Fonte: icibeyrouth
Traduzione dal francese di Antonino d’Esposito
Si deve leggere come un effetto della crisi identitaria che conoscono le società del Levante da diversi anni a questa parte? Forse, ma la sua storia contemporanea, e cioè il periodo che comprende il XIX e il XX secolo, è oggetto di un rinato interesse che si traduce, tra l’altro, in una produzione letteraria sia in lingua araba che francese o inglese.
A titolo di esempio, citeremo solo uscite recenti: il pittoresco Bon vent Bonaparte di Ala Hlehel (Actes Sud, 2019), che racconta l’assedio di San Giovanni d’Acri delle truppe del futuro imperatore dei Francesi, pretesto per bellissimi dialoghi immaginari tra lui e il pascià di Akka, il sanguinario al-Jazzar; il tragico e forte Oiseau bleu d’Erzeroum di Ian Manook (Albin Michel, 2021), che narra le peregrinazioni di due sorelle armene la cui famiglia è stata decimata dai Turchi, durante il genocidio del 1915; Le Levantin di René Otayek (Victor Le Brun, 2021), biografia romanzata di Antoine Catafago, personaggio pittoresco che, presso Jazzar e i suoi successori, giocò un ruolo importante ad Acri e nel Levante all’inizio del XIX secolo. Come molti altri della stessa categoria, questi tre romanzi storici hanno in comune il fatto di focalizzarsi su un periodo cruciale per il Levante: quello del declino, della fine dell’Impero Ottomano e degli albori dell’imperialismo europeo.
L’ultimo in linea temporale di questi romanzi ci viene proposto da Youssef Mouawad, si tratta di Haiym o il destino di chi non è uguale. Dietro a un titolo un po’ enigmatico, si cela la biografia romanzata, ma basata su solide fonti storiche e letterarie, di Haiym Farhi, l’uomo che gestì le finanze del pachalik di Akka per decenni, al servizio prima di Jazzar, poi del successore Suleyman e infine del pascià Abdallah. Perché “chi non è uguale”? Si fa riferimento ai dhimmi, cristiani ed ebrei, che godevano della protezione del sultano, attraverso il pagamento della jizya e l’obbligo di rispettare un certo numero di vincoli fisici e simbolici, indicatori del loro status inferiore rispetto ai musulmani. Un trattamento che, tuttavia, non impediva ad alcuni di loro di accedere a posti di responsabilità all’interno dell’amministrazione ottomana, tenendo conto che la loro lealtà doveva essere cristallina. È questo il caso di Haiym Farhi, rampollo di una famiglia ebrea di Damasco, un sarraf (banchiere) che veniva chiamato con deferenza muallem, maestro, per rispetto al suo sapere e all’influenza che aveva nel serraglio.
Uomo rispettato, talvolta temuto, ma sempre alla mercé dei capricci del pascià e dei suoi accessi di crudeltà, che scopriamo lungo il racconto. Serve Jazzar con lealtà e ossequiosità – la sua sopravvivenza e quella della sua famiglia ne dipendono, ma ciò non impedisce al signore di far mutilare selvaggiamente il suo volto in uno dei tanti attacchi di paranoia di cui soffriva. Haiym può permettersi di dare la propria opinione sulla condotta del pachalik, ma senza mai oltrepassare i limiti fissati dal pascià, altrimenti, attenzione! È proprio in uno di questi faccia a faccia, sempre tesi, spesso sottili, che si svela il ‘genio’ dell’essere dhimmi: alla brutalità del tiranno, costantemente pronto alla minaccia se la verità non gli piace, l’ebreo oppone il senso della diplomazia, l’astuzia e l’adulazione, il dribling diremmo oggi. Non prendere il tiranno di petto, questione di vita o di morte! E il dhimmi ha la sua rivincita, seppur effimera, quando, alla fine di un lungo scambio, il tiranno sospira rassegnato: “Non avrò mai l’ultima parola con voi!”
La morte di Jazzar nel 1804 non tocca il destino di Farhi, che passa al servizio del successore Suleyman pascià, conosciuto con il soprannome di adil (il giusto), e poi di Abdallah, personaggio stravagante e imprevedibile, che Farhi aiuterà ad impossessarsi del pachalik. Mal per lui, il lettore saprà poi il perché, leggendo questo romanzo che oscilla continuamente tra la cronaca storica e la finzione.
Benché l’azione si svolga all’inizio del XIX secolo, Haiym o il destino di chi non è uguale ha risonanze contemporanee. Infatti, un secondo livello di lettura introduce una riflessione sul potere politico e la figura del despota nel Levante e, più generalmente, nelle società arabe. Certo, i tiranni di oggi esercitano il loro potere all’interno di istituzioni fatte a misura loro, ma l’arbitrarietà e la brutalità che dimostrano non sono per niente da meno a quelle di Jazzar, che qui appare come il prototipo del despota orientale, come direbbe il sociologo Max Weber. Non sembra forse sentire un despota contemporaneo quando Jazzar, avvertendo la fine arrivare, confida a Farhi il segreto della longevità del suo potere: “Se sono sopravvissuto, è perché ero più veloce dei miei avversari. Più veloce anche degli amici, sono loro che temo di più […] Ho sempre regolato i conti con la spada, la violenza che mi precede e mi segue.” Colpire in anticipo e senza pietà per annichilire ogni minaccia, anche immaginaria. Gli attuali regimi arabi ragionano forse diversamente, così ossessionati dall’essere ribaltati dalla strada o da un colpo di stato? Come Jazzar, sono condannati a restare vigili, a dormire con un occhio aperto.
Ma la lezione non è tutta qui. Vale anche per i sudditi del despota, che devono temere costantemente la sua ira e, per scamparvi, hanno una solo via: “farsi piccoli. Gli impazienti, gli impetuosi, i franchi” non possono sopravvivere in “un mondo in cui il capriccio del signore è la regola.” Ahinoi, Farhi lo imparerà a proprie spese. Il despota ha paura e si disfa di questo sentimento, o crede di farlo, istillandolo nei suoi sudditi. Senza più legittimità, regna col terrore che ispira negli altri, l’unico modo di governare che conosca, e prova solo a sottometterli. Ogni somiglianza con i nostri poteri mediorientali attuali è del tutto fortuita e involontaria…
Ci sarebbero tante altre cose da dire su questo romanzo molto piacevole da leggere, nonostante qualche anacronismo semantico: la rivalità tra commercianti francesi e di Acri che serve da sfondo alla narrazione, l’urto delle mire europee sul Levante, il risveglio del fondamentalismo musulmano… Citeremo solo un’altra frase, un’altra lezione di politica contemporanea: in Oriente quando “non si è padroni, si è schiavi.” Non aggiungo altro.
René Otayek
Rispondi