan. Per questo li chiamano “i paesi dietro i due fiumi”, lo sapevi?

Ribatto, ostinato:

– Dì la verità, stai fuggendo da qualcosa…

Si volta rosso in viso, con la saliva alla bocca, sbraitando infuriato:

– Chi vedi davanti a te? Un assassino, un fuggiasco, un violentatore, uno che ammazza i bambini, un falsario, uno spacciatore, un truffatore, un terrorista; a chi assomiglio di più, eh?

Sono sconvolto dalla sua rabbia improvvisa: lui non è niente di tutto ciò, è palese, anche se mi inquieta e ne ho un po’ paura.

Apro la portiera e scivolo fuori cercando di non bagnarmi. Cammino un po’ fino al fiume, che scorre tranquillo, tra verdi rive che si estendono a perdita d’occhio. La superficie è interrotta da sporadici riflussi, da cespugli galleggianti su cui volteggiano degli uccelli bianchi. L’onda sospinge resti di tronchi spezzati, blocchi di ghiaccio e brandelli di muschio. Il grido di un uccello che ha appena catturato un pesce, spezza il silenzio; da un pascolo lontano arriva il belato di una pecora.

La nostra auto giace tra la vegetazione e l’acqua, invisibile dall’argine. Nurallàh, è rimasto seduto al suo posto, in silenzio, lasciandomi libero di scegliere se abbandonarlo oppure smettere di far tante domande e proseguire con lui questo viaggio; sento che le cose, tra di noi, si stanno mettendo male: non ho la minima idea di quel che abbia fatto, ma sono sicuro che la macchina da cui siamo fuggiti a folle velocità, era un’auto blu della polizia.

Cerco anch’io di riprendere la calma concentrandomi sul fiume, nella speranza che un po’ della sua frescura mi penetri nelle vene e scivolando con lo sguardo sulla corrente, precipito nel mio passato, ai primi momenti in cui ho iniziato ad avventurarmi tra le asperità della terra, nelle sue città, perso nei dettagli di complicate mappe. Fin da quando ero bambino ho inseguito lettere sconnesse stampate su pagine ingiallite: i quattro fiumi del mondo hanno sempre traboccato abbondanza o ridotto in carestia, come se venissero da lontani giardini e là facessero ritorno. Nel Paradiso, il Nilo è il fiume del miele, l’Eufrate quello del vino, il Gyhùn è il fiume del latte, mentre il Sayhùn è quello dell’acqua. I fiumi mettono in contatto il fremito della nascita e della morte. È un fiume come questo che si è portato via mio padre, un fiume mi ha fatto intravedere, per la prima volta e solo per un istante, l’amore. Un amore subito svanito, che non ho saputo proteggere, un volto lontano che ho amato con passione, in bilico tra sogno e ricordo, una collana di fango e una di foglie di palma, il viaggio verso la riva occidentale, il regno dei morti, dove il verme divora le bende della resurrezione.

Eravamo piccoli sognatori, non avevamo ancora compreso la corruzione nascosta nel seme della creazione. A quell’epoca il Nilo non era che un temibile vecchio, incapace di dispensare la seppur minima saggezza ed è per quello che ha rinunciato a noi, lasciandoci andare avanti, senza avvertirci. Ricordo Faiza al-Tuhàmy, sognante, in un momento di follia: “…e se facessimo l’amore su questa barca, sulle acque agitate del fiume? Potrebbe salvarci dall’aridità, che ci sbriciola l’anima”.

Le sue parole tornano a far bruciare la mia ferita, chiudo e riapro gli occhi e mi ritrovo davanti a questo fiume, senza quel calore tropicale, senza quel rosso cupo che tinge le acque del Nilo, solo una fredda e grigia malinconia.

Nurallàh è in piedi al mio fianco; forse gli ho trasmesso un po’ della mia solitudine, la rabbia è sfumata, sostituita dalla malinconica quiete del fiume. Si volta verso di me:

– Tutti i fiumi sono così. Le loro onde hanno assistito al dispiegarsi dei destini e alla loro tragica fine; su queste sponde arrivarono i mamelucchi, vi scesero i tatari, vi passavano le carovane della seta. Su queste rive brillò la stella del khànqah[3] e, come in sogno, si spense. Sulle sue rovine calarono i Rossi e governarono convinti di non andarsene mai più; lode a colui che eredita il potere sovrano dell’impero.

Ha detto tutto in uno slancio istintivo, come se lo scorrere del fiume fosse parte dello svolgersi del tempo.

