Traduzione dall’arabo a cura di Antonino d’Esposito

La storia di Walid Dahman
Domattina Walid Dahman arriverà nella striscia di Gaza. Sua madre non crede alla notizia. La considera una diceria, al pari del ritorno dei Palestinesi in patria.
Tutte le mattine si chiede: “Mio figlio tornerà, potrò vederlo prima di morire? Gli racconterò le cose che gli ho tenuto nascosto? Mi racconterà quello che non so?!”
Sono trentotto anni che si interroga e che la domanda si ripropone, presta ascolto al mormorio del vento che le sussurra indietro l’eco della domanda, raccoglie la sua delusione mentre ripiega le lenzuola. Alla sera, s’addormenta col disinganno e al mattino si ridesta con lo stesso interrogativo. Quando Walid le telefonò, a stento sentì la sua voce dirle da Londra: “Vengo a Gaza, mamma… torno al paese.”
Non gli credé, ma farneticò febbricitante rabbrividendo all’improvviso: “E cosa diavolo dovrei risponderti dopo tutto questo tempo?!”
Walid arriverà verso le nove. La sua visita non è più un’idea o una mera possibilità. Ha comprato il biglietto del volo per Tel Aviv, ha scelto una data perché giungesse da sua madre proprio in quel preciso momento, per fare colazione assieme. Si era detto che da trentotto anni lei stava lì a prepararla, era venuto il tempo di consumarla quella colazione.
Prese la valigia grande, si sistemò uno zainetto sulla spalla sinistra e mise il passaporto britannico nel taschino della camicia, direttamente sul cuore. Si chiuse la porta alle spalle e s’incamminò.
Walid incontrerà sua madre in un appartamento in cui lui non ha mai messo piede prima e che chiamano “l’appartamento dell’ultimo scapolo”; ha due stanze di cui una, che si affaccia su due strade, gli è stata riservata per la sua permanenza. La camera è stata arredata con un letto di legno, un ampio divano e una scrivania modesta che Walid userà parecchio. Navigherà tra agenzie di stampa su internet, darà un occhio alla posta elettronica e risponderà alla corrispondenza. Continuerà a scrivere il suo quarto romanzo, “Il paese delle ombre”, la maggior parte dei particolari di questo libro dipendono dal suo viaggio.
Walid non sa che la mattina si sveglierà con la luce di un sole di seconda mano che, cioè, sarà già passata attraverso l’insediamento ebraico di Dugit. Gradatamente, capirà lo strano fenomeno e farà così come fanno gli altri: risciacquerà il sole con le speranze, lo affrancherà dalle tenebre delle possibilità cosicché resterà pulito per tutta la giornata. Ma quando il sole s’allontanerà sul farsi della sera, gli abitanti dell’insediamento di Nisanit se ne impadroniranno prima che il tramonto lo faccia scomparire. Come gli altri, Walid sentirà delle voci che ne spezzano la magia dei raggi dietro un orizzonte fatto di fili spinati e caserme militari da cui svettano torrette di controllo. Di mattina, il sole spunterà già usato.
L’appartamento “dell’ultimo scapolo” si trova al quarto piano di un palazzo costruito su una linea immaginaria che separa i due accampamenti di Beit Lahiya e Jabalya e fa in modo che appartenga a due stati. L’edificio comprende sette appartamenti; lo spazio del tetto è occupato da un piccolo allevamento di pollame: due grosse gabbie con dieci coppie di colombi locali e altre quattro più voluminose per venti galline di cui non si conosce la provenienza.
Tra le altre cose che Walid non sa, c’è il fatto che l’immobile fu costruito da suo cugino Nasreddin Dahman all’epoca del boom economico negli anni ’70 del secolo scorso. Al tempo, Israele, dai giovani di Gaza, ragazzi con gli avambracci abbronzati dal sole di mezzogiorno e cosparsi di sale dalla brezza del mare, comprò anni e anni di vita; un fiume di puro sudore prese a scorrere da Gaza e con esso irrigò i campi, impastò il cemento degli insediamenti, lavò le strade, ne ricavò le migliori bevande; si diceva che lo avesse trasformato in acqua da bere e nutrimento.
Nasreddin era un adolescente alto, con due spalle larghe quanto il tronco di una montagna, due avambracci forti come leve, i palmi delle mani talmente ruvidi che se li usava per strofinare una moneta di metallo dopo era impossibile stabilire che valore avesse. Se col polso schiacciava una mandorla secca contro un muro, gli ottantamila abitanti di Beit Lahiya e di Jabalya sentivano le briciole dei gusci gridare aiuto sbattendo sui muri dei vicini. Nasreddin portava il montone di suo nonno Abbas (il vecchio aveva comprato l’ovino con lo scopo di affittarlo quando le pecore erano in estro. Era un animale col manto chiaro, gli occhi color miele e una barbetta rossa e morbida che tanto assomigliava alla barba del nonno) sulle spalle come chiunque altro avrebbe fatto con un gattino. Era grazioso, aveva bei lineamenti e una carnagione della tinta del vino cupo e ruvida come amano le donne.
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