Al-Najdi – Storia di un marinaio (estratto) di Taleb Alrefai

Traduzione dall’arabo di Antonino d’Esposito

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11:30

“Vieni!”

Mi ricordo, avrò avuto cinque anni il giorno in cui sentii il mare chiamarmi per la prima volta. Da bambino sedevo sull’uscio della nostra vecchia abitazione nel quartiere di Sharq; una stradina polverosa separava casa nostra dalla costa. Non mi stancavo di guardare le barche, erano dei bum[1]che arrendevolmente adagiavano il fianco sulla sabbia della spiaggia, e, dietro di essi, il mare. Una strana domanda già mi frullava in testa: che cosa faceva il mare a queste grosse navi tanto che nel suo abbraccio diventavano minuscole?

Intanto il mare continuava a chiamarmi:

“Vieni!”

Il sole affaticato si tuffava a dormire nel profondo del mare e il cielo cominciava a disseminare la polvere dell’oscurità sui muri del nostro cortile e nelle stanze di casa. Mia sorella Maryam sedeva nel liwan, il patio, intenta a pulire i fanali dalle incrostazioni di fuliggine; avvolgeva uno straccio attorno alla piccola mano e l’introduceva nell’apertura tra i vetri della lanterna per sgrassarla dall’interno. Accanto a lei, mia madre Fatima poteva sembrare distratta, ma, guardinga, seguiva i movimenti della figlia. Le lasciai per raggiungere l’altra mia sorella, Latifa, nel cortile della cucina; amavo il riqaq caldo tra le sue mani quando staccava la pagnottella sottile direttamente dalla superficie incandescente della tawa[2]. Per raffreddarla, prima di porgermela, la faceva volteggiare in aria. Mi sorrise e disse:

“Torna tra un po’ e troverai il tuo panino.”

Non avevo detto a nessuno che il mare mi chiamava. Approfittai del fatto che mia madre e mia sorella non badassero a me e sgattaiolai fuori di casa. Nel mentre, si ascoltava la voce del muezzin appellare alla preghiera del tramonto, il buio piombava giù dal cielo. Poiché gli uomini temevano di trovarselo di fronte, smettevano di lavorare e si affrettavano alla moschea per invocare e supplicare. Il vicolo davanti casa nostra si svuotava dei passanti, fatta eccezione per qualche ragazzo che correva verso il luogo di culto. Io non avevo paura del buio. Quando attraversai la strada polverosa, i miei piedi nudi affondarono nella sabbia della spiaggia. In quel preciso istante udii il richiamo del mare con maggiore chiarezza:

“Vieni!”

Mi sedetti sulla sabbia umida a guardare lontano, lì dove il mare incontrava il cielo. Quanto mi sarebbe piaciuto poter camminare sull’acqua; mi immaginavo passeggiare fino a largo fino a penetrare tra mare e cielo per avere la testa tra le nuvole e i piedi in acqua. Rimasi steso sull’arena bagnata senza sapere come la brezza fosse giunta fino a me e come il buio mi avesse chiuso gli occhi.

“Ali, Ali!”

Le grida reiterate lacerarono il velo del mio sonno; mi accorsi del freddo della sabbia della spiaggia, attaccata umida alle mie costole.

“Ali!”

Spalancai gli occhi nell’oscurità, il fragore delle onde si precipitò a riempirmi le orecchie. Il sonno mi abbandonò.

“Ali!” distinsi la voce di mio padre che mi chiamava.

“Sì!”

Scorsi due figure indistinte immerse nel buio: mio padre reggeva una lanterna, al suo fianco c’era mio fratello maggiore, Ibrahim.

“Che Dio ti perdoni!”, fece Ibrahim. “È un’ora che ti stiamo cercando.”

Si avvicinarono a me e mi alzai per trovare riparo tra i risvolti della dishdasha di papà. Lui passò la lanterna ad Ibrahim e mi strinse al petto baciandomi:

“Figlio mio!”

Allora ebbi paura, capii di aver commesso un errore.

“Ah, se uno dei figli del nostro vicino al-Fudala non ti avesse visto prendere la direzione del mare,” aggiunse mio fratello.

“Non ti azzardare a rifarlo,” mi rimproverò papà e poi: “Il mare ti prenderà e annegherai.”

“Non affogherò!”

Mio padre si fermò; accanto a lui, Ibrahim teneva alta la luce. Lo guardai in faccia e dissi:

“Il mare è mio amico!”

Dietro di me le onde ripetevano parole incomprensibili.

“Il mare non ha amici!”, sentenziò mio padre con un tono ammantato di tristezza. Evitai di chiedergli perché il mare non avesse amici.

I ricordi popolano dei miei pensieri. Allora avevo cinque anni e da quella notte più di sessantacinque anni erano passati. Che Dio abbia misericordia di te, papà. Se solo fossi vissuto abbastanza, ti saresti assicurato che tuo figlio avrebbe stretto amicizia col mare e che il mare lo avrebbe ricambiato e gli avrebbe concesso vita e gloria. Eppure, papà, quel richiamo segreto non ha smesso di possedermi. Padre mio, tuo figlio è nato marinaio e il mare è la sola qibla[3] che conosce per ogni sua destinazione.

Papà, tra le tue mani mi sono plasmato come marinaio e capitano, come nawkhidha. Ho cavalcato il mare prima ancora di salire a bordo della tua nave, di stare al tuo fianco, il nawkhidha. Sono diventato comandante ancora giovane e per questo i marinai e la gente del Kuwait avevano preso l’abitudine di chiamarmi “il capitano.”

Papà, sono uno squalo che muore nel momento in cui viene separato dal mare. Da quando l’ho lasciato, la vita mi ha abbandonato. La solitudine e la desolazione della terra ferma continuano a rodermi l’anima mentre cerco rifugio tra le braccia del mare. Nella sua sconfinata dimora ho trascorso un’esistenza; in molte occasioni è stato spietato con me, ma non mi ha mai deluso.

Papà, avresti mai immaginato che un giorno tra mare e uomo potesse esserci amicizia? E tra il mare e una goccia? Perché io sono una goccia nel mare, papà.


[1] Velieri tipici del Golfo Persico, erano imbarcazioni di grossa taglia, con due alberi a vela latina, una lunga prua e una poppa sfilata. Simbolo del Kuwait, figura anche nello stemma dello stato; nella capitale un grosso bum troneggia all’ingresso del museo marittimo.

[2] Tipica piastra kuwaitiana su cui si cuoce il pane riqaq.

[3] Direzione della Ka’ba verso cui si rivolge ogni musulmano quando prega.

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