Mi volto verso di lui, disorientato da quel suo sorriso sbiadito e demoralizzato, con apprensione gli chiedo:

– Ma tu chi sei, veramente? Chi ti ha messo sulla mia strada?

Con calma e con quel suo solito sorriso, mi risponde:

– E secondo te, chi sarei? Sono solo uno dei servi di Dio, una delle creature della terra dietro i due fiumi. Guarda che se il tempo avesse cambiato giro e i piatti della bilancia fossero stati raddrizzati, sarei potuto essere anch’io un mamelucco e governare il tuo paese. Solo la sfortuna mi ha messo a una stazione dei taxi a fare l’autista, perso sull’asfalto.

Guardo l’azzurro sbiadito dei suoi occhi e il viso arrossato, vedo file di bassi mamelucchi che attraversano il fiume, nel freddo di un tempo lontano; i loro visi impalliditi, la pelle livida sotto la stretta delle corde; i mercanti di schiavi in testa e le guardie mercenarie nelle retrovie, a vibrar colpi di frusta su chiunque osasse attardarsi. Attraversarono steppe e pianure, in cerca di nuovi mercati e ogni volta era una promessa di gloria, o di morte. Solo chi venne liberato da questo dannato viaggio, poté tentare la battaglia del riscatto, trovando, sulle rive del Nilo, il paradiso promesso del potere; chi cadde, non ebbe altra sepoltura che le viscere di belve carnivore. Quando tornò a sorgere la stella della buona sorte, illuminò scintillanti corone sulle loro teste; montarono, con fierezza, i migliori cavalli di razza, amarono giovani donne, governando con durezza sulle spalle degli uomini. Spesero le loro esistenze per riscattarsi dal disprezzo subìto quando attraversarono il fiume, quando la corda dei mercanti di schiavi era ancora attorno al loro collo e per tutta la vita indossarono abiti dagli alti colletti, per nasconderne ogni possibile traccia.

Nurallàh si allunga, toccandomi con gentilezza sulla spalla:

– Andiamo.

Rispondo con tono puerile:

– Non mi muovo di qua fino a quando non mi dici esattamente chi sei.

Scoppia a ridere:

– Hai avuto paura, eh? Credevi che fossi veramente un mamelucco? Hai avuto paura che fossi uno di quelli che, con parole semplici, ti raccontano tutto della loro anima? Andiamo, dai, che abbiamo ancora un sacco di strada da fare.

Lo seguo, le sue parole, senza convincermi, mi hanno calmato, riprendo posto al suo fianco e lo osservo mentre tenta di rimettere in moto l’auto, per uscire dalla trappola verde e vischiosa in cui siamo impantanati.

– Eri un ambasciatore, un ministro, un uomo d’affari?

– Ma fammi il piacere…

Tace un attimo, cercando di trovare le parole giuste:

– Diciamo… che ho avuto l’opportunità di partecipare a numerose occasioni ufficiali… ma è stato tanto tempo fa, quando tutto aveva ancora un senso. Adesso i tempi sono cambiati, ogni cosa ha perso di valore e anch’io, probabilmente… Sono solo ricordi senza importanza… ma perché continui a farmi queste domande? Io non ti ho mica chiesto perché sei venuto qua e cosa devi fare a Samarcanda. Facciamola finita… e godiamoci il viaggio!

– E i poliziotti, allora? Perché cercavi di scappare?

– Perché scusa, tu conosci qualcuno a cui piacciano gli sbirri? Figurati a quelli come me, autisti di taxi. Puoi scommetterci che anche a casa tua, i tassisti, quando li vedono, vanno a nascondersi sotto i ponti. La sai quella del bambino che va da sua madre a chiederle se anche le puttane facciano figli? E come no? – gli dice lei – E sennò da dove verrebbero fuori tutti quelli della Stradale? Guarda che è gente corrotta, prendono bustarelle per abitudine; mi avrebbero fermato, poi avrebbero trovato qualcosa che non va nella macchina e me l’avrebbero fatta pagare. Dai che lo sai anche tu come vanno queste cose!

Il tono forte di quelle parole mi ha azzittito. L’auto borbotta, mentre tentiamo di uscire dal greto del fiume e ci allontaniamo dal Syr Darya, pronto a inghiottirci. Miracolosamente raggiungiamo la strada asfaltata e Nurallàh si guarda in giro, per assicurarsi che non ci sia traccia della macchina blu. Tornando a correre:

– Non ti dimenticare che ti ho promesso una bella mangiata… e io sono di parola.

A quanto pare non è più preoccupato per l’inseguimento. Ci attraversa la strada una fila di ragazze con i loro abiti colorati: sulla testa portano delle ceste di fiori di cotone scintillante. Le osservo. Non so come, ma le donne diventano stranamente belle quando vanno a lavorare nei campi: gli resta sempre qualcosa attaccato ai capelli, ai vestiti, un ciuffo di paglia, frammenti di fiori, qualche foglia di quercia, come stelle cadute, come piccole pennellate di passione; come se il loro corpo, immerso nella vegetazione, perdesse la sua antica pelle, riacquistando la bellezza dell’essere in fiore.

Nurallàh rallenta, lasciandomi osservare, incantato.

– Eccolo lì finalmente! Ecco il posto che stavo cercando.

Ferma la macchina sul bordo della strada, di fronte a una baracca di legno e malta. Sul davanti, sparpagliati, delle specie di letti. Uno stagno poco profondo, su cui galleggiano qua e là dei gigli d’acqua, circonda il ristorante e per raggiungerlo dobbiamo attraversare uno stretto ponticello di legno. Ci sistemiamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivi da mangiare.

Si avvicina un donnone enorme, appoggia un grande vassoio di legno in mezzo a noi due e attacca a chiacchierare e scherzare con Nurallàh, tenendomi d’occhio: è chiaro che stanno parlando di me, lo so, perché sento la parola “Egitto”, in arabo, ripetersi di continuo.

So già cosa mi aspetta da mangiare: carne piena zeppa di grasso.

Nel bel mezzo del locale c’è un lungo tavolone con tantissime sedie e tutti si danno un gran da fare per apparecchiarlo. Pare che aspettino molti ospiti. La donna ci mette davanti del riso di Bukhara, giallo come l’ambra, delle scodelle di brodo, dei pezzi di carne coperti da una manciata di prezzemolo ed enormi pagnotte dure. Ci chiede se vogliamo anche un po’ di vodka, ma preferiamo accontentarci del tè, una specie di acqua torbida che si beve senza zucchero.

Dalla strada giungono degli schiamazzi e vedo Nurallàh, con un pezzo di carne in mano, sbiancare. Tre auto inchiodano davanti al ristorante, scende un gran numero di ragazzi e ragazze e Nurallàh, trangugiando la carne, torna sereno:

– È un matrimonio.

Da una delle macchine scende la sposa, in bianco, senza velo e al suo fianco lo sposo, in abito nero; guardo Nurallàh: l’ansia dell’inseguimento è svanita, ha preso il suo posto, adesso, uno strano interesse per la scena. Con avidità scruta le ragazze con le loro acconciature elaborate, mentre saltellano attorno agli sposi; noto che le sue labbra, vigorose e lucide per il grasso della carne, tremano, seguendo i piccoli seni vibranti delle adolescenti e le loro vesti che si sollevano, mettendone in mostra le gambe bianche.

Il locale viene improvvisamente invaso dal delirio dei sensi irradiato dagli sposi, lo sporco ristorante si trasforma in un luogo di festa, tutti gli invitati prendono posto al tavolo e i suonatori si sistemano vicino allo stagno, attaccando a suonare con forza. I più giovani si alzano da tavola, intrecciano le braccia e iniziano a saltellare. Abbandoniamo il nostro cibo e cominciamo a battere le mani al loro ritmo. Il sole comincia a scaldare, sensazioni infantili sgorgano dall’oscurità del mio profondo, risvegliando un desiderio urgente di ballare e saltare con loro. Cantano come colpi di vento danzando leggeri come gli uccelli. Nurallàh mi sfida:

– Perché non ti alzi e vai a ballare con loro?

– E chi ti dice che sia capace?

– Non importa. Alzati, salta, immagina di essere un uccellino che sta imparando a volare, basta che ti lasci prendere dall’allegria. Guarda quella come è bella, perché non vai da lei e la inviti a ballare?

Mi indica una donna seduta davanti agli sposi, nonostante la mezza età conserva una certa bellezza, la pelle morbida e liscia, i seni sodi, sorride con dolcezza, mostrando un dente d’oro. Nurallàh continua a parlare, ma è chiaro che ha già perso il controllo:

– Guardala, come si muove… sembra abituata al piacere, deve essere una che ci sa fare. Non balla, ma il delirio che la circonda l’ha già catturata. Non ti piace?

Protesto:

– Ma che dici? Ma se non ci conosciamo nemmeno?

– E chi se ne frega? Questo è un matrimonio: nella vita normale, prima ci si conosce e poi ci si tocca, ma ai matrimoni, prima ci si tocca e poi ci si presenta.

Faccio un gesto di rifiuto e lui, pulendosi la bocca con la manica, si alza. Adesso sembra ancora più grosso di quanto me lo immaginassi. Si avvicina alla tavolata, allunga una mano, afferra un bicchiere e in un solo colpo lo tracanna. Da come avvampa il suo viso, deduco fosse vodka. Si avvicina alla donna e le porge una mano. Lei, immobile e sorpresa, guarda gli sposi, lo sposo in particolare e poi gira la testa imbarazzata, nascondendosi nella spalla del marito. Nurallàh, enorme e immobile, le occupa l’orizzonte, la star di un porno: le labbra affamate appena socchiuse, la barba brillante e un’incontenibile pancia che sembra voler strappare i bottoni della camicia.

La donna, visibilmente a disagio, ride, sono certo che sta cercando di ignorare l’odore di maschio che le invade le narici: è chiaro che la natura selvatica del mio autista, in questo momento, risalti, in mezzo alla gente in abito da festa, le barbe rifatte e le colonie da quattro soldi. Nurallàh dice qualcosa e tutti scoppiano a ridere: gli uomini con tono rauco, le donne chinando la testa e scrollando le spalle. Lo sposo gli risponde qualcosa, mentre lui è ancora immobile, con la mano tesa. Alla fine la donna tende timidamente le punte delle dita, lui l’afferra saldamente, la trascina con forza in mezzo alla sala, urla qualcosa ai suonatori e quelli cambiano il ritmo in un motivo assordante. Tenendola stretta, gira come un orso con la sua preda, mentre lei ride di gioia, scoprendosi leggera fin quasi a non toccar più terra. Persa in quel delirio di leggerezza su cui la gravità non ha più potere, teme che la fatica presto la assalga, al contrario, l’energia sgorga a poco a poco, risalendo gli anni della sua vita. Il resto degli invitati si ferma e fa cerchio attorno a loro, battendo le mani e anche la sposa, abbandonata la timidezza iniziale, si unisce alla festa.

Una mano si allunga verso di me e mi porge un bicchiere, un bel volto la segue a ruota: deve essere una delle amiche della sposa. In testa, porta un cappellino colorato da cui pendono delle perline, mentre sul vestito ricamato con fili d’argento, indossa una cintura dalla vita stretta che ne esalta la siluette. Mi fa un sorriso, tra le labbra socchiuse brilla il riflesso di un dente d’oro. Ha gli occhi grandi, da gatta. Afferro il bicchiere e lei mi fa il gesto di mandarlo giù in un colpo solo. Eseguo; sento che la bevanda invece di scendere verso lo stomaco, mi sale dritta in testa. La sua risata mi riempie di calore, mi porge la mano e io mi affido a lei. Nurallàh sta ancora pestando come un orso bastonato, mentre la donna, tra le sue braccia, è ormai leggera come una piuma.

Aggrappato alla mano della ragazza, sento che la sua bellezza mi penetra dentro e mi metto anch’io a saltare. La musica è assordante e tutti gli altri si uniscono a noi, anche gli sposi, uomini e donne che si abbracciano con passione e gioia. Stringo i fianchi della donna della mia vita, mi appoggio a lei e sento il profumo di fresco del suo corpo: lavanda e camomilla. Qualcuno mi passa un altro bicchiere e io me lo scolo; mi allungano qualcosa da mangiare e, senza smettere di ballare, la ingoio. Ballo con un’altra ragazza, poi un po’ con la sposa, ma alla fine torno alla mia donna e mi stringo a lei, perché nessuno me la porti via. Sono circondato da visi arrossati e ansimanti; qualcuno, a gesti, mi chiede chi sono:

– Sono un musulmano.

Girano, saltano, ballano urlando:

– Benvenuto! Benvenuto tra noi!

Improvvisamente la musica si ferma e la ragazza, sfiorandomi con le labbra una guancia, come un passerotto torna al suo posto; un anziano si è alzato in piedi e sta tenendo un discorso commosso. Non capisco una parola, ma colgo la melodia: è un’interminabile poesia. Applaudono, ridono e a ogni strofa si scambiano un brindisi; urlo assieme a loro, ubriaco di parole e alzo il bicchiere, anche se non so più cosa stia bevendo: vodka, succo di frutta o latte di cavalla.

La ragazza è tornata e mi porta un po’ in disparte. In un inglese stentato, mi sussurra all’orecchio:

– Il tuo amico… dov’è?… Non si fa così…

Mi guardo in giro allarmato. È vero, Nurallàh è sparito. Mi metto a cercare tra i volti: anche la donna che ballava con lui non c’è più. Preoccupato, mi volto verso la ragazza che mi sta indicando lo sposo:

– È sua madre.

Resosi conto di quel che sta succedendo, lo sposo si allontana un po’ dalla moglie e inizia a cercare negli angoli del locale; poi si dirige verso due amici e parla concitatamente con loro, mentre lo sguardo della sposa lo segue, allarmato. I due ragazzi sono montagne di muscoli e lui gli assomiglia moltissimo. Nurallàh è cinto d’assedio da un immane pericolo, ma dove lo vado a scovare?

Lascio la ragazza e barcollando verso il retro del portichetto, entro nella cucina, invasa dai vapori che salgono dagli enormi pentoloni: tutto è ricoperto da uno strato di fuliggine, l’aria è impregnata di grasso. L’enorme proprietaria del ristorante mi sorride, inutilmente tento di spiegarle che sto cercando il mio amico, usando invano l’inglese e l’arabo. Lei scoppia in una fragorosa risata e scoperchiando per me un pentolone di brodo e riso di Bukhara, insiste perché assaggi; io fuggo, veloce, dal portico.

Il baccano della festa si sta pian piano attenuando. Esco sul retro e mi addentro nella macchia selvatica: solo uno steccato separa il portico dai campi sconfinati. Se comincio a chiamarlo mi sentiranno tutti. Il brusio continua a diminuire: devo trovarlo prima che cali il silenzio. Mi gira la testa, sto barcollando, sento che sto per perdere il controllo; poi mi giungono dei rumori da dietro i cespugli; sussurro con cautela:

– Per Dio, Nurallàh. Vieni fuori di lì, prima che ti capiti una disgrazia!

Sento il suono di un ramo spezzato – saranno i miei passi o qualcos’altro? – poi il verso rauco di un animale che ringhia, i sospiri di una donna ubriaca, scosto un po’ i rami e me li ritrovo davanti. La madre dello sposo distesa a terra, le gambe sollevate e lui davanti, inginocchiato, che ansima con tale foga da non sentire che lo sto chiamando. Sono impietrito. Le voci alle mie spalle cessano definitivamente e sento solo quei gemiti affannati; i capelli rossi della donna sono intrecciati con il giallo dei fiori; le dita conficcate nella schiena di lui, cercando di estrarre ogni goccia di piacere dal suo enorme corpo. Non riesco a immaginarmi come possano essersi posseduti così in fretta, in mezzo alla folla.

Nurallàh è un essere umano o il leggendario Minotauro, disceso sulla terra per soddisfare l’eterno desiderio? La sua schiena si alza e si abbassa davanti a me; è ancora vestito, ma non sono più abiti: sono pelli incollate al corpo. Il suo fascino è così seducente, che ogni donna desidera toccarlo, gli si concedono in cambio di un po’ di calore e consolazione.

Santo Dio! Ma è mai possibile un tale miscuglio di piacere e dolore?

Nurallàh la tiene schiacciata a terra. Uno strano ardore si sprigiona dalle gambe sollevate di lei. I loro corpi, seminascosti, emanano scintille che mi fanno fremere ancor più.

Ho mai provato, in vita mia, nei momenti di intimità, un simile piacere? Ho mai oltrepassato il suo lato oscuro? Ora sento solo nostalgia e tristezza, tutte quelle indomabili forze a cui non ho mai dato sfogo… Fin dal concepimento, le mie cellule si sono sempre e solo preoccupate dell’estinzione finale.

Come paralizzato, borbotto tra i denti:

– Per Dio, Nurallàh, fermati!

In realtà non vorrei che lo facesse: è come se stesse giacendo con tutte le grigie figure femminili che hanno attraversato la mia vita, come se in mia vece, svolgesse un servizio rinviato nel tempo.

Il vento si placa, gli uccelli si compattano allo zenit e il dente d’oro, nella bocca della donna, brilla alla luce del sole, come se solo ora avesse raggiunto la piena soddisfazione.

Riprendo coscienza anch’io e le voci che mi circondano, sembrano giungere da un altro mondo: le donne, spaventate, piangono, mentre gli uomini ringhiano di rabbia. Anche la donna di Nurallàh si riprende e abbassa le gambe, cercando di spingerlo via. In pochi istanti, da femmina ebbra di passione si è trasformata in debole vittima violata e invano tenta di scacciare il toro inginocchiato su di lei.

Hanno entrambi ottenuto quel che cercavano.

Nurallàh, offuscato dall’alcool e prossimo all’orgasmo, sembra non aver ancora capito che le urla di piacere si sono ormai trasformate in grida di rifiuto, in richiesta di soccorso e si volta lentamente, cercando di concludere con quella donna, che ora, invece, tenta di divincolarsi.

Arriva il figlio, seguito dai suoi due amici, che mi spingono da parte e si avventano su Nurallàh. Lo colpiscono in faccia, lo prendono a calci nei fianchi e lui bramisce come un orso, cercando invano di rivestirsi e mettersi in piedi per affrontarli. Provo a dividerli, ma uno di loro mi sferra un violento calcio e io urlo, sentendo il dolore che mi si propaga per il corpo. Vedo Nurallàh che, nonostante i colpi, è riuscito a rialzarsi e si sta aggiustando i pantaloni, mentre la donna scappa, finalmente libera dalla sua presa. Mugghiando come un toro, Nurallàh cerca di respingere gli attacchi, ma gli stanno tutti attorno e lo colpiscono, allora mi rialzo per entrare nella mischia e mettermi al suo fianco.

– Sparisci! O ti faranno a pezzi!

Non ho nessuna intenzione di abbandonarlo, improvvisamente sento di non poter far altro. I calci e i pugni che mi arrivano da ogni parte mi sono ormai indifferenti e Nurallàh non smette di girare in tondo, cercando di proteggermi, mentre i colpi si fanno sempre più violenti.

Il cielo, oscillando, comincia ad allontanarsi. Prima di crollare definitivamente, vedo arrivare altri colpi, poi vedo i loro volti e mi aggrappo invano alle loro gambe e agli arbusti della steppa; in bocca ho il sapore umido e appiccicoso della polvere. Dov’è il cielo? Dov’è Nurallàh? Dov’è finita l’allegria della sbronza?

Mohamed Mansi Qandil (Mahalla el Kubra, Egitto, 1946) è uno tra gli scrittori più prolifici e di talento nel panorama letterario egiziano contemporaneo. Autore assai versatile, nonostante la laurea in medicina, si è sempre dedicato alla professione di scrittore fin dal 1970 – anno in cui gli è stato conferito il “Premio del Club del Racconto” – cimentandosi in vari generi letterari, come i racconti, i romanzi, le storie per bambini, i saggi, oltre alle numerose sceneggiature per il cinema e la televisione. Attualmente risiede in Kuwait, dove scrive per il mensile di cultura “Al ‘Arabi”. Nel dicembre 2006, la Fondazione Sawiris per la Letteratura Egiziana ha conferito al suo Luna su Samarcanda il prestigioso Premio per il Miglior Romanzo dell’Anno. Nel 2009 ne è uscita la traduzione inglese, dal titolo Moon over Samarqand, per l’American University in Cairo Press[4]. Nel 2010 il suo A cluody day on the West Side[5] ha fatto parte della short list dell’Arabic Booker[6]. Sul numero 1083 della rivista “Internazionale”, del 24 dicembre 2014, dedicato agli scrittori egiziani, è stata pubblicata la traduzione del racconto di Qandil La partita [trad. C. D’Ozio].


[1] Epiteto riferito ad Ali Ibn Abi Tàlib, cugino e genero del Profeta Muhammad.

[2] Piatto tipico egiziano a base di una purea di fave stufate.

[3] La khànqah (lett. ospizio), era un complesso di edifici all’interno del quale si studiava la religione musulmana secondo le quattro scuole giuridiche canoniche; questi ospizi vennero per la prima volta costruiti sotto la dinastia di origine turca dei Selgiuchidi (1038-1194) e continuarono a diffondersi anche sotto gli Ayyubidi (1171-1250), i Mamelucchi (1250-1517) e fino agli Ottomani (1517-1918), che però ne mutarono il nome chiamandole tekìya (lett. ricovero, in turco).

[4] https://www.amazon.com/Samarqand-Modern-Arabic-Literature-Hardcover/dp/9774161890

[5] https://www.amazon.com/Cloudy-Western-Middle-Literature-Translation/dp/0815611099

[6] https://arablit.org/2010/03/02/arabic-booker-announcement-today-meanwhile-mini-reviews/

